“Tempi glaciali”, di Fred Vargas: un nuovo caso per Jean Batipste Adamsberg

 
Sul finire dell’anno scorso ho letto TEMPI GLACIALI, uno degli ultimi lavori di Fred Vargas, al secolo  Frédérique Audouin-Rouzeau. Dopo quattro anni di silenzio è tornata la nuova Signora del giallo europeo, pubblicando uno di seguito all’altro questo romanzo (2015) e “Il morso della reclusa” (2017). Prima che questa bravissima scrittrice facesse la sua comparsa  il giallo classico ( per intenderci quello senza scene splatter, con poco sangue e poche scene di sesso) sembrava destinato a far parte della storia. Sono cresciuta leggendo  Agatha Christie e Simenon, autori con la “A” maiuscola che producevano gialli di squisita fattura, eleganti, intriganti, dove il vero protagonista era l’investigatore privato o l’ ispettore di polizia. Il signore in questione (o la signora, come nel caso di Miss Marple) riusciva a risolvere l’intricatissimo caso non grazie all’  abilità nell’azione, bensì grazie alle straordinarie capacità intellettive (ce lo vedete Poirot a compiere rocamboleschi inseguimenti, agile e fulmineo, mentre il cattivo di turno gli spara addosso una raffica di proiettili ?). Il morto nei gialli antichi aveva una sua dignità, il  cadavere della vittima veniva per lo più visionato in obitorio quando ormai aveva già un cartellino attaccato all’alluce, oppure veniva ispezionato sotto un pietoso lenzuolo bianco, se il fatto avveniva subitaneamente. I dettagli truculenti delle autopsie ci venivano risparmiati, così come la meticolosa descrizione di sparatorie e/o accoltellamenti vari, con fuoriuscite di viscere e materia grigia. Tutta roba che ultimamente mi aveva allontanato dal genere, facendomi preferire i thriller psicologici, dove alla peggio si ha a che fare con pazzi psicopatici e con deliri mentali. Ringrazio quindi la Vargas per aver restituito sobrietà ad un genere che secondo me stava cadendo in disgrazia, ma soprattutto perché noi amanti di questo tipo di letture finalmente abbiamo un nuovo idolo: il commissario del XIII Arrondissement di Parigi, Jean-Baptiste Adamsberg. Se da una parte Adamsberg può essere   annoverato di diritto  tra i brillanti risolutori di enigmi, insieme a personaggi del calibro di Poirot, Maigret, Sherlock Holmes e Miss Marple, dall’altra se ne discosta moltissimo. Perché lui ha un metodo tutto suo, che segue qualunque cosa fuorché una logica. Un metodo che non è un metodo. E’ ispirazione pura, che arriva in un attimo ma che spesso non arriva affatto, e che gli ha valso il favoloso soprannome di “spalatore di nuvole”. Deduzioni, ragionamenti, indizi scandagliati con lenti di ingrandimento, indici passati sulla scena del crimine per analizzare polveri invisibili agli occhi dei comuni mortali: scordatevi tutto questo. A parte l’ ovvia impossibilità di emulare Poirot & Co. perché oggi come oggi la polizia scientifica sequestrerebbe immediatamente  la scena del crimine scandagliandola  con il luminol da capo a piedi,  il nostro nuovo eroe è comunque molto diverso dai suo predecessori. Come accennavo sopra, non si cimenta mai in cervellotici ragionamenti, non ha uno schema mentale con cui procedere, niente di niente.
La sua particolarità è proprio questa: sembra sempre perso nel suo mondo interiore, indifferente ai fatti nudi e crudi ma  in forte empatia con le persone coinvolte, va a destra quando tutti gli dicono che dovrebbe andare a sinistra, passeggia, si arrotola sigarette, beve caffè gettando lo sguardo fuori dalla finestra del commissariato e poi , quando tutti i suoi collaboratori stanno perdendo le speranze di sciogliere il bandolo della matassa, ecco che come una folgore  arriva Jean Batipste Adamsberg con la soluzione del caso. Ogni volta è così, ogni volta i colleghi lo danno per spacciato per poi ricredersi e tornare così  a sperare di non perdere più il proprio posto di lavoro all’anticrimine. E anche noi,  mentre proseguiamo nella lettura, ogni volta ci domandiamo se ha trovato uno straccio di indizio, a cosa sta pensando, cosa sta facendo, perché cazzeggia anziché prendere il suo soprabito e andare a fare domande ai conoscenti della vittima, solleticandosi i baffi o rabboccandosi la pipa. Fino a quando la risposta arriva, e allora avresti solo voglia di stringergli la mano, perché caspita se è in gamba questo commissario con la testa per aria e gli occhi che vagano sempre chissà dove. Lui ha capito, tu no. Mentre tu avresti messo sotto sopra mezza Parigi, lui camminava lungo la Senna e faceva cerchi di fumo, in attesa dell’intuizione geniale che spazzerà via le nubi. Soprattutto farà tirare un sospiro di sollievo al suo assistente Danglar, con cui ha da sempre un rapporto ambiguo, conflittuale, ma anche  di profonda stima e rispetto. Perché Danglar è tutto quello che lui non è:  metodico, colto, buon padre di famiglia, forte bevitore con problemi cardiaci dovuti al sovrappeso, poco attraente ma sofisticato ed elegante. La sua logica ferrea  da poliziotto fatto e finito  si contrappone continuamente  al caos mentale del suo superiore, in uno scambio di battute ironiche e taglienti. Essendo il suo opposto, Adamsberg ha bisogno di lui. Così come Danglar, anche gli altri  componenti dell’anticrimine sono  i veri mattatori del romanzo, e la Vargas è una maestra nel dar loro vita , forma e spessore. Per ognuno di loro ha costruito un passato e dei tratti caratteriali che li rendono unici, psicologicamente ma anche fisicamente. Ed è così che diventano estremamente reali, tanto da sembrare nostri amici. Perché sono un po’ strani, ( e chi non lo è ?), sono logorati dalla vita come tutti noi ma  nonostante questo sono sempre pronti ad onorare la divisa che indossano, orgogliosi di essere poliziotti.
 
Questa volta la squadra di Adamsberg deve risolvere un caso che dalla fredda Islanda dei giorni nostri ci porta indietro nel tempo fino  al periodo di Robespierre e del regime del Terrore. C’è un triplo filo conduttore in questo giallo, che però non sembra portare da nessuna parte, aggrovigliandosi su se stesso fino a formare  una matassa sempre più intricata. Una catena di suicidi apparentemente collegati tra loro  condurrà gli uomini dell’anticrimine  fino ai ghiacciai islandesi per poi riportarli nuovamente a Parigi, nel bel mezzo di una congregazione di fanatici della Rivoluzione Francese. Gli adepti della congrega   durante le loro sedute rievocano gli avvenimenti salienti di quel periodo, con  allestimenti in costume ed immedesimazioni che vanno oltre il semplice divertimento, dando origine ad un gioco pericoloso che è pura follia. Infine la squadra segue un’altra pista ancora: si tratta di una fattoria situata nella campagna parigina, appartenente alla famiglia Masfauré. Qui il mistero si infittisce ancora di più, poiché la famiglia custodisce terribili segreti che sembrano non portare luce sulla vicenda, ma solo altri grovigli. Tre strade da seguire che più diverse non potrebbero essere, molteplici misteri, personaggi ambigui, cinghiali addomesticati, un viaggio in Islanda risalente a dieci anni prima in cui morirono alcune persone, la leggenda dell” afturganga”, uno spirito terrificante e primordiale che vive sull’isola, ed una pietra dai poteri misteriosi che tutti gli abitanti del luogo  conoscono. Ma da cui tutti si tengono alla larga.
Ogni cosa sembra sfuggire di mano anche a noi lettori, la storia si mischia con la leggenda, e più andiamo avanti  peggio è. Alcune volte ci ritroviamo anche noi a spalare le nuvole insieme ad Adamsberg, ma poi alla fine arriva l’intuizione che risolve il caso e noi restiamo lì a bocca aperta, un po’ sbigottiti, molto perplessi. Anche  dopo aver riposto il libro sullo scaffale per qualche giorno  ci ritroveremo  ancora  a domandarci  cosa diavolo sia successo in realtà.
Se questo è lo scopo di un libro, ovvero farsi ricordare, la Vargas ancora una volta ci è riuscita.

 

 
 
 
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