“Leggere Lolita a Teheran”, di Azar Nafisi: La cultura e la donna nell’Iran di Khomeyni

“Leggere Lolita a Teheran” è un romanzo di Azar Nafisi, professoressa di letteratura anglosassone presso l’università Allameh Tabatabei di Theran, pubblicato nel 2004 ed immediatamente balzato in testa alle classifiche di tutto il mondo. Da molto tempo questo volume transita nella mia libreria ma ho costantemente  rimandato  la sua lettura,  perché l’idea di avventurarmi  nell’estremismo islamico non mi attirava, anzi, mi respingeva con forza. Quest’anno, complice una sfida tra amici lettori, ho finalmente deciso di affrontarlo. E’ un romanzo che strizza l’occhio al saggio, senza  capitoli in ordine cronologico, senza una trama vera e propria ma con un messaggio di fondo ben preciso, che ne costituisce il fulcro. Il testo è strutturato  in quattro parti,  ognuna delle quali prende il nome dei romanzi che la professoressa, più di ogni altro, amava insegnare ai suoi studenti: Lolita, Gatsby, Daisy Miller e Orgoglio e Pregiudizio. Questi titoli rappresentano non solo un preciso momento storico e personale della vita della Nafisi, ma  sono il simbolo  del legame che lei e le sue studentesse  ebbero con la letteratura in quegli anni  terribili, un’ancora di salvezza  alla quale  rimasero aggrappate per non venire inghiotte dal buio della repressione e restare umane, vive, consapevoli.

L’Iran è un paese con una storia millenaria affascinante, culla di antiche e nobili civiltà, ma  purtroppo la mia generazione ha imparato a conoscerlo solo dopo la rivoluzione islamica degli anni settanta, quando l’ estremismo religioso e politico dell’Ayatollah Khomeyni lo trasformò in un acerrimo nemico dell’ Occidente. Il romanzo è sostanzialmente la storia della professoressa Nafisi, figlia di un ex sindaco di Theran, che a tredici anni viene mandata a studiare in America, dove si formerà culturalmente. Dopo la laurea torna in Iran per intraprendere la  carriera di insegnante universitaria, ma già all’aeroporto ha la netta percezione di quello che starà per accadere: il suo non sarebbe stato un ritorno in patria, bensì l’inizio di una nuova vita in un paese radicalmente cambiato, ormai straniero.

Durante i primi anni che seguono la rivoluzione islamica la professoressa Nafisi continua ad insegnare letteratura inglese fino a quando le fu concesso di farlo, nonostante le difficoltà causate dalle materie “occidentali” che insegnava e dalla sua emancipazione. L’estremismo religioso imponeva divieti al limite del surreale, che di fatto rendevano impossibile una normale formazione, soprattutto per le ragazze. Era vietato correre per le scale, ridere con le compagne, mettersi i lacci colorati alle scarpe, perfino mordere una mela o leccare un gelato per strada erano considerati atti peccaminosi, e pertanto puniti severamente dalle guardie della rivoluzione. Si trattava di punizioni corporali che, a seconda della gravità dell’atto, si traducevano in un numero variabile di frustate, fino ad arrivare all’arresto e a lunghe prigionie a scopo rieducativo. Khomeini abbassò l’età minima per le spose a nove anni, in modo da poter garantire al buon fedele una moglie vergine, inaugurando una lunga serie di restrizioni, umiliazioni e violenze che le ragazzine subivano fin da piccole, all’interno delle famiglie e dei cortili scolastici.  In un clima simile l’educazione liberale della professoressa Nafisi si scontrava duramente col nuovo potere, il quale considerava la cultura occidentale  il nemico da sconfiggere, che contaminava e rendeva impuri. Paradossale ed emblematica è la figura del censore di quei primi anni post rivoluzione,  un uomo completamente cieco che per ovvi motivi tagliava le scene dei film stranieri senza alcuna cognizione di causa.  Questo personaggio viene spesso citato dalla Nafisi come simbolo di degrado,  per farci comprendere quanto la rigidità dei provvedimenti adottati dal regime talebano fosse talmente ottusa e priva di senso  da sfociare spesso nel ridicolo. L’università di Teheran era tra le più liberali dell’ Iran, non perché tolleravano quel genere di insegnamento o la sua figura di donna occidentalizzata, ma perché non prendevano provvedimenti  e sostanzialmente lasciavano che lei svolgesse il suo lavoro senza punirla come avrebbero fatto altrove. Era rispettata dalla maggior parte degli studenti e malvista dalle guardie della rivoluzione perchè la sua opposizione al regime non sfuggiva agli occhi più attenti, ma a differenza di molte sue studentesse non fu mai né arrestata né torturata in carcere. Dentro di sè  non accettò mai l’imposizione del velo, portandolo sempre con evidente rassegnazione, ma fu una ribellione silente, taciuta per sopravvivere. Quando con il passare del tempo la situazione divenne insostenibile decise di  abbandonare l’università ma non rinunciò all’insegnamento, organizzando un seminario tra le mura domestiche, destinato ad un ristretto gruppo di studentesse. Erano incontri privati e clandestini ai quali le ragazze, scelte tra quelle più meritevoli e promettenti, parteciparono con grande entusiasmo: è Lolita di Nabokov il primo romanzo scelto per questi incontri, un testo che era impossibile reperire nelle librerie di Theran, già da tempo purgate da qualsiasi opera occidentale. Nafisi lo fotocopia per tutte loro e da quel momento in poi sarà la letteratura a fare il resto. Quegli appuntamenti settimanali diventeranno un momento di rinascita individuale, uno spazio libero in cui le ragazze potevano togliersi il velo e la veste e rivelarsi per quello che erano, giovani donne che amavano laccarsi le unghie di rosso ed indossare jeans e t shirt colorate, che amavano ironizzare  su sé stesse  e sulla vita, mangiare dolci preparati in casa e bere caffè riflettendo sulla libertà espressiva di Nabokov, sul crollo delle illusioni di Fitzgerald, la critica sociale di Henry James e la modernità di Jane Austen. La letteratura rappresentava per queste ragazze non soltanto un mezzo per evadere da un contesto familiare e sociale opprimente, ma una concreta possibilità  di riappropriarsi di sè stesse e della  propria libertà di pensiero, quando tutto il resto veniva negato. L’affermazione della propria individualità, una rivolta non fisica bensì intima, era l’unica arma che avevano a disposizione per ribellarsi al fondamentalismo islamico, una battaglia per la dignità  combattuta studiando su libri trafugati, su testi fatti a brandelli e tenuti insieme dalla forza della disperazione.  Il romanzo diventa, anche per Nafisi stessa, uno specchio in cui è possibile scorgere i tanti riflessi di sé stesse e della realtà che le circonda, un luogo in cui potersi muovere liberamente, seppur restando seduti dietro le tende di un’abitazione privata .  “Leggere Lolita a Teheran” è una contraddizione in termini nell’Iran di Khomeini, è l’espressione individuale  contro un regime che omologa e che invade ogni spazio privato, è il potere della letteratura che arricchisce di nuove prospettive contrapposto alla censura cieca  del totalitarsimo, è la libertà di raccontare una storia qualunque contro il perfetto, irreale eroismo dei martiri religiosi.

Viene naturale chiedersi se, in un romanzo così apertamente ostile alla rivoluzione islamica e i suoi dogmi, siano molte le pagine dedicate alla denuncia sociale e alla critica politica. La risposta è no, tutt’altro. I fatti vengono raccontati attraverso l’esperienza della Nafisi come docente universitaria e delle sue studentesse, ma il romanzo non perde mai il suo centro, che resta il ruolo della donna  all’interno degli ambienti  culturali iraniani  nel momento in cui la letteratura, così come ogni altra forma di espressione,  stava per essere imbrigliata nelle fitte restrizioni del regime, trasformandosi in un accessorio  fragile e superfluo, la cui salvaguardia non interessava più a nessuno. I suoi ricordi sono  sempre stemperati da un’intensa nostalgia, si percepisce un amore profondo per le sue origini, per il suo paese martoriato dal fanatismo religioso e da anni di guerra con l’Iraq, per quell’antica Persia che la rivoluzione avrebbe dovuto restituire al popolo e che invece, come tutti gli atti violenti ed estremi, tradì i suoi ideali ed ebbe conseguenze nefaste.

Le uniche divagazioni che l’autrice si concede sono quelle letterarie,  che a mio giudizio appesantiscono un po’ il racconto e mettono in difficoltà il lettore che non ha dimestichezza con l’esegesi dei testi.  Inoltre la struttura non lineare del romanzo conferisce alla narrazione un ritmo poco sostenuto, che spesso rallenta e si perde nei ricordi della Nafisi. Le immagini si sovrastano l’una con l’altra ed anche i personaggi sembrano sfuggenti, tanto che alcune volte  collocarli nel contesto è difficoltoso.  Tuttavia, essendo il focus del romanzo slegato da una trama in senso stretto,  la lettura risulta comunque appagante, interessante, oserei dire quasi indispensabile  se si vuole comprendere meglio la realtà della condizione femminile nell’Iran fondato da Khomeini, ancora tristemente attuale, ed andare oltre i nostri pregiudizi nei confronti di questo popolo.