Tre libri per celebrare il 25 Aprile

IL PARTIGIANO JOHNNY, di Beppe Fenoglio

“Il partigiano Johnny” è un romanzo autobiografico di Beppe Fenoglio rimasto incompiuto e pubblicato postumo nel 1968, ideale prosecuzione del precedente “Primavera di bellezza”. Johnny, soprannominato così a causa della sua passione per la letteratura inglese, è un giovane ex ufficiale dell’esercito italiano che, in seguito all’armistizio firmato dal maresciallo Badoglio l’ 8 settembre 1943, approfittando del caos che tale decisione provocò all’interno delle forze armate, decide di disertare e di fare ritorno al paese natìo, dove per qualche tempo conduce una vita da imboscato sulle colline di Alba, nascosto dalla famiglia. Poco dopo però, insofferente a quella vita monotona e codarda, si arruola nel primo gruppo di partigiani che incontra in zona, di estrazione comunista, pur non approvandone né l’ideologia né la disorganizzazione con la quale affrontano la guerriglia. Proprio a causa di alcuni terribili errori di strategia  il suo gruppo fu portato al massacro;  Johnny, tra i pochi superstiti dell’ eccidio, cambierà definitivamente fazione passando ai partigiani badogliani, più moderati e più in linea con le sue idee militari. Potrebbe sembrare uno dei tanti romanzi antifascisti che omaggiano la storia della resistenza, invece è molto più di questo: fin dalla prime pagine intuiamo che la storia di Johnny ha un respiro differente, più profondo ed esistenziale. La grandiosità di questo romanzo sta infatti nella visione anti eroica con cui Fenoglio racconta la resistenza italiana, ponendo invece l’attenzione sul dramma umano, sulla crudeltà della guerra civile e sulla sua insensatezza. Ciò che lo distingue dalla letteratura di genere e che lo inserisce di diritto tra i più importanti romanzi del novecento è la profonda dimensione esistenziale che si astrae dal contesto e che rende universale le vicende umane di Johnny. La lettura di questo romanzo è, inoltre, un’ esperienza linguistica affascinante: la scrittura è pregna di invenzioni lessicali, inglesismi mescolati a retaggi dialettali e spesso i pensieri di Johnny vengono espressi con termini inglesi arbitrari ed adattati alla prosa. Un’ autentica avventura che all’inizio può sembrare un po’ ostica ma, se riusciamo ad accoglierla e abbandonarci ai suoi manierismi,  ci appagherà in maniera totalizzante.

L’ AGNESE VA A MORIRE, di Renata Viganò

“L’ Agnese va a morire” è un romanzo dal titolo emblematico, che ci svela fin da subito quale sarà il tragico epilogo della storia raccontata da Renata Viganò. Agnese è una lavandaia di mezza età che vive nelle valli di Comacchio con il marito Palita, un uomo molto debole di costituzione che, impossibilitato a svolgere lavori di fatica, si dedica anima e corpo alla politica. A causa delle sue posizioni antifasciste  Palita viene catturato e ucciso dai tedeschi, lasciando Agnese in balìa della disperazione e di un odio feroce che comincia a montarle dentro giorno dopo giorno, fino a culminare nell’omicidio di un soldato tedesco che per divertimento uccide l’amatissima gatta del marito. In seguito a quel gesto Agnese deciderà di rifugiarsi presso un gruppo di partigiani, con i quali comincia a vivere in clandestinità. Quell’ istintiva ribellione alla brutalità dell’ occupazione nemica fa maturare in lei, donna priva di cultura e di coscienza politica, una nuova consapevolezza che la porterà a diventare un’attivista della lotta partigiana. “Mamma Agnese” , questo il suo nome di battaglia, avrà un ruolo fondamentale nella guerriglia, meno militaresco e più umano, in cui si occupava dei militanti sfamandoli e sostenendoli, svolgendo lavori di logistica e di vivandiera. Pedalando con la sua bicicletta attraverso le Valli di Comacchio traporta cibo, munizioni e informazioni sfidando la sorte ogni giorno come staffetta, sempre al fianco dei suoi ragazzi, sempre fedele al suo battaglione, fino all’ultimo estremo sacrificio. Un romanzo anch’esso autobiografico, una testimonianza quasi in presa diretta degli accadimenti di quegli anni che non vengono mai edulcorati, ma raccontati con crudele realismo e struggente bellezza. E non è vero, come si legge nella chiosa, che di lei “resterà solo un mucchio di stracci nella neve sporca“: Mamma Agnese sarà per sempre un simbolo di forza, di fede, di speranza, di coraggio, il sacrificio di chi lotta senza remore, senza imposizioni e senza ideali altisonanti, ma  solo perché è giusto.

IL CORAGGIO DI CION, di Daniele La Corte

“Il coraggio di Cion” racconta la storia vera del partigiano Silvio Bonfante, nome di battaglia Cìon, che in dialetto del ponente ligure significa “chiodo”. Nato ad Oneglia (oggi Imperia) nel 1921, durante gli anni della resistenza come molti altri suoi coetanei si arruola nelle truppe partigiane dell’entroterra ponentino. Grazie alle sue doti di stratega diventa prima comandante di una banda, poi vice comandante della divisione “volante“, preposta alle più rischiose operazioni d’ assalto. La breve vita di Cion è una storia autentica che l’autore ha cercato di rendere ancora più vera ponendo l’accento sull’uomo nella sua complessità oltre che sul guerrigliero, un ragazzo di soli 23 anni con i suoi sogni, le sue paure e debolezze, i suoi affetti. Trascorre la sua esperienza da partigiano senza mai dimenticarsi della famiglia, soprattutto della sorella Anna, a cui è profondamente legato e che cerca di proteggere in ogni modo. Anche quando la lotta si farà dura e disperatamente incerta, su quelle montagne scenari di terribili e feroci scontri, la vita continua a pulsargli nelle vene e pretende di essere ascoltata: arriva l’amore e ha gli occhi di Fiammetta, una giovane staffetta che riuscirà a mettere a nudo la tenerezza di quel comandante così duro e deciso, svelandone l’aspetto più intimo e riservato. La battaglia di Monte Grande, tragicamente famosa per l’eroismo dimostrato da quel manipolo di partigiani che riuscì a mettere in fuga le truppe tedesche ben più numerose e meglio organizzate, trasforma Cion in un eroe leggendario. Un’impresa epica, ardita e quasi folle, che ancora oggi viene festeggiata ogni anno, la domenica più prossima a quell’indimenticabile 5 settembre 1944.

Come ogni eroe che si rispetti, anche Cion morirà sul campo di battaglia, a Briga Alta (CN), il 17 ottobre 1944. Un ultimo atto di coraggio e di sacrificio estremo che gli valse, nel 1946, la Medaglia d’oro al valore, con questa motivazione: “In nove mesi di continua lotta contro i nazifascisti creava intorno a sé, con le sue epiche gesta, un’aureola di eroica leggenda. Trascinatore entusiasta e combattente valorosissimo, ebbe largo seguito di giovani che, animati dal suo valore, accorrevano ad impugnare le armi per la redenzione della Patria. Ferito durante un cruento combattimento e raccolto in un ospedale da campo che veniva circondato da SS. tedesche, visto cadere al suo fianco il medico che lo curava e preclusa ogni via di scampo, per non fare trucidare i porta feriti e non cadere vivo nelle mani del nemico, si uccideva, concludendo la sua vita col volontario supremo sacrificio. Fulgido esempio di valore e di sublime altruismo”.

Tre libri “up-lit” per imparare la resilienza

ELEANOR OLIPHANT STA BENISSIMO, di Gail Honeyman

Di Eleanor Oliphant parlai già tempo addietro, quando qui sul blog pubblicai un’ entusiasta recensione per il gruppo di lettura che frequentavo all’epoca. ( per chi fosse interessato ad approfondire, eccola) Questo romanzo alla sua uscita riscosse un enorme ed insperato successo: il libro venne pubblicato grazie ad un concorso per esordienti e spopolò tra i lettori, diventando il rappresentante perfetto di un nuovo sottogenere letterario che si andava profilando all’orizzonte: quello della “Up Lit Literature“, ovvero la “letteratura uplifting” e cioè “edificante”, nel senso di costruttiva e positiva.

La protagonista è una trentenne londinese ordinaria: abita da sola in un bilocale, lavora come contabile in un’agenzia pubblicitaria e ha la passione per le parole crociate e la lettura. Una vita apparentemente come tante, se non fosse per alcuni dettagli che ci vengono rivelati fin da subito: è sociopatica, il fine settimana si stordisce di vodka fino all’oblio ed ogni mercoledì sera riceve le inquietanti telefonate di sua madre dal carcere. Tutto questo all’inizio genera irritazione e antipatia verso Eleanor, che nella prima parte del romanzo avrete voglia di prendere perennemente a schiaffi, ma con il progredire della storia qualcosa nella sua corazza si incrina. Poco alla volta, attraverso quelle crepe, riusciremo ad intravvedere tutta la sofferenza e la fragilità che le sue manie di controllo ed un’ inespugnabile routine quotidiana riuscivano a celare al mondo. Mentre insieme a lei affrontiamo il suo percorso di rinascita, l’empatia poco alla volta prende il posto dell’insofferenza fino a coinvolgerci profondamente in quella che è storia toccante di solitudine ed emarginazione, di speranza e di riscatto di cui non sapevamo di avere così bisogno.

CAMBIARE L’ACQUA AI FIORI, di Valérie Perrin

“Cambiare l’acqua ai fiori” è uno di quei romanzi che ti fanno riconciliare con la vita e che per questo motivo vorresti non finisse mai. Se il termine “up-lift” nella letteratura ha un senso, sta proprio nelle 480 pagine di questa storia: Violette Tuossaint è la custode del cimitero di un piccolo paesino della Borgogna, una giovane donna bella e solare che guarda la vita con incanto e ottimismo, a dispetto del luogo in cui ha scelto di abitare e di un doloroso passato. In quel microcosmo sperduto in cui il respiro dei morti si fonde coi palpiti dei vivi, un evento imprevedibile arriverà a scuotere l’esistenza che Violette è riuscita a costruirsi con tanta fatica, costringendola a riaprire la scatola dei ricordi e a fare i conti con i suoi demoni. Ad ogni capitolo si alternano salti temporali, frammenti di diari, lettere dal passato e nuovi incontri che, uniti dal filo del racconto, ci aiuteranno poco alla volta ad entrare nella vita di Violette e a comprendere le ragioni di quella sofferenza che pare esserle così familiare. Perché la scelta di vivere all’interno di un cimitero non è stata una decisione come tante, tutt’altro. E la gioia di vivere che sprigiona, e che manifesta silenziosamente attraverso gesti quotidiani semplici, come improvvisare un pranzo con le verdure dell’orto o curare i fiori tra le lapidi, è il solo modo che conosce per sopravvivere: lasciarsi andare al dolore, accoglierlo come un amico così come si accoglie la gioia e perdersi dentro questo caleidoscopio di sentimenti senza opporre resistenza. Violette Toussaint è un luminoso esempio di rinascita, di speranza, un emblema di resilienza che ci farà guardare alla nostra esistenza con occhi diversi e, soprattutto, grati. Anche solo per qualche minuto.

FINCHE’ IL CAFFE’ E’CALDO, di Toshikazu Kawaguchi

I libri giapponesi sono così: un insegnamento dietro l’altro, una filosofia di vita che si apprende tra le righe, un viaggio in bilico tra realtà e mondo onirico che da Murakami in poi ha fatto scuola ed ha finito per stigmatizzarli un po’ tutti. Quindi, prima di intraprendere questa lettura, è bene sapere che se siamo lettori molto razionali questo romanzo non fa per noi.

Questa è la storia di una caffetteria giapponese molto particolare, e dei suoi avventori. Pare che sia aperta da più di cento anni e che sia possibile, per chi ha il coraggio di entrarvi, rivivere un momento preciso della propria vita semplicemente bevendo una tazza di caffè. Ma c’è una regola fondamentale da rispettare perché questo avvenga: è assolutamente necessario finirlo prima che si raffreddi. Ecco quindi che la caffetteria rappresenta un’occasione per riavvolgere il nastro, per rimangiarsi quelle parole che non avremmo mai dovuto pronunciare in quel preciso momento, per imboccare l’altra strada davanti al bivio della nostra esistenza. Chi ha il coraggio di varcare la soglia e sedersi su quello sgabello solitario scoprirà una cosa fondamentale, che poi è il messaggio di fondo che l’autore vuole rappresentare con questa storia surreale e poetica: viaggiare indietro nel tempo e rivivere alcuni brevi istanti del nostro percorso terreno non modificherà nulla del nostro presente, ma può donarci la pace ed insegnarci il perdono e l’accettazione. Il passato non si può cambiare, ma possiamo farne tesoro per plasmare un futuro che, invece, è una pagina bianca ancora tutta da scrivere.

Tre libri dalla parte delle donne

(Tempo di lettura: 7 minuti)

il “femminismo”, inteso come movimento socio culturale, ha segnato l’epoca moderna e ancora oggi continua ad essere il promotore di numerose battaglie per l’affermazione dei diritti di genere. Non dovrebbe essere una questione ancora aperta, ma il fatto che nel 2022 continui a fomentare dibattiti, a promuovere manifestazioni e istigare movimenti a tutela delle donne (dal recente “me too moviment” alla difesa del diritto all’aborto, minacciato dai governi più conservatori) la dice lunga su quanto in realtà siamo ancora molto lontani dal raggiungimento del suo obiettivo fondamentale: una presa di coscienza collettiva, forte e coesa, in grado di insinuarsi nella struttura patriarcale della nostra società. L’asservimento delle donne alla figura maschile è una realtà sociale ancora molto radicata, soprattutto in ambito familiare, ma spesso non ne siamo consapevoli. Inconsciamente mettiamo in atto meccanismi che ci riportano indietro di cent’anni, con buona pace di Emmeline Pankhurst e di Simone de Beuvoir, che col suo trattato “Il secondo sesso” fece tremare la classe politica di allora e scomodò persino il Vaticano. Per questo motivo vale la pena leggere ( o rileggere, perché no) questi tre saggi: perché ci insegnano a riappropriarci della nostra individualità, messa in crisi da anni di relazioni prevaricanti (in ogni ambito della vita), ribadendo i concetti che stanno alla base di una “mentalità femminista” sana e necessaria, che rifugge dagli estremismi e dalla violenza verbale del passato.

  1. UNA STANZA TUTTA PER SE’ di Virginia Woolf

Una delle opere più amate e conosciute di Virginia Woolf è il saggio breve “Una stanza tutta per sè”. Pubblicato per la prima volta nel 1929 e rivolto inizialmente alle sole studentesse di Cambridge, nel tempo è diventato un vero e proprio manifesto culturale del femminismo. Quello buono, sano e giusto. Quando lo lessi per la prima volta avevo circa vent’anni e mi era sembrato che la Woolf si stesse rivolgendo proprio a me, spronandomi a perseverare nei miei obiettivi e a non abbandonare i miei sogni di ragazzina, anche se la mia vita stava prendendo una piega decisamente diversa.  Ho riletto questo suo saggio di recente ed ho compreso che, se interpretato nel modo giusto, può contribuire a migliorare la quotidianità anche di donne già mature, che con la vita sono dovute scendere a patti. In uno dei suoi passi più significativi l’autrice sprona le sue lettrici a rendersi economicamente indipendenti, a ritagliarsi uno spazio proprio, sia fisico che mentale, nel quale esercitarsi a scrivere in piena autonomia di pensiero. Tendiamo infatti a tralasciare quello che per la Woolf è invece essenziale: Il coraggio di esprimersi liberamente. Quella forza creativa che, se risvegliata dal torpore, è in grado di ridare vita alle scrittrici  invisibili, morte senza essere mai nate veramente, inghiottite da un mondo di uomini fatto su misura per gli uomini. Come l’immaginaria sorella di Shakespeare, che la Woolf assurge a simbolo massimo del genio e della creatività femminile rimasti inespressi poiché schiacciati dalle società patriarcali che da sempre dominano la storia. Come quella che vive e freme  in ognuna di noi, sotto pile di indumenti da stirare.

“Una stanza tutta per sè” non deve quindi essere percepito come un luogo fisico, perché la Woolf parla di un luogo dell’anima. Così come le poetesse sconosciute a cui ridare vita non sono altro che la sua personale metafora sull’ emancipazione femminile, fondamentale punto di arrivo (o forse di partenza) per le donne di qualsiasi generazione.

2. STAI ZITTA di Michela Murgia

“…e altre nove frasi che non vogliamo sentire più.

Al netto di alcune esagerazioni di troppo ritengo che il lavoro di Michela Murgia sia piuttosto interessante, perché riesce sbugiardare molte espressioni tipiche del nostro linguaggio comune, rivelandone la natura fortemente maschilista e misogina. La Murgia elenca con precisione queste dinamiche linguistiche e le eviscera una ad una, fino a dimostrare come certi modi di dire siano entrati talmente tanto a far parte del nostro parlato quotidiano da non farci più percepire il loro vero significato. Secondo l’autrice tra le ingiustizie che subiamo in quanto donne e le parole che ci vengono quotidianamente rivolte esiste un legame profondo, avvilente e mortificante, che con questo breve saggio cerca di mettere a fuoco. Ad esempio, quando si parla di una donna che svolge egregiamente una professione importante, si fa sempre riferimento al suo essere o non essere madre, come se il fatto di avere o meno dei figli sia determinante per riconoscerne il valore sociale. “E’ molto brava nel suo lavoro, ed è anche mamma” è la frase simbolo che ogni tre per due viene sciorinata dal giornalista di turno. Basti pensare alla povera Samanta Cristoforetti che si è dovuta sorbire soprannomi del tipo “Astromamma”, con relativi commenti poco edificanti sulle sue scelte professionali a discapito della famiglia: aggettivi inutili e fuorvianti che inevitabilmente portano in secondo piano l’eccezionalità della sua carriera. Che in realtà è ancora scivolata in terza posizione, visto gli insulti ricevuti per essersi mostrata al mondo con una capigliatura da assenza di gravità che secondo alcuni “luminari” la denigrava come donna. Come detto all’inizio del post in alcuni punti ho trovato lo scagliarsi della Murgia contro queste frasi di uso comune un po’ eccessivo e ridondante, con esempi e passaggi ricchi di autocompiacimento, tuttavia ne consiglio la lettura perché contiene molti spunti di riflessione, da rielaborare per un nostro accrescimento personale.

3. DOVREMMO ESSERE TUTTI FEMMINISTI di Chimamanda Ngozi Adichie

Questo saggio, pubblicato nel 2014, è l’adattamento di una conferenza che l’autrice tenne qualche anno prima durante l’evento TEDxEuston. TED è un’organizzazione no profit americana che ha come obiettivo la diffusione di idee innovative e stimolanti che possono cambiare la vita delle persone e il modo in cui esse si relazionano l’una con l’altra. Nessuno meglio di Chimamanda avrebbe potuto rappresentare questo progetto: il suo intervento ha letteralmente segnato un punto di svolta nella storia del femminismo, arrivando al cuore delle persone con una forza e una semplicità unica. Il suo speech conta ad oggi qualcosa come 5 milioni di visualizzazioni ed è stato pubblicato e tradotto in 28 lingue; il Time, nel 2015, inserisce la scrittrice nigeriana tra le 100 persone più influenti del mondo. Il successo di questo saggio sta nella diversità del suo approccio rispetto alla questione femminista: Chimamanda si definisce una “femminista africana felice”, che ama indossare il rossetto e i tacchi alti perché così si piace di più e che non odia affatto gli uomini, perché un’ attivista non deve essere necessariamente arrabbiata, in lotta perenne con il mondo. La sua non è una chiamata alle armi per affrontare l’ennesima battaglia, ma vuole far comprendere a tutti, uomini e donne, che esiste un serio problema con la differenziazione di genere e che tale situazione può essere risolta solo attraverso la consapevolezza e la volontà di smantellare i vecchi costrutti sociali. Afferma Chimamanda: “La mia definizione di “femminista” è questa: un uomo o una donna che dice sì, esiste un problema con il genere così com’è concepito oggi e dobbiamo risolverlo, dobbiamo fare meglio. Tutti noi, donne e uomini, dobbiamo fare meglio”. E’ proprio questo il punto. Educare i maschi e le femmine al valore dell’altro sesso, senza preconcetti, senza quei retaggi culturali da cui noi adulti ci stiamo liberando a fatica. Grazie all’intelligenza e alla grazia di questa scrittrice immensa il femminismo ha perso definitivamente la sua accezione negativa, dimostrando quanto non sia più necessario fare la barricadera per difendere i propri diritti, ma è sufficiente aprirsi al cambiamento ed accoglierlo al meglio.

Tre libri da leggere in autunno

(Tempo di lettura: 5 minuti)

Per scivolare pigramente tra le braccia dell’autunno appena arrivato, non c’è niente di meglio che abbandonarsi alla lettura. Le ombre della sera si allungano, le domeniche pomeriggio si fanno quiete e silenziose, avvolte da una soffusa luce dorata; agosto, con la sua sfacciataggine, lo abbiamo accomodato ormai fuori dalla porta. E’ ora di mettere su una tazza di the, di accoccolarci in poltrona e sprofondare in una storia che ci rapirà letteralmente l’anima.

1. L’OMBRA DEL VENTO di Carlos Ruis Zafròn

Pubblicato per la prima volta nel 2004, è il tipico esempio di un best seller che ce l’ha fatta, sopravvivendo a se stesso. Nel giro di qualche anno è diventato un vero e proprio classico della narrativa contemporanea tanto da guadagnarsi, per il suo quindicesimo anniversario, una nuova edizione riccamente corredata dalle suggestive immagini del fotografo Francesc Catalá-Roca, dedicate alla Barcellona post bellica in cui il romanzo è ambientato. Zafron, scomparso prematuramente nel 2020, ha imbastito una trama piuttosto originale che strizza l’occhio ad una molteplicità di generi: romanzo storico, mistery, giallo classico con spunti thrilleristici e notevoli incursioni nel gotico. Il tutto condito con elementi sovrannaturali che faranno storcere il naso alle menti più razionali e manderanno invece in solluchero tutte le altre. Ambientato a Barcellona del 1946, la storia ha come protagonista un ragazzino di undici anni, Daniel, il cui padre, proprietario di un piccolo negozio di libri usati, lo inizierà all’amore per la lettura e lo condurrà nei meandri di un mistero che si annida tra le pagine di alcuni vecchi testi. Durante la lettura attraverseremo insieme a Daniel i vicoli della città vecchia alla scoperta di antichi libri dimenticati ed orribili segreti, immersi in atmosfere plumbee e suggestive che renderanno la lettura di questo romanzo la compagnia perfetta per i nostri pomeriggi ottobrini.

2. I FALO’ DELL’AUTUNNO di Irène Nemirovski

La scrittura di Irene Nemirovski dispensa sempre momenti di pura gioia letteraria. Delicata e profonda, oltre che stilisticamente perfetta, la sua prosa evoca istanti di rara bellezza ed intensità, lasciandoci immersi in nostalgiche visioni, come se stessimo osservando rapiti un quadro impressionista. E’ davvero complicato riassumere in poche righe i motivi per cui vale la pena leggere questo romanzo, anche se una narrazione di così alto livello da sola potrebbe bastare come unica ragione. I protagonisti sono molteplici e differenti piani temporali scandiscono quella che è a tutti gli effetti un’opera corale, ambientata a Parigi negli anni a cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale. Tuttavia è la complessa storia d’amore tra Thérèse e Bernard a costituire il centro del romanzo, giovani vittime di un tempo feroce ed ingiusto. Le loro vite incarnano l’eterno conflitto dell’umanità tra il bene ed il male, qui rappresentati dall’amore ostinato di Thérèse e dal cinismo di Bernard, che torna dal fronte totalmente trasformato, come se la guerra gli avesse strappato via l’anima. La coralità delle voci protagoniste e la suddivisone della trama in “blocchi” narrativi, nonché le tematiche affrontate, verranno poi riprese e sviluppate dall’autrice nel suo capolavoro “Suite Francese“, rimasto incompiuto. L’autrice era un’ebrea ucraina naturalizzata francese, e come tale subì le terribili conseguenze della Shoah. Venne deportata Auschwitz, dove fu uccisa il 17 agosto del 1942.

” Vedi,” dice la nonna alla nipote, immaginando di prenderla per mano e condurla attraverso vasti campi in cui vengono bruciate le stoppie “sono i falò dell’autunno, che purificano la terra e la preparano per nuove sementi.

3. LE NOSTRE ANIME DI NOTTE di Kent Haruf

In questo romanzo non è l’autunno in senso fisico ad essere evocato dalla narrazione, ma l’autunno percepito come fase della vita, quella parte dell’esistenza che ci accompagna piano piano alla fine del nostro cammino terreno. Kent Haruf, dopo la pubblicazione postuma della sua famosa “Trilogia della pianura“, ci conduce ancora una volta nell’immaginaria cittadina di Holt, Colorado, facendoci conoscere due anziani vedovi, Addie e Louis. Un giorno come tanti Addie bussa alla porta di Louis proponendogli di dormire con lei per quella notte e per altre a venire, solo per farsi compagnia, per non sentire troppo il peso della solitudine. Nonostante le perplessità iniziali Louis accetta: nasce così un tenero sentimento fatto di notti trascorse a raccontarsi la vita a fior di labbra, mano nella mano, in attesa che arrivi il sonno. Nella quiete domestica di quelle sere le confidenze dei due diventano sempre più intime; attraverso confessioni, ricordi e rimpianti le loro anime affiorano in superficie in un modo nuovo, privo di giudizio, totalmente inaspettato. Naturalmente questa relazione non viene compresa dalla piccola comunità di Holt che ritiene decisamente inopportuni quegli incontri, se non addirittura scandalosi; ma, soprattutto, verrà osteggiata dai rispettivi figli, i quali considerano la convivenza notturna dei genitori una specie di follia senile. Nessuno riesce a percepire l’essenza di questo legame, l’atto di coraggio e di libertà che in realtà rappresenta. La vecchiaia per Haruf si trasforma in un’occasione di rinascita e la scelta di Luis ed Addie esprime il legittimo desiderio di essere nuovamente felici, contrariamente ad un’assurda regola sociale che vorrebbe gli anziani stare seduti al loro posto senza più disturbare, mentre attraversano con nostalgia e solitudine l’autunno della vita.

Vale la pena sottolineare però che lo stile di Haruf non è adatto a tutti: la trama è scarna e l’atmosfera rarefatta, i dialoghi sono ridotti all’essenziale e tutto contribuisce a proiettarci in una dimensione quasi spirituale, in cui gli avvenimenti restano sullo sfondo, superflui.