“Il matrimonio di mia sorella”, di Cinzia Pennati: la felicità è per chi ha imparato a desiderare

Questo è uno di quei romanzi che, se non fosse stato per l’incontro con l’autrice, probabilmente non avrei mai letto. Il titolo e la copertina mi avevano allontanata, perchè suggerivano l’idea di un romanzo troppo rosa per i miei gusti, che di romantico non hanno davvero nulla. Non mi piacciono le storie zuccherose, detesto le banalità amorose fini a sè stesse, per non parlare dei matrimoni! Orticaria allo stato puro. Avevo letto la sinossi, ma probabilmente già fuorviata dall’idea che avevo in testa decisi che no, non avrei letto una storia di donne che si azzuffano tra di loro per poi ritrovare se stesse; donne che ad un certo punto delle loro vite ingaggiano battaglie epocali ma che alla fine fanno pace col mondo, fanno pace con l’amore e tornano a spadellare felici e contente. Il matrimonio come chiusa perfetta? Anche no!

Invece stavo commettendo un errore madornale. Da quando mi sono iscritta al gruppo di lettura della libraia Nadia stanno accadendo cose bellissime, come in una sorta di reazione a catena. L’incontro con Cinzia Pennati è stato una di queste: quasi per caso ho deciso di partecipare alla presentazione che Nadia avrebbe fatto di questo libro, come se avessi avuto un presagio, un sentore. Non credo in tante cose, ma sono fermamente convinta che tutto accada per una ragione e che, quando decidiamo di aprirci al nuovo, mettiamo in moto un meccanismo inarrestabile di possibilità. Ascoltavo l’autrice che parlava delle protagoniste del suo romanzo, spiegando l’essenza del suo parto cartaceo, e mi sono sentita profondamente coinvolta dalle sue parole, dalla storia di Agnese, Celeste, Ines, Norma, Fiamma e Rosa, al punto che quando ho iniziato a leggere i pensieri di Agnese, la protagonista principale, ho fatto fatica a credere che appartenessero ad un personaggio inventato e non a me. Fin dalle prime pagine veniamo catapultate nella vita di questa donna in bilico, una funambola quarantenne che cerca di non perdere l’equilibrio precario delle sue giornate, percorrendo distanze siderali con la stessa incertezza e la stessa paura di chi cammina sospeso nel vuoto.

Ma chi sono queste donne? Agnese e Celeste sono sorelle, Ines è la loro madre, Norma la nonna, Fiamma la cugina e Rosa la prozia. Un albero genealogico tutto al femminile, i cui legami sono un filo sottilissimo che si spezza e si ricuce continuamente , in una girandola di affetti maltrattati, di recriminazioni, di incomprensioni, di segreti che nutrono ostilità e rancore. Tutto il romanzo si completa in un solo giorno, quello del matrimonio di Celeste. Sarà un matrimonio da favola, romantico, perfetto. Celeste sarà bellissima nel suo abito da principessa sexy, con una cascata di strass ad incorniciarle il corpo sinuoso. Il giorno più bello della suo vita, perchè per ogni donna il matrimonio lo è. O forse no. Già, perché niente è come sembra e l’autrice ce lo ricorda ad ogni pagina, ad ogni nuova protagonista che ci presenta. I membri di una famiglia si ritrovano al gran completo solo in due occasioni: ai matrimoni e ai funerali. I legami di sangue implicano dei doveri a cui non possiamo sottrarci, anche se al solo pensiero dei nostri parenti in riunione plenaria vorremmo fuggire a gambe levate. Eventi come questi mettono dei punti fermi, rappresentano l’inizio di una nuova vita e la sua fine e pertanto ci invitano a fare i conti anche con le nostre, di esistenze. Quelli come noi si ritrovano a fumare in un angolo stilando bilanci immaginari, il più delle volte disastrosi. Siamo costretti a condividere giorni interi con chi non avremmo mai scelto liberamente, i lacci che ci legano l’uno all’altro si accorciano e ci rimbalzano addosso come elastici, più sono lontani e più sono tesi e basta un minimo movimento per farli saltare in aria. Chiedetelo ad Agnese, che mentre raggiunge casa dei suoi genitori per i preparativi della sorella non fa altro che pensare al disamore che da tempo nutre per un marito che non è mai stato suo complice, frizzando di piacere per un caffè rubato e qualche sms scambiato con un collega. Agnese che ha due bambine piccole che ama profondamente, da cui però a volte vorrebbe fuggire lontano, in un luogo disabitato dai figli, sentendosi per questo pessima. Agnese che con sua madre Ines ha un rapporto conflittuale, perchè sono come ogni madre ed ogni figlia: diverse, appartenenti a mondi paralleli, che non si potranno mai sovrapporre l’una all’altra, ma che potrebbero imparare a godersi l’ombra reciproca e a camminare fianco a fianco. Anche Ines in fondo sa bene cosa si prova ad essere una figlia che agli occhi della propria madre non combina mai nulla di buono: Norma, sua madre, la nonna di Celeste ed Agnese, la critica costantemente anche adesso che ha più di 60 anni ed è nonna a sua volta. Ines e Norma rappresentano la parte irrazionale di ogni madre, quella parte che fa a cazzotti con noi figlie, perchè non siamo e non saremo mai come ci immaginavano quando abitavamo nei loro grembi, e ancor prima nei loro pensieri. Volevano una piccola sè stessa, una bimba a cui  affidare la realizzazione dei loro sogni incompiuti, a cui regalare bambole e vestitini rosa… e invece si sono ritrovate ad allevare individui di cui non conoscevano i meccanismi. Che fregatura! Siamo state tutte quante figlie di questa fregatura, suppongo. La differenza è che poi, dopo tante battaglie, le cose si aggiustano: veniamo accettate per le figlie che siamo, ed impariamo ad amare le madri che abbiamo. Norma ha dovuto aspettare 80 anni e rivelare il suo segreto per fare pace con sè stessa e con la figlia, Ines ha dovuto scontrarsi con la fallibilità della figlia perfetta, Celeste, che qualche ora prima del matrimonio si rompe in mille pezzi come una bambola di cristallo. Fiamma vive all’estero da qualche anno, non parla più con sua sorella e non sopporta i suoi genitori, che vivono una vita coniugale frutto di compromessi per lei inaccettabili. Tornerà a Genova per fare da testimone alla cugina, con un bagaglio di confusione e di segreti. Anche lei.

Infine c’è la zia Rosa. Meno male che c’è lei! Rosa, 80 anni suonati da un pezzo, non si è mai sposata e non ha mai avuto figli. Eppure è quella che più di tutte dispensa amore e tenerezza, forza ed equilibrio. Conosce le sue nipoti più di chiunque altro, perché è l’unica a cui loro si sono sempre potute affidare senza la paura di essere giudicate. Rosa sa capire, accetta le donne della sua famiglia per quello che sono, è la parte migliore di ogni madre e di ogni nonna, la parte più saggia, quella scevra da ostilità. E non importa se non ha mai partorito figli suoi, se non ha mai accudito nipoti sangue del suo sangue: Rosa sa amare, e sa amare perchè prima di tutto desidera. Desidera la felicità per se stessa, non la vuole ottenere attraverso le vite altrui. L’ha conosciuta e sa riconoscerla anche ora che è vecchia e fragile, così come sa riconoscere il dolore quando è tanto profondo da uccidere dentro. Chi se ne importa se oramai ha ottant’anni! L’ormai non esiste, il presente è l’unica possibilità. “Non accontentatevi di una vita tiepida” dice Rosa alle sue nipoti, di fronte ad una bottiglia di sherry che ha sciolto i segreti di ognuna.

Andate in libreria e comprate il libro di Cinzia Pennati, perchè è uno di quei romanzi che prende la pancia e ti resta dentro. Leggetelo ma non aspettatevi il classico lieto fine, perché dubbi, paure ed incertezze accompagneranno le protagoniste fino all’ultima pagina. Non è questo il messaggio, non è un romanzo del tipo “E vissero tutti felici e contenti”. Quello ce lo insegnano Cenerentola e le sue amiche, ed è una sola pazzesca. Questo romanzo è terapeutico, ed è quella la sua forza. Parla di donne vere, imperfette, incomplete, incasinate, donne che sbagliano come madri, come figlie, come compagne. Donne che non si piacciono mai, a parte quando azzeccano il vestito giusto. Donne che accudiscono, ma che al tempo stesso vorrebbero teletrasportarsi su un’isola deserta, sgombra da mariti, figli e madri. Donne che vorrebbero strapparsi di dosso l’etichetta con cui la società le cataloga fin da quando sono nate, fare a pezzi i clichè e dare spazio ai propri desideri, inventandosi il tempo anche quando di tempo per sè non ce n’è mai.

E vissero tutti felici e contenti perché impararono a desiderare”.

Questo è il finale perfetto, quello giusto per ogni esistenza.

Il matrimonio di mia sorella, Cinzia Pennati (Giunti)

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“Chocolat”, di Joanne Harris: che sapore ha la felicità?

Quando vidi il film “Chocolat“, con Juliette Binoche e Johnny Depp, mi innamorai del piccolo paesino francese di Lansquenet, in Provenza, e dell’incantevole Vianne Rocher. Ma il libro è proprio un’altra cosa. Prima di tutto alcuni elementi fondamentali sono stati cambiati, ma è soprattutto la passione fugace tra Vianne e Roux ad essere stata completamente trasformata: ciò che nel libro è velato e marginale nel film diventa il perno su cui ruota buona parte della sceneggiatura. A ben guardare infatti la locandina del film rappresenta un’ammiccante Juliette Binoche che offre un cioccolatino all’affasciante Johnny Depp, con un chiaro intento seduttivo. L’immagine richiama ad una maliziosa  passione tra i due, ma Joanne Harris ha previsto ben altro per Vianne. Il cioccolato per l’autrice non rappresenta un afrodisiaco che lega i due amanti, ma diventa uno strumento importante, quasi divinatorio, attraverso il quale la giovane donna riesce a donare  istanti di gioia  alle persone. Vianne riesce a leggere l’infelicità nei cuori degli altri: la intuisce, la vede,  la sente su di sè e trova il rimedio adatto per lenire i dolori di ognuno. Perchè  il cioccolato  inebria i sensi e regala istanti perfetti.
Vianne e la figlioletta Anouk arrivano a Lansquenet un giorno di febbraio,  durante il carnevale. Il vento fa vorticare gli ultimi fiocchi di neve in un turbinio di profumi che sanno di festa, per poi posarsi lievi sui marciapiedi lungo le strade. E’ martedì grasso, l’ultimo giorno prima della quaresima, periodo di rinunce di penitenza.Vianne sa che per lei la giornata assumerà un risvolto partocolare: quello che sta soffiando è un  vento diverso da ttuti gli altri, lo percepisce nitidamente annusando l’aria. E’ un vento che conosce bene, perché lo insegue  da tutta la vita. Quando quel vento soffia, significa che per lei ed Anouk  è giunto il momento di affrontare un nuovo percorso.
E’ deciso: si fermeranno a Lansquenet.
La vita nel piccolo paesino scorre placidamente, gli abitanti sono chiusi in una loro naturale ritrosia ed il capo spirituale della microscopica comunità, un giovane curato bigotto e ottuso,  identifica immediatamente Vianne come una figura negativa e pericolosa per l’equilibrio spirituale dei suoi parrocchiani. Francis Raynaud è attratto dal fascino della donna ma al tempo stesso ne è anche terrorizzato: in lei vede un’ autentica tentazione demoniaca. Non è sposata, è una ragazza madre, è decisa ad aprirsi un’attività tutta sua per mantenere se stessa e la figlia e non ha bisogno dell’aiuto di nessuno. Inoltre non è nemmeno credente! Non solo il parroco, ma anche la maggior parte degli abitanti di Lansquenet nutrono diffidenza e sospetto nei suoi confronti, e vedono la  provocazione dappertutto: nei suoi abiti colorati, nei suoi capelli lunghi e fluenti che porta sciolti,  in quegli occhi neri che  leggono dentro le persone…  Lo scompiglio che porta nell’immobilità di quel paese così insignificante da essere dimenticato persino dalle cartine geografiche è inevitabile. Ma Vianne lo sa, l’ha già sperimentato tante altre volte, e non se ne cura. Prende in affitto la vecchia panetteria del paese e la trasforma ne ”La Celeste Praline“, una cioccolateria festosa e piena di delizie. In pochi giorni il locale viene rimesso in sesto e reso accattivante dalle sapienti mani di Vianne e dalla piccola Anouk che con la sua gioia infantile dona un tocco ancora più magico all’insieme. Sono diversi i personaggi che da quel giorno in avanti cominceranno a gravitare intorno alla cioccolateria, dapprima timidamente e quasi sentendosi in colpa per quelle golose concessioni, per poi lasciarsi andare completamente ai piaceri del palato. Ogni dolcetto  viene scelto con cura da Vianne, perché sa esattamente quali sono i preferiti di ognuno: è una dote naturale, una specie di stregoneria. Ad ogni piccolo morso sembrano sciogliersi, come il cioccolato nei loro palati, fino a raggiungere il punto più segreto ed intimo della loro anima. In un crescendo quotidiano di amicizia e di nuove consapevolezze, i sentimenti vecchi e nuovi si mescolano ad innocenti peccati di gola, portando istanti di felicità a chi aveva smarrito la strada. Un uomo timido e solo, che ha come unico amico un cane ormai vecchio e malato; un’anziana signora in lotta da anni con la figlia, che vuole vivere e morire come meglio crede; una donna imprigionata in un matrimonio sbagliato con un uomo orribile, che deve ritrovare prima di tutto l’amore per sè; un gruppo di nomadi che vivono sulle barche ormeggiate lungo il fiume, rifiutati e disprezzati dalla comunità perché non hanno scelto di conformarsi alla vita del paese. Ed infine c’è Roux, lo zingaro scontroso e sfuggente con i capelli rossi come il diavolo, ma onesto e dal cuore grande. Questo è il caleidoscopio umano che l’autrice ci presenta, una varietà imperfetta e piena di tribolazioni, ma con un unico desiderio: riconoscere ancora il sapore della felicità.

“Mi piacerebbe … seguire il sole con nient’altro che una valigia e non avere la minima idea di dove sarò domani.”

Joanne Harris riesce a rendere l’atmosfera del romanzo unica. Gli argomenti affrontati non sono frivoli, tutt’altro: l’emarginazione, la diversità, la solitudine, l’amicizia, la malattia, la vecchiaia, il senso di perdita…tutto viene toccato con la giusta dose di profondità, ma anche stemperato da un senso di leggerezza che addolcisce le pene, esattamente come il cioccolato. Sfogliando le pagine si ha davvero una sensazione olfattiva molto intensa, che attinge dai nostri ricordi, perchè le parole hanno un potere evocativo fortissimo. Il cibo e lo spirito sono legati indissolubilmente, questo viene da pensare mentre abbiamo la certezza di sentire il profumo inebriante del pan au chocolat invadere la nostra stanza.

Chocolat, Joanne Harris (Garzanti)

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“Il porto delle nebbie” di George Simenon: lupi di mare e antiche vendette

Il protagonista di questo romanzo non è Maigret, e nemmeno l’assassino a cui sta dando la caccia. Il vero protagonista di questo giallo è la piccola cittadina portuale di Ouistreham, nella bassa Normandia, imprigionata da una nebbia sottile che non molla mai la presa. Il romanzo è interamente ambientato in un’atmosfera che, riprendendo le parole di Simenon, non si può definire sinistra perché “è un’altra cosa, una vaga inquietudine, un’angoscia, un’oppressione, la sensazione di un mondo sconosciuto al quale si è estranei, e che continua a vivere di vita propria intorno a noi”. Se dovessi definire in una frase sola la nebbia non avrei saputo trovare parole più adatte di quelle che ha usato Simenon, un autore che amo moltissimo e che non smette mai di sorprendermi. Il suo stile è perfetto: essenziale ed intenso, non si perde mai in inutili descrizioni nemmeno quando deve aiutarci a sbrogliare  ingarbugliate matasse fatte  di assassini, lupi di mare e antiche vendette mai portate a termine.
Una massa scura nell’oscurità. Un puntino luminoso sul ponte. Un altro, quello in cima all’albero, che pareva già una stella smarrita in un cielo da fortunale.
Ouistreham è un susseguirsi di tipiche abitazioni marinare, perennemente avvolte dalla penombra e dall’aria elettrica che precede la tempesta, la cui vita segue il ritmo dei lavori portuali. Alle prime luci dell’alba le attività del porto sono già in pieno fermento: canali, chiuse, chiatte a motore, pescatori e marinai pronti a salpare animano la banchina fino a sera, quando la nebbia arriva a posare il suo velo di inquietudine sull’operosa borgata. A quell’ora è la bettola del paese ad animarsi, la “Buvette de la Marine”. Dal tramonto fine a notte inoltrata il fumoso locale, l’unico luogo di ritrovo del paese, si trasforma in un teatro in cui ognuno ha una storia da raccontare. Stivali di gomma entrano scalpicciando, berretti da marinaio vengono appoggiati su tavoli pieni di tacche, mentre l’acquavite ritempra dalle fatiche del giorno o di mesi interi. La suggestione esercitata dalla penna di Simenon su noi lettori è tale che  ci si scorda di tutto il resto: è facile dimenticare come in quel luogo che pare uscito da un quadro di Monet si nasconda in realtà una storia torbida, in cui tutti sembrano mentire e nascondere qualcosa. In effetti è proprio così: nessuno di loro dice la verità, perché hanno tutti paura che la polizia possa interferire con le loro miserie ed i loro segreti. Per la prima volta Maigret si trova osteggiato nella sua ricerca da un intero paese, proprio perché appartenente ad un’altra realtà. Un poliziotto parigino probabilmente non avrebbe mai saputo capire cosa significhi realmente essere un marinaio di Ouistreham: in quel porto sperduto della Normandia, in cui tutti si conoscono ed in cui la vita di mare detta le sue regole,  il rispetto e la dedizione nei confronti del proprio equipaggio sono una questione di vita o di morte. L’aspetto psicologico dei protagonisti ha come sempre una grande importanza ed anche questa volta costituisce l’elemento cardine su cui si basa tutta la vicenda. L’animo umano, con le sue molteplici sfaccettature e contraddizioni, è l’indizio che il nostro commissario non si dimentica mai di esaminare. Per Maigret il metodo razionale è secondario: è l’empatia che prova nei confronti delle persone a rappresentare quasi sempre la chiave di volta per la risoluzione del mistero.
E’ un caso poliziesco anomalo per Maigret sotto tanti aspetti,  non solo per il fatto che il commissario viene messo letteralmente “nel sacco” da un’intera comunità. La scoperta della verità arriva nelle ultime dieci pagine, ed è sorprendente perché Simenon non ha fatto altro che depistarci per tutta la durata del racconto: ci ha fatto smarrire nella nebbia, ci ha fatto spiare attraverso le finestre delle case, ci ha accompagnato a bere un boccale di birra a “La Buvette” senza concederci mai la possibilità di nutrire concreti sospetti. E’ strano inoltre leggere un episodio in cui la moglie non fa nessuna incursione, neppur minima, ed è ancora più raro non imbattersi in nessuna descrizione di Parigi. La vita parigina raccontata da Simenon mentre sposta Maigret da un capo all’altro della città è qualcosa di sublime, e dà ai suoi gialli quel tocco in più che li rende così speciali.
Ci ritroviamo quindi tra le mani un romanzo particolare, orfano di molti tratti caratteristici di Maigret ma ricco di fascinazioni e malìa. Un’atmosfera cupa ed opprimente, – a tratti quasi onirica – che Simenon riesce a trasporre in maniera magistrale sulla carta, un mistero fitto come la nebbia del porto di Ouistreham, antichi dissapori e questioni di “famiglia” mai risolte  che si celano tra la foschia e la bruma di una notte senza fine: divertimento e delizia allo stato puro.

“Il porto delle nebbie”, Georges Simenon (Gli Adelphi)

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“Il gusto proibito dello zenzero” di Jamie Ford: un paese diviso dall’odio

Seattle, anni 40. La seconda guerra mondiale infuria in Europa e il Giappone ha appena attaccato Pearl Harbor. Henry è un ragazzino di origini cinesi che, grazie ad una borsa di studio, frequenta una scuola americana molto rinomata. La sua compagna di classe Keiko invece è una ragazzina giapponese. Entrambi sono nati negli Stati Uniti, ma un feroce razzismo li condanna all’emarginazione e li rende facili vittime dei bulli della scuola. A differenza di Keiko però, Henry è emarginato anche all’interno della sua stessa famiglia: il padre è un nazionalista al limite del fanatismo ed odia i giapponesi con tutte le sue forze. Il suo paese di origine, così come quello in cui ora vive, è in guerra contro il Giappone e per questo motivo costringe il figlio ad uscire di casa con un distintivo cucito sulla giacca che dichiara a grandi lettere ” IO SONO CINESE”.

Henry si vergogna della propria famiglia e  non riesce a  comprendere l’odio che anima  suo padre, così  come non riesce a   comprendere quello degli Stati Uniti verso le famiglie di origine giapponese come quella di Keiko. Dopo l’attacco di Pearl Harbor fu promulgata una legge che impose l’esilio dei nippoamericani presso campi di lavoro forzati, espropriandoli delle loro case e dei loro beni. Ufficialmente fu un provvedimento preso per   proteggerli da ripercussioni razziste, ufficiosamente invece non fu altro che lo scotto che dovettero pagare in quanto appartenenti all’etnia nemica, che aveva “osato” colpire al cuore il Paese simbolo della civiltà occidentale. E’ troppo difficile capire per due ragazzini che considerano l’America il loro Paese, perchè per loro contano solo le cose che li rendono uguali e che li uniscono, non quelle che li dividono.

Erano molto diversi, ma non importava. Erano differenze che non si notavano. Erano simili e felici. Era difficile capire dove finisse uno e cominciasse l’altra.

La passione per il Jazz fu il loro magico collante, il punto di unione più forte e appassionato.  In quel periodo le strade di Seattle pullulavano di locali notturni dove i musicisti di colore si esibivano in tutta la loro esuberanza,  e dove gli avventori che non erano stati spazzati via dai venti di guerra potevano godersi qualche ora di pura gioia. Quelle bettole fumose  erano diventate il contrafforte che neutralizzava la paura delle bombe e della morte, luoghi perfetti in cui si congelavano istantanee di felicità. Non  si apparteneva più  a nulla se non a sè stessi,  chiunque entrava per un paio d’ore  smetteva di essere afroamericano, giapponese, cinese: erano solo persone che si divertivano, ascoltavano musica, ballavano, e bevevano di nascosto lo zenzero giamaicano.

C’è un disco di Oscar Holden  che racchiude tra le note tutta l’intensità di quei momenti spensierati, l’ amicizia e la tenerezza di un sentimento che stava nascendo.  ”Non pensare a quello che non hai più, ma pensa a quello che hai ora e cerca di andare avanti.” Questo è il motto di Henry. Ma poi, un giorno di quarant’anni dopo, Henry insieme a suo figlio ritrova quel vecchio 78 giri…

Ebbi la mia occasione, e a volte, nella vita, non ci si sono seconde chance. Guardi quello che hai, non quello che ti manca, e vai avanti.” […] “E’ come il disco rotto che abbiamo trovato”, spiegò Henry. “Certe cose, quando si rompono, non si possono più aggiustare.”

“Il gusto proibito dello zenzero”, Jamie Ford (Garzanti)

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“Beate noi”, di Amy Bloom: quando la sorellanza è salvifica

Questo libro è stato una folgorazione. A cominciare da un incipit straordinario che regala immediatamente al lettore  un’immagine forte,  un sorriso amaro e la curiosità di sapere cosa succederà da lì in avanti alla piccola Eva fino all’explicit, intenso e ricco di pathos, che racchiude in un solo fotogramma l’essenza di tutto il romanzo.
Stati Uniti, 1939. Le protagoniste sono due ragazzine, delle quali seguiremo pagina dopo pagina  la crescita ed i percorsi di vita:  per qualche anno viaggeranno su un unico binario, quello dell’infanzia,  ma la ribellione della giovinezza è dietro l’angolo e farà prendere loro direzioni completamente diverse, fino al ricongiungimento dell’età adulta, quando il significato del titolo “Beate noi” si svelerà in tutta la sua essenza. Per tutta la durata della storia continuerete a domandarvi senza sosta “Ma beate per cosa?“. Quanto meno io me lo sono chiesta praticamente ad ogni cambio di rotta che Amy Bloom fa compiere alle sue protagoniste, che sono davvero molti e spesso strampalati.
Iris ed Eva sono sorellastre che ignorano ognuna l’esistenza dell’altra fino a quando la madre di Eva decide che è giunto il momento di bussare alla porta di casa del papà della piccola, per fare finalmente  le proprie rimostranze. Eva ha undici anni, un infantile vestitino rosa e le trecce da ragazzina per bene: non sa che sta per essere abbandonata da quella madre giovane e snaturata. “Vado a fare un giretto“, dice ad Eva. Ma da quel giretto non tornerà mai più, lasciando la bambina nelle mani della famiglia paterna. E’ così che Eva conosce Iris, l’altra figlia di suo papà, ragazza bella e viziata, cresciuta negli agi, che ha Hollywood nella testa e sogna di diventare attrice. Eva è completamente diversa da sua sorella: bruttina, con il naso perennemente immerso nei libri da cui apprende tutto quello che sa, sembra l’anima saggia del romanzo e anche quella un po’ inutile, l’ombra della carismatica sorella, dalla quale viene trascinata in improbabili avventure senza opporre  resistenza. La vita le risucchia completamente: se l’espressione “vivere alla giornata” ha un significato, loro lo interpretano in pieno. La sprovveduta  e sciocca Iris si lascia travolgere dalla passione nei  confronti di un’attricetta sulla cresta dell’onda che le fa scoprire la propria omosessualità, cosa che ignorava completamente fino al giorno prima. A digiuno da qualsiasi esperienza amorosa, commette un’ingenuità che le costerà cara (la prima di una lunga serie) ed Eva, sempre al seguito della sorella, ne pagherà tutte le conseguenze . E’ sempre lei la vittima delle follie di Iris,  che a differenza della sorella si limita ad adattarsi alle onde della vita senza tuffarsi mai, che apparentemente non ha ambizioni, nè sogni nè desideri.  E’ Iris che prende, lascia, smonta, cambia. Eva raccoglie i pezzi, ricuce i brandelli delle loro esistenze alla bell’e meglio,  argina i fossi e tappa le buche. A metà romanzo abbiamo già lasciato Iris con la sua ultima tragica decisione, e seguiamo Eva che si ritrova suo malgrado a dover gestire una situazione privata e familiare difficile, con una forza che le arriva quasi naturale, senza andare a cercarla disperatamente da qualche parte. “Eravamo come i soldati di Stalingrado, che vanno avanti perchè non possono tornare indietro“. In questa frase è racchiuso tutto il mondo interiore di Eva. E’ come l’acqua di  un torrente, che si adatta al percorso che incontra senza arrestare il suo flusso. L’abbandono della madre, la malattia del padre, l’accudimento di Danny, l’affetto per Francisco, e infine l’amicizia di Clara, che di notte canta nei locali e che ha fatto della sua malattia un punto di forza: senza rendersene pienamente conto Eva vive intensamente la vita, molto più dell’impetuosa Iris che ostinatamente insegue il suo sogno, privandosi dall’affetto della famiglia e degli amici.
Non farti incantare da cuoricini e fiori, quella è roba da film. Tutte cazzate, disse. Scusami. Il ragazzo giusto è uno che ti va a prendere una medicina nel cuore della notte, anche se fuori c’è una tempesta, anche dopo vent’anni che state insieme. È quello che ogni giorno ti dimostra quanto ti ama spalando il vialetto pieno di neve, e portandoti le buste della spesa. Le belle parole non valgono niente, Eva.
Eva, tra una difficoltà e l’altra, scopre dentro di sè sentimenti di amore materno e filiale nei confronti di persone che il caso le ha buttato letteralmente addosso e trova il coraggio di affrontare il  passato con la determinazione che l’accompagna da tutta la vita, la stessa con cui affronta il presente ostile. Da timida ombra della fascinosa sorella diventerà il collante di un amore grande, un amore che investe tutto e che, finalmente, pianterà radici anche in quella strana e bistrattata famiglia. Un sentimento così forte che  sarà in grado di creare dal nulla un nucleo di affetti sinceri e disinteressati in cui le diversità di ognuno rappresentano la vera ricchezza ed i legami di sangue non contanto più di tanto. Sullo sfondo c’è la guerra con la sua  eco di paura e di sospetto che rimbomba in tutto il paese, stemperato dalla bellezza della musica Jazz e dai discorsi del Presidente Roosvelt, che  infondono fiducia e speranza in Eva e suo padre.
E’ un romanzo vibrante, che ci fa compiere voli pindarici e molti giri di giostra prima di giungere alla sua conclusione. L’autrice ha una  scrittura magistrale, in grado tenere insieme perfettamente il filo narrativo nonostante la varietà di situazioni che presenta la storia. Strappa sorrisi a più riprese e la tristezza degli accadimenti non soffoca mai noi lettori, perché Amy Bloom è talmente brava da non appesantirci il cuore anche quando ci immaginiamo questa ragazzina sparuta che fa a botte con il mondo, rialzandosi sempre, senza lasciarsi mai andare all’autocommiserazione. Ecco il perché del titolo: beate loro, Iris ed Eva, perché  l’amore tra sorelle è salvifico e fortunatamente riescono a capirlo prima che sia troppo tardi. Beate loro perché alla resa dei conti saranno in grado di chiedere ed accettare il perdono e perchè, più di ogni altra cosa, sono riuscite a rimanere ancorate alla vita nonostante tutto.

Sorride, con i denti bianchissimi in bella mostra. Gli occhiali da sole le pendono dalla mano alzata, come se le avessero appena detto di toglierli. Con l’altra mano solleva in aria un thermos argentato, verso il centro dell’immagine, le lunghe frange della sciarpa intorno al corpo sventolano alle sue spalle.
Anche l’altra donna è in ginocchio, curva al di sopra del gruppo seduto sul telo. Ha i pantaloni della tuta arrotolati alle caviglie e una camicetta bianca, sul telo s’intravedono i suoi piedi nudi. I capelli scuri sono raccolti in una coda di cavallo, gli occhiali, poggiati sulla testa, luccicano al sole. Sul prato accanto a lei un paio di mocassini. Ha il braccio destro teso e le mano sfiora quella dell’altra donna. La sinistra è posata sulla schiena del ragazzo, e l’uomo con gli occhiali tiene una mano sopra la sua.
Dietro di loro, nell’acqua, ci sono quattro barche a vela, nell’angolo in alto a destra un’ala di gabbiano. Al di là di una spessa coltre di nubi, il sole è alto sopra la scena e la luce cade omogenea su tutti i presenti, sul cestino da pic nic quasi nascosto dietro al vecchio, sul gabbiano che ha puntato l’involucro appallottolato di un panino, sulla rimessa per le barche, sulla sabbia chiara e liscia, sulle creste bianche delle onde che si rompono in lontananza, su tutto ciò che vediamo.

Beate noi, Amy Bloom – Fazi editore

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