“Il mare dove non si tocca”, di Fabio Genovesi: la vita che si impara

Fabio Genovesi è uno di quegli autori che osservo da lontano da un po’ di tempo, da quando diede alle stampe ” Versilia Rock City”. Se come lettrice ho un difetto, è quello di snobbare un po’ gli autori italiani, innamorata come sono della cultura anglosassone: ed è così che Genovesi, non certo per colpa sua, è finito nel limbo di quelli che prima o poi sarebbero atterrati sul mio comodino. Questa volta però mi si è presentata l’occasione giusta per leggere il suo ultimo lavoro, e per fortuna, perchè le mie perplessità iniziali sono state spazzate via da un entusiasmo sempre crescente, un misto di tenerezza e simpatia che mi ha letteralmente  travolto fin dalle primissime pagine. Quanto ho amato Fabio Mancini, non ve lo so descrivere. Però almeno ci devo provare, perchè questo libro merita di essere letto e consigliato agli amici, di essere regalato e custodito teneramente in un angolo di noi stessi. Il motivo è molto semplice: il protagonista del romanzo è un bambino seienne, Fabio Mancini per l’appunto, che incontriamo poco prima che inizi le elementari e lasciamo oramai alle prese con le scuole medie. L’immedesimazione di noi lettori in Fabio è immediata, semplice, inevitabile e naturale ed è per questo motivo che la tenerezza e la nostalgia ci avvolgono fin da subito così intensamente, come una coperta morbida.  Anche l’ambientazione gioca un ruolo importante, perché la vita di Fabio si svolge in quell’epoca magica che per noi quarantenni è rappresentata dagli anni 80. Un periodo che è sconfinato nella leggenda grazie alla vittoria dell’Italia ai Mondiali di Spagna nel 1982, che ha portato nelle nostre case il Personal Computer e che ha visto nascere una nuova classe sociale: quella degli yuppies, i giovani manager di successo diventati in breve tempo simboli di una ricchezza nuova che veniva ostentata ed invidiata. Il mondo di Fabio però sembra   essere ancora impermeabile a questa modernità che viene osservata con  distacco, guardata come qualcosa di cui avere paura e che non gli apparterrà mai veramente. Perchè lui ha una famiglia sui generis, anacronistica, strampalata, in cui il suo essere figlio unico è ampiamente compensato dall’invadente onnipresenza dei  numerosi prozii, fratelli del nonno paterno Arolando, morto qualche anno prima. Aldo, Arno, Athos, Aramis, Adelmo  sono un po’ tutti i nonni di Fabio, un po’ padri, un po’ zii…dipende dalle circostanze. Fabio trascorre con loro la maggior parte del suo tempo libero, imparando tutto su come si caccia nei boschi, come si pesca o come si raccolgono funghi, ma non sa nulla di come trascorrono le giornate i suoi coetanei. Non conosce il mondo dei bambini, non sa il nome dei loro giochi, e  si stupisce del fatto che i nonni sono al massimo quattro per ogni nipote, mai di più. Tranne che al Villaggio Mancini. Sì, perchè da quella parte del paese i Mancini sono così numerosi che si sono addirittura appropriati di una fetta di strada, intitolandola al loro nome. I Mancini sono tutti maschi, portano tutti nomi che cominciano per “A”, sono tutti scapoli, bevono come spugne, fumano come turchi, parlano male ma, soprattutto, sono tutti un po’ svitati. In paese si dice che un maschio Mancini, se supera i quarant’anni senza essersi mai sposato, diventa matto. E questo Fabio lo sa, l’ha sentito una volta origliando una conversazione della mamma e della nonna, ma non ce ne sarebbe stato bisogno in effetti perchè la verità stava proprio lì, sotto il naso di tutti. Bastava osservare uno a caso dei suoi zii per sfatare ogni dubbio.
 
E’ così che Fabio avanza passo a passo nella vita, con quella maledizione che gli grava sulla testa e che lo preoccupa non poco, piccolo bambino gettato in quel casino che è la vita degli adulti, investito di amore ma incapace di instaurare un legame con i suoi coetanei, che lo considerano strano e lo evitano volentieri. Gli occhi di Fabio sono fari che illuminano ogni sfumatura buia e riescono a cogliere la magia e l’incanto ovunque, anche quando il dolore travolgerà la sua famiglia. E’ un bambino cresciuto con gli adulti, ma  per fortuna non è riuscito ad assimilare i loro pensieri complicati, le mille preoccupazioni, la tristezza dei rimpianti, l’angoscia per il futuro. Anzi: è lui ad insegnare ai suoi genitori ed ai suoi tanti nonni che la vita in fondo non è altro che meraviglia e  stupore continuo, se solo riuscissimo ad abbandonarci ciecamente alla fiducia, e se cominciassimo di nuovo a credere che non c’è niente di veramente impossibile, anche quando tutto sembra andare nella direzione contraria. Fabio è  il simbolo di una purezza che tutti ormai abbiamo smarrito tra le pieghe dell’ansia e della paura di vivere , è una ventata di aria fresca che fa respirare il cuore, strappa sorrisi a più riprese e allontana l’amarezza con un soffio leggero. Racconta di un mondo che non c’è più ma che ci appartiene più di ogni altra cosa al mondo, è un storia che sa di buono, sa di giornate trascorse a scorrazzare  in bicicletta su e giù per il paese, sa di sole, di mare, di estati lunghissime e spensierate, fatte per imparare a pescare e a nuotare. Anche laggiù, dove la profondità del mare colora l’acqua di un blu inteso, che a volte fa paura. Eppure bisogna tuffarcisi, perchè è solo dove non si tocca che si impara a nuotare veramente.
 
È strano : aspetti sempre che qualcuno ti aiuti a imparare qualcosa, e invece impari così tanto quando sei tu che ti metti ad aiutare qualcun altro.
 
Questo romanzo ha il pregio di alleggerirci il cuore ed invitarci a ricordare, riesce a toccare i punti più nascosti della nostra memoria, quella a cui dovremmo attingere quando la vita ci prende a schiaffi, imprevedibile e violenta. Il vero capolavoro sta però nella scrittura di Genovesi, un piccolo prodigio linguistico: affida la narrazione ad un bambino, e come tale si esprime. I suoi pensieri hanno l’ingenuità  propria dell’infanzia e al contempo un cuore profondo,  una sensibilità speciale in grado di farci sorridere e commuovere allo stesso tempo.  Lo stile, la grammatica, la sintassi non perdono di una virgola il loro spessore, anzi se possibile risultano arricchite dal vocabolario infantile di Fabio. E’ difficile da descrivere, perché è un artificio letterario, e come tale va preso. Sarebbe bastato pochissimo a far precipitare Genovesi e tutti i suoi personaggi in una inverosimile parodia familiare, dove un bambino di sei anni è costretto a fare l’adulto da un manipolo di anziani,  talmente matti da non sembrare reali. Invece tutta la costruzione narrativa  è talmente ben riuscita che spesso mi sono ritrovata a pensare a quanto l’autore  abbia messo di sè e della propria vita in questo romanzo: non solo perchè il bimbo protagonista si chiama proprio Fabio, ma perché ogni pagina è intrisa di ricordi che non possono essere trascritti con tale intensità se non si sono vissuti. Traspare tutta l’anima di un ragazzino, un altro Fabio, cresciuto con amore da una famiglia numerosa, con un migliore amico emarginato da tutti perché molto più strano di lui, innamorato di una ragazzina ancora più sola di lui, che un giorno come tanti scopre per caso il potere delle parole e si perde nella magia dei libri. Ma che, soprattutto,  ha imparato a nuotare nel mare dove non si tocca grazie ad un papà straordinario, quel mare nero che a volte fa paura, proprio come la vita.
 
 
 
 
 

“Cassandra al matrimonio”, di Dorothy Baker: il ritratto della fragilità

“Cassandra al matrimonio” è un libro pubblicato nel 1962 da Dorothy Baker, autrice semi sconosciuta riscoperta recentemente dalla casa editrice Fazi. L’ho letto tutto d’un fiato complice  una scrittura magnifica, che racconta una storia in fondo piuttosto banale. Ma la bravura di uno scrittore sta proprio in questo: rendere straordinario l’ordinario. E’ molto più facile colpire i lettori con trame  originali, ottimamente congegnate , o con personaggi stravaganti. Quando invece la trama è scarna, come può esserlo il racconto di un matrimonio che si sta per celebrare in famiglia, con i protagonisti ridotti all’osso, tenere alta l’attenzione è una cosa  da maestri. Questo è un romanzo che spiazza per la totale mancanza di reticenza di Cassandra, ragazza fragile e tormentata, che risolve con l’alcol le situazioni che la mettono a disagio, che ha terrore delle relazioni stabili e che non vuole saperne di conoscere il suo futuro cognato. Non si ricorda il suo nome, sa solo che le sta portando via per sempre l’amore della sorella e tanto le basta per odiarlo.

Se avessi scoperto  questo libro per caso, girovagando tra gli scaffali, non avrei fatto attenzione ai dettagli della pubblicazione e l’avrei acquistato probabilmente per la bellezza della copertina, oppure mi sarei soffermata sul titolo e, pensando che si trattasse di una storia romantica, l’avrei abbandonato lì. Per fortuna avevo le dritte giuste. Credo di aver capito il motivo per cui questo romanzo viene pubblicato ancora oggi, anche se si tratta di una storia ambientata nel 1960: sembra qualcosa accaduto ieri. Mi ha stupita molto per il suo essere così contemporaneo, per lo stile con cui è scritta e per i temi affrontati che di sicuro non andavano di moda nell’America puritana di quegli anni. Cassandra e Judith sono due gemelle monozigote, che vivono in simbiosi all’interno di un nucleo familiare all’apparenza perfetto: la nonna, vera padrona di casa, è la sintesi dell “Upper Class”; il padre, un professore di filosofia in pensione, ha cresciuto le figlie educandole all’apertura mentale, ad essere libere pensatrici; la madre, morta pochi anni prima, sembra avere lasciato un vuoto trascurabile, che tutti hanno cercato di colmare in fretta.

Essere come noi non è facile […] si tratta di impegnarsi incessantemente per riuscire a essere il più diverse possibile: perché, affinché ci possa essere un ponte, prima deve esserci uno spazio da attraversare. E il vero progetto è il ponte”.

Nonostante l’apparente quiete domestica di quell’estate, fatta di drink a bordo piscina e lunghe nuotate notturne, il mondo interiore di Cassandra è devastato. La famiglia è il suo primo problema, perché le idee progressiste del padre in realtà hanno sortito l’effetto contrario: non già di apertura verso il prossimo, ma di chiusura nei confronti di chi si ritiene naturalmente inferiore. Vive un rapporto simbiotico con la sorella sin dalla più tenera infanzia, ma quando Judith comincia a vivere una vita diversa da quella che Cassandra aveva scelto per loro, per lei è il colpo di grazia. E’ questo l’inizio della fine, l’apertura definitiva della voragine che ha dentro: Judith intravede una propria felicità al di fuori del rapporto esclusivo con la sorella, scegliendo prima un college diverso, poi decidendo di sposarsi. Comincia ad osservare con distacco Cassandra, mentre quest’ultima continua a sentirsi parte di un’unica entità, come se fossero parti di  un disegno quasi divino. La bravura della Baker si sente ad ogni riga, nessuna frase lascia indifferenti, ogni parola è messa lì per sezionare con precisione chirurgica il cuore  dei protagonisti. Quello dell’autodistruttiva Cassandra, che non vuole trovare il suo posto nel mondo, e quello di Judith, che al contrario cerca in ogni modo di tenere insieme i cocci  e di accontentare tutti, nonostante il matrimonio sia una scelta che dovrebbe riguardare solo ed unicamente la sua vita. Cassandra per cercare di lenire la sua sofferenza interiore beve troppo, ha relazioni occasionali e mangia pochissimo: ma la sua famiglia non lo vuole vedere, non vuole capire. Sono tutti troppo per bene. Sono tutti troppo occupati a sembrare felici. Pur con le sue follie, la sua assurda melodrammaticità, i suoi limiti di ragazza viziata è impossibile non provare empatia nei suoi confronti: tutte noi abbiamo incontrato una Cassandra almeno una volta nella nostra vita, o probabilmente per un periodo ne siamo state la sua modesta versione.
Come ha detto l’amico che me l’ha consigliato: non riesco davvero ad immaginare come l’abbiano presa, i lettori del 1962.

“Cujo”, di Stephen King: il labile confine tra orrore e quotidianità

“Cujo” è un romanzo che Stephen King diede alle stampe nel 1981, edito in Italia nello stesso anno. Essendo all’epoca solo seienne non mi preoccupavo ancora di chi fosse quest’uomo che sentivo nominare solo di tanto in tanto da mio fratello e mio cugino, e soprattutto cosa facesse per essere così famoso. Siamo in pieni anni ’80 e King è all’apice del suo successo, con all’attivo libri fenomenali come “Shining”  e “Le notti di Salem”: è, in poche parole, l’idolo della cultura popolare di quel periodo. Ed ora io, che l’ho scoperto solo con la maturità, sto cercando di leggere tutte le sue opere più datate, tra le quali non poteva mancare questo agghiacciante romanzo in cui l’orrore è rappresentato dal migliore amico dell’uomo: un cane domestico. E  questo lo rende ancora più terrificante. Ma procediamo con ordine: Cujo è il bizzarro nome del cane San Bernardo che da anni è il compagno fedele della famiglia Camber, un gigante buono con una stazza di quasi cento chili conosciuto da tutti gli abitanti dell’immaginaria cittadina di Castle Rock, nel Maine. Ha una natura docile e giocosa, e passa  tranquillamente le sue giornate  tra il capanno degli attrezzi di Joe Camber e la casa in cui la famiglia vive.
Un giorno, rincorrendo un coniglio che  per sfuggirgli si intrufola in una tana di pipistrelli, viene morso sul muso da uno di questi. Purtroppo l’animale trasmette la rabbia a Cujo, che da placido cagnone dagli occhi buoni si trasforma poco alla volta in una belva feroce. La terribile malattia gli distrugge ora dopo ora il sistema nervoso centrale, rendendolo idrofobo ma al contempo terribilmente assetato, iper sensibile ai suoni acuti e ottenebrato da pensieri omicidi. Mentre Cujo avverte impotente questi cambiamenti verificarsi nel suo cervello, una diversa vicenda  sconvolge le mura domestiche apparentemente tranquille di un’altra famiglia, quella dei Tranton. Donna e Vic, marito e moglie, sono nel pieno di una crisi coniugale, che raggiunge l’apice nel momento in cui noi lettori iniziamo ad addentrarci nella storia. Vic scopre infatti che Donna l’ha tradito con un poco di buono del paese, un omuncolo da nulla che però scardina completamente un rapporto già traballante. Il loro bimbo di appena 4 anni percepisce il disagio dei genitori, nonostante essi cerchino in tutti i modi di rassicurarlo e proteggerlo. La sua mente infantile trasforma il dolore e la tensione che tutti stanno vivendo in incubi notturni ricorrenti, in cui crede di scorgere dentro al suo armadio un terribile mostro dagli occhi rossi. Pagina dopo pagina, in un crescendo di tensione come solo King sa dispensare, i tragici destini dei Camber e dei Trenton convergeranno sotto l’impietosa violenza del San Bernardo.
Entrambe le storie raggiugono il loro culmine  quando Vic  si trova fuori città per lavoro mentre Donna, insieme  al piccolo Tad, decide di portare la loro vecchia auto  all’officina di Joe Camber per farla riparare. Siccome gli incubi in cui ci getta King  sono sempre una reazione a catena di follia, l’autore deciderà di far fermare la macchina dei Trenton proprio lì davanti, oramai con il motore completamente in panne. Dove, completamente impazzito, si aggira Cujo con i suoi istinti sanguinari. Da questo momento in poi è come se la storia si congelasse in un unico, lentissimo fotogramma che ha come sfondo l’abitacolo di un’auto scassata. Le ore, addirittura i minuti vengono scanditi da un ritmo sempre più dilatato che tende l’angoscia come un elastico e risucchia in una voragine di terrore i protagonisti, istante dopo istante.
Due sono gli elementi che mi hanno particolarmente colpito in questo romanzo: uno è il fatto che questa volta l’autore non ricorre ad elementi sovrannaturali per eviscerare le nostre paure (ricordiamolo sempre: King non insinua la paura in noi, ma sono le nostre paure a prendere forma leggendo quello che scrive) ma punta tutta la storia su qualcosa di molto semplice e naturale, ovvero una malattia diffusa e conosciuta come la rabbia. Qualcosa quindi di plausibile, di estremamente reale, che dimostra quanto la finzione narrativa sia spesso meno orrorifica della vita quotidiana. Stiamo parlando di un autore che riesce sempre e comunque  a disseminare nei suoi romanzi qualche colpo da maestro, quel guizzo geniale che lo contraddistingue e che non ci fa mai pentire dei soldi spesi per rincorrere la sua prolifica produzione: solo lui saprebbe dare forma ai pensieri di un cane il cui cervello si sta ottenebrando, rendendo quelle sensazioni talmente veritiere da far provare in chi legge una stretta al cuore. E’ questo il secondo elemento che mi ha notevolmente impressionata, perché non solo chi scrive riesce a non scivolare nel ridicolo (se ci pensiamo bene, sarebbe bastata una parola di troppo) ma sono fermamente convinta che se un cane ammalato di rabbia avesse dei pensieri, e avesse potuto esprimerli, l’avrebbe fatto esattamente in quel modo. Noi lettori vediamo Cujo come un mostro ma al contempo, quando attraverso i suoi occhi un tempo così buoni assistiamo agli sforzi che inizialmente  compie per non attaccare nessuno della sua famiglia, proviamo compassione e tenerezza. Un prodigio tutto kingiano, che ci dimostra ancora una volta quanto il confine tra il bene ed il male non sia mai così netto, anzi: è talmente labile e sottile che spesso non ci rendiamo conto di attraversarlo.
Era tutta una bugia. Il mondo era pieno di mostri e non c’era niente che potesse impedirgli di mordere gli innocenti e gli incauti.
Un tradimento tra coniugi, un bambino in preda a brutti sogni, una famiglia piena di conflitti, una vincita alla lotteria, un’auto che ha bisogno di riparazione: sono tutti accadimenti comuni, sono storie di persone normali che ad un certo punto si trasformano nel peggiore degli incubi: l’orrore non si nasconde solo in crudeli assassini, in creature border line, zombie o anime possedute dal Male, ma può celarsi anche nella più banale tranquillità domestica. E’ questo il messaggio, ed è quello su cui fa riflettere King. La paura del piccolo Tad, quel mostro che credeva di vedere nell’armadio con gli occhi infuocati, forse non è solo una innocua fantasia infantile quando è il proprio cane, un gigante dall’indole pacifica e adatto a salvare vite umane, a trasformarsi nel più crudele degli assassini.
Ma è qualcosa di dannatamente reale.

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