“Ti rubo la vita”, di Cinzia Leone: qual é il significato di identità?

Un paio di mesi fa ho partecipato alla presentazione del nuovo libro di Cinzia Leone, “Ti rubo la vita”, edito da Mondadori all’inizio di quest’anno. L’ autrice prima di iniziare a parlare del suo romanzo ha voluto conoscere il nostro gruppo di lettura, che si sarebbe concluso di lì a poco, e mi ha molto colpita  Il suo modo di fare semplice e spontaneo, così cordiale. Durante la presentazione questa mia impressione positiva non ha fatto che aumentare per la grande professionalità e per la notevole cultura che  ha dimostrato di possedere. Sono tornata a casa tardissimo, con il suo romanzo autografato sotto braccio, entusiasta dell’esperienza e desiderosa di tuffarmi subito nella lettura. E’ difficile inquadrare “Ti rubo la vita” in un genere specifico, perchè “romanzo storico” non è una definizione esaustiva. E’ al contempo un romanzo al femminile, una saga familiare, un viaggio attraverso le tre grandi religioni monoteiste: islamismo, ebraismo, cattolicesimo. La narrazione è suddivisa in tre parti, ognuna delle  quali racconta la storia di una donna diversa: Miriam, Giuditta ed Esther. Le loro storie si aprono e si chiudono come fossero libri a sè stanti, poichè ognuna di loro si muove all’interno di un differente contesto storico e religioso, ma in realtà un filo invisibile lega tra loro le vite delle  protagoniste: l’ultimo nodo, il più importante, lo scioglieremo solo nelle ultime pagine.

 

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La prima parte è dedicata a Miriam, una donna musulmana che vive con la sua famiglia nella città di Jaffa dei primi anni 30. Suo marito Ibrahim è un mercante turco sull’orlo del fallimento, in cerca dell’occasione giusta per riscattarsi da una vita di espedienti. Nel XIX secolo Jaffa era uno dei centri economici e culturali più importanti della Palestina, oggi  inglobata dalla moderna Tel Aviv: un crocevia di commercianti, di popoli, di culture differenti. Il suo vicino di casa è Avrhàm Azolulay, un ebreo benestante che sta per concludere un importante affare con una partita di pregiato cotone. Una notte, durante un polgrom in Palestina, Avrahm, sua moglie Miriam e la figlioletta Hava vengono brutalmente massacrati: un incipit straordinario ci inchioda fin da subito alle pagine. Ibrahim sente le urla disperate della famiglia ma non interviene; spinto da un’idea scellerata e morbosa, in quella notte terribile deciderà  di rubare l’identità di Avrhàm per sostituirsi a lui negli affari, incassando così la parte di contratto al posto del defunto ebreo. Per Ibrahim si tratta di una scelta necessaria al suo riscatto sociale, scelta che impone anche alla moglie: lei dovrà essere  la nuova Miriam, e sua figlia Jasmin sarà Havah. Completamente ottenebrato dai suoi sogni di gloria e ricchezza resterà impassibile di fronte alla disperazione della moglie, che non vuole e  non può rinunciare a sè stessa e alla sua identità. Per dovere di obbedienza al marito deve disfarsi delle sue origini di contadina dell’Anatolia, dimenticarsi il culto islamico ed imparare tutto sulle tradizioni ebraiche: un asservimento per lei inaccettabile, amorale, malato. Più il marito si trasforma fino a confodersi in Avrhàm, più lei si allontanta inorridita, ergendo  barricate fatte di  silenzi e di rifiuti. L’assenza di parole e di contatto fisico si trasformeranno nella più potente delle armi, l’unica che  riuscirà nel tempo a scalfire il cuore di Ibrahim, perseguitandone la coscienza fino alla fine dei suoi giorni.

Il cuore di Miriam era ormai sordo. Le raccomandazioni del marito non la sfioravano e la sofferenza della figlia la raggiungeva come un’eco lontana. La stava perdendo o l’aveva già perduta?

La seconda parte è dedicata a Giuditta. Giuditta è una ragazza ebrea di vent’anni che vive ad Ancona con il fratello Tobia e la madre gravemente malata. Il padre è lontano, a scontare la prigione come dissidente politico: è il 1943 e Davide Cohen, oltre ad essere ebreo, è anche un anarchico. Giuditta è ebrea suo malgrado, poichè non ha mai considerato la propria religione come qualcosa che la identificasse in modo così totalizzante: lo scoprirà solo in seguito alla promulgazione delle leggi razziali, a causa delle quali  viene espulsa da scuola  e dalla piscina comunale in cui amava  nuotare. I fascisti le cuciono addosso la stella di David  rendendola parte di una massa indistinta di esseri umani, colpevoli di appartenere ad una discendenza sbagliata. Iniziano così anni di fughe, di nascondigli improvvisati, di false identità e di paura; nonostante tutto però Giuditta resiste,  si innamora, e si aggrappa disperatamente alla vita che le resta. Le ore, i giorni passati a fuggire dai rastrellamenti  diventano uno spazio da riempire con le immagini di Giovanni, della sua famiglia, e di quell’acqua profonda che amava scalfire con bracciate lente e vigorose, ora più che mai simbolo di forza e di vita: quella che la guerra le aveva rubato senza pietà. La storia raccontata attraverso Giuditta è sicuramente quella più toccante e coinvolgente emotivamente, perché riguarda un tempo ancora recente che appartiene alla nostra memoria. Le pagine in cui viene rievocato il rastrellamento del ghetto ebraico di Roma, il 16 ottobre del 1943, hanno  la forza dirompente di un passato che pretende di essere  raccontato ancora, affinchè nessuno possa dimenticare.

“Per salvarsi, Giuditta decise di fermare il tempo. E il tempo le obbedì: si restrinse fino a ridursi ai soli istanti che lei rubò a uno a uno. Ferocemente”

Infine c’è la storia di Esther, una  storia contemporanea che ci porta dritte negli anni 90.  Esther è una trentenne in crisi, con alle spalle una lunga serie di disastri amorosi ed un matrimonio sbagliato; non ha figli, ma forse non li ha mai desiderati veramente. Rispecchia alla perfezione il prototipo della donna moderna, affermata nel proprio lavoro ma sentimentalmente insicura, incapace di trovare serenità e stabilità nel rapporto di coppia. E’ figlia di un’epoca in cui tutto, anche l’amore, si consuma velocemente, attraverso un sesso ingordo e subito sazio, in cui pare essersi disperso il significato più intimo dell’unione. Esther sarà l’oggetto di una proposta anacronistica e  affascinante: Ruben, quarantenne sfuggente e taciturno, con alle spalle una storia assai particolare, desidera sposare Esther perché sulla carta è perfetta per realizzare il suo obiettivo. Senza averla mai conosciuta prima le propone  un contratto matrimoniale e una sporadica frequentazione pre-nozze priva di contatto fisico. Come mai, in pieni anni 90, nell’epoca dei rapporti mordi e fuggi e del sesso senza complicazioni Ruben propone proprio a Esther un matrimonio combinato? Ma, soprattutto, chi è Ruben e perché vuole proprio lei? Esther è probabilmente la protagonista con cui è più facile immedesimarsi, perchè con le sue fragilità ed i suoi dubbi, le sue paure ed il suo dolore di figlia è lo specchio del nostro  mondo interiore, in cui spesso dimora il caos. Ma proprio Esther ci insegnerà che la vita stupisce continuamente, e che spesso è proprio ciò che giudicavamo improbabile a salvarci da noi stesse.

…Impara ad accettare le sfocature della vita. Solo in quei contorni sfumati troverai la verità.

Queste sono le tre donne che incontreremo leggendo, tre donne molto diverse tra loro, ognuna delle quali rappresenta una diversa sfaccettatura dell’animo femminile: Miriam è la forza che si ribella alla sottomissione, Giuditta la resilienza che si oppone alla crudeltà della vita, ed Esther la speranza che vince sull’incertezza del futuro. Ciò che accomuna le tre parti di questo romanzo, oltre all’appassionante intreccio familiare, è il concetto di identità:  questa parola, così ricca di significato, è il perno su cui ruotano tutte le storie narrate. Identità rubate, come quella di Miriam; identità cucite addosso, come la stella di David di Giuditta, che le imprime un marchio a fuoco da cui non si libererà mai più; identità ricercate con ostinazione, come quella di Esther, ebrea da parte di madre ma cattolica grazie al battesimo.  La storia di ogni singolo protagonista fa profondamente riflettere sul significato delle nostre origini, della nostra memoria, sul senso di appartenenza.


E’ inevitabile porsi domande sul significato di identità: fino a che punto siamo quello che scegliamo liberamente di essere ? Quando invece è la nostra storia familiare a decidere per noi? Le azioni compiute dai protagonisti influenzano inesorabilmente il destino altrui e quello dei propri figli, a dimostrazione del fatto che tutti noi siamo quello che siamo per una mera casualità del destino, per scelte che non abbiamo compiuto. Se la vita si può rubare, come se fosse un oggetto qualsiasi, cosa resta di noi stessi? Cosa definisce la nostra persona, quali sono i confini  invalicabili?


La scrittura di Cinzia Leone ha una forza espressiva che rara. La sua penna è un fiume in piena in grado di  amalgamare l’energia e la passione con la delicatezza e l’intensità del linguaggio poetico, rendendo alcuni passaggi toccanti e memorabili. Ma scrivere bene non è sufficiente.  La costruzione di un romanzo storico è un processo complesso, che mette in gioco tante abilità: bisogna conoscere profondamente ciò di cui si vuole scrivere, perchè ogni dettaglio, anche il più insignificante, deve incastrarsi perfettamente con il meccanismo principale, rendendo il racconto lineare, privo di sbavature. Anche per questo l’autrice merita un grande plauso, perché si può ben intuire quanto studio ci sia stato dietro la stesura di un romanzo di questa portata.  E’ riuscita a  destreggiarsi abilmente tra le pieghe della storia rievocando non solo episodi noti, ma anche tradizioni religiose antiche, sconosciute alla maggior parte di noi cattolici occidentali, con straordinaria padronanza. Ogni frase, ogni parola, ogni virgola fanno parte di una costruzione minuziosa e ricercata, eppure il risultato è una narrazione sorprendentemente fluida, che avvinghia alle pagine e ci trasporta letteralmente  in un’altra dimensione, come i migliori romanzi sanno fare. E questo senza dubbio lo è.

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Cinzia Leone mi ha lasciato una dedica sul libro, il giorno della presentazione: “Tre donne che amerai”. Ed è vero. A distanza di mesi non ho ancora diementicato nè Miriam, nè Giuditta, nè Esther: credo che mi faranno compagnia ancora  per un bel pò.

 

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“La finestra dei Rouet”, di Georges Simenon: la solitudine dell’anima

Sono affascinata dai romanzi di Georges Simenon. Sono come una droga, ne finisco uno e subito mi viene voglia di leggerne un altro, desiderosa di farmi trasportare ancora da quell’onda emotiva che solo la sua penna è in grado di creare. La forza dei suoi romanzi non sta nelle vicende narrate, sempre ridotte all’ osso, ma nell’ accurata introspezione psicologica dei suoi protagonisti. Le descrizioni fisiche sono rarissime eppure quasi sempre abbiamo la netta percezione delle fisionomie dei suoi personaggi, ed una chiara visione del mondo che abitano:  Simenon concentra l’attenzione sugli sguardi, sulla gestualità, su rituali quotidiani che rivelano molto più di quello che potrebbero fare le parole. I suoi protagonisti sono sempre tormentati, malinconici ed irrisolti ma al tempo stesso fremono di vita e di passione, hanno l’urgenza fisica degli amanti ma potrebbero passare ore ad osservare la pioggia battente dall’ interno di un bistrot, senza nemmeno guardarsi negli occhi. Ecco, non so se ho reso l’idea di chi andiamo ad incontrare leggendo Simenon. Sicuramente è facile immedesimarsi nelle sue storie, perché parla di sentimenti universali, e per questo destinati a restare immortali. I suoi romanzi sono tutti risalenti agli anni quaranta eppure non c’è nulla nella struttura narrativa che resti vincolato a quell’epoca soltanto, sono pagine in movimento che  si adattano alle nostre sensazioni e si insinuano nel nostro vissuto aldilà dei dettagli che resteranno sempre  di secondaria importanza.

Questo romanzo parla di solitudine, uno stato d’animo che tutti conosciamo, il più universale dei sentimenti. La protagonista è Dominique, una donna di quarant’anni con un passato infelice ed un presente fatto di povertà e di abbandono. Si sente già vecchia, eppure il suo corpo ancora vergine trasuda di desiderio e di carezze, come quelle che osserva con un misto di invidia e repulsione spiando dal buco della serratura la giovane coppia di sposi ai quali è stata costretta ad affittare una camera del suo appartamento. Indossa da anni lo stesso vestito ormai logoro e trascorre le sue giornate tre le pareti della casa paterna, tra una faccenda domestica e l’altra  e rare uscite fugaci. Suo padre era un generale dell’esercito, un uomo coriaceo e severo che Dominique non ha mai amato ma che ha dovuto accudire per anni prima che morisse. Ha cominciato così a costruirsi la sua prigione, sacrificando la sua giovinezza alle cure di un moribondo, sgusciando fuori dalla vita reale giorno dopo giorno. Il lascito paterno l’ha sperperato al gioco, ed ormai da due anni versa in uno stato di indigenza che non le permetterebbe di godersi la vita nemmeno se lo volesse. Ma cosa vuole Dominique in realtà? Si sente morta dentro, sfiorita, vecchia, insignificante…eppure. Eppure qualcosa cova sotto la cenere, una fiamma debole, un anelito di vita quasi impercettibile che però la mantiene a galla, incitandola  a compiere azioni riprovevoli. Come quella di spiare l’intimità dei suoi  affittuari, o dei suoi dirimpettai, i signori Rouet. La finestra del suo appartamento si affaccia su un palazzo signorile, abitato da famiglie benestanti. Di fronte a lei ci sono i giovani Rouet, Antoinette e Hubert, vent’anni di differenza e una vita matrimoniale infelice. Hubert ha solo quarant’anni ma è molto malato, e i vecchi Rouet, che abitano al piano di sopra, gestiscono la vita della coppia come se fosse qualcosa di loro proprietà. Un giorno, mentre come di consueto Dominique osserva indisturbata i suoi dirimpettai, vede qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. Hubert muore in seguito ad una crisi respiratoria, e da quel giorno tutto cambia irrimediabilmente. Dominique comincia ad essere ossessionata dalla giovane vedova, spia ogni suo movimento, ogni suo spostamento, ogni espressione del suo viso. Quello che all’ inizio era una specie di gioco, una curiosità innocente,  si è trasformato in qualcosa di perverso e morboso che le  implode dentro,  lo stesso miscuglio di sensazioni rabbiose ed eccitate che prova quando sente i mugolii degli amanti nella stanza accanto.

Antoinette, così giovane ed esuberante, così innamorata della vita, così femmina e sensuale diventa per  Dominique quello che lei non ha mai avuto il coraggio di essere. Si immedesima in lei, vive la sua vita, la pedina senza preoccuparsi di essere notata, anzi: vorrebbe che lei la riconoscesse, che le si avvicinasse, che le rivolgesse almeno una volta parole complici…perchè Dominique sa cosa è successo in quella stanza, sa che la morte di suo marito non è stata casuale.


Il finale sarà inevitabile, prevedibile forse fin dalla prive pagine, ma non privo di emozione. Un destino che si compie tragicamente, una vita vissuta e terminata nella solitudine più desolante, perché ancora più desolante di un uomo solo c’è una donna sola. Una storia che mi è entrata dentro come un pugno, perchè più volte mi sono rispecchiata nei suoi gesti, nei suoi pensieri intrisi di malinconia, in quel senso di vuoto interiore contro cui non si può combattere. Perchè ci si può ribellare al dolore, ma al nulla no. Ha risvegliato in me sensazioni che avevo dimenticato, ricordandomi quanto labile e sottile sia il filo che tiene insieme i cocci di ognuno di noi, pronti a frangersi come cristallo non appena cadiamo vittima di storie sbagliate.


Si sentiva così infelice che avrebbe potuto mettersi a piangere per strada. Era sola, più sola di chiunque altro. Che sarebbe successo se fosse caduta sul marciapiede? Un passante sarebbe inciampato sul suo corpo, qualcuno si sarebbe fermato, l’avrebbero portata in una farmacia e un agente avrebbe tirato fuori dalla tasca un taccuino. “Chi è?”. Nessuno avrebbe saputo rispondere.

Mentre la solitudine di Dominique  ci soffoca pagina dopo pagina, sullo sfondo si muove una Parigi che è lo specchio delle sue inquietudini, con l’alternarsi delle stagioni ora roventi ora bagnate da una pioggia battente, il rumore del traffico notturno, i bistrot affollati. Una città che freme di vita, in cui  smarrirsi è un battito di ciglia.

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“Tempi glaciali”, di Fred Vargas: un nuovo caso per Jean Batipste Adamsberg

 
Sul finire dell’anno scorso ho letto TEMPI GLACIALI, uno degli ultimi lavori di Fred Vargas, al secolo  Frédérique Audouin-Rouzeau. Dopo quattro anni di silenzio è tornata la nuova Signora del giallo europeo, pubblicando uno di seguito all’altro questo romanzo (2015) e “Il morso della reclusa” (2017). Prima che questa bravissima scrittrice facesse la sua comparsa  il giallo classico ( per intenderci quello senza scene splatter, con poco sangue e poche scene di sesso) sembrava destinato a far parte della storia. Sono cresciuta leggendo  Agatha Christie e Simenon, autori con la “A” maiuscola che producevano gialli di squisita fattura, eleganti, intriganti, dove il vero protagonista era l’investigatore privato o l’ ispettore di polizia. Il signore in questione (o la signora, come nel caso di Miss Marple) riusciva a risolvere l’intricatissimo caso non grazie all’  abilità nell’azione, bensì grazie alle straordinarie capacità intellettive (ce lo vedete Poirot a compiere rocamboleschi inseguimenti, agile e fulmineo, mentre il cattivo di turno gli spara addosso una raffica di proiettili ?). Il morto nei gialli antichi aveva una sua dignità, il  cadavere della vittima veniva per lo più visionato in obitorio quando ormai aveva già un cartellino attaccato all’alluce, oppure veniva ispezionato sotto un pietoso lenzuolo bianco, se il fatto avveniva subitaneamente. I dettagli truculenti delle autopsie ci venivano risparmiati, così come la meticolosa descrizione di sparatorie e/o accoltellamenti vari, con fuoriuscite di viscere e materia grigia. Tutta roba che ultimamente mi aveva allontanato dal genere, facendomi preferire i thriller psicologici, dove alla peggio si ha a che fare con pazzi psicopatici e con deliri mentali. Ringrazio quindi la Vargas per aver restituito sobrietà ad un genere che secondo me stava cadendo in disgrazia, ma soprattutto perché noi amanti di questo tipo di letture finalmente abbiamo un nuovo idolo: il commissario del XIII Arrondissement di Parigi, Jean-Baptiste Adamsberg. Se da una parte Adamsberg può essere   annoverato di diritto  tra i brillanti risolutori di enigmi, insieme a personaggi del calibro di Poirot, Maigret, Sherlock Holmes e Miss Marple, dall’altra se ne discosta moltissimo. Perché lui ha un metodo tutto suo, che segue qualunque cosa fuorché una logica. Un metodo che non è un metodo. E’ ispirazione pura, che arriva in un attimo ma che spesso non arriva affatto, e che gli ha valso il favoloso soprannome di “spalatore di nuvole”. Deduzioni, ragionamenti, indizi scandagliati con lenti di ingrandimento, indici passati sulla scena del crimine per analizzare polveri invisibili agli occhi dei comuni mortali: scordatevi tutto questo. A parte l’ ovvia impossibilità di emulare Poirot & Co. perché oggi come oggi la polizia scientifica sequestrerebbe immediatamente  la scena del crimine scandagliandola  con il luminol da capo a piedi,  il nostro nuovo eroe è comunque molto diverso dai suo predecessori. Come accennavo sopra, non si cimenta mai in cervellotici ragionamenti, non ha uno schema mentale con cui procedere, niente di niente.
La sua particolarità è proprio questa: sembra sempre perso nel suo mondo interiore, indifferente ai fatti nudi e crudi ma  in forte empatia con le persone coinvolte, va a destra quando tutti gli dicono che dovrebbe andare a sinistra, passeggia, si arrotola sigarette, beve caffè gettando lo sguardo fuori dalla finestra del commissariato e poi , quando tutti i suoi collaboratori stanno perdendo le speranze di sciogliere il bandolo della matassa, ecco che come una folgore  arriva Jean Batipste Adamsberg con la soluzione del caso. Ogni volta è così, ogni volta i colleghi lo danno per spacciato per poi ricredersi e tornare così  a sperare di non perdere più il proprio posto di lavoro all’anticrimine. E anche noi,  mentre proseguiamo nella lettura, ogni volta ci domandiamo se ha trovato uno straccio di indizio, a cosa sta pensando, cosa sta facendo, perché cazzeggia anziché prendere il suo soprabito e andare a fare domande ai conoscenti della vittima, solleticandosi i baffi o rabboccandosi la pipa. Fino a quando la risposta arriva, e allora avresti solo voglia di stringergli la mano, perché caspita se è in gamba questo commissario con la testa per aria e gli occhi che vagano sempre chissà dove. Lui ha capito, tu no. Mentre tu avresti messo sotto sopra mezza Parigi, lui camminava lungo la Senna e faceva cerchi di fumo, in attesa dell’intuizione geniale che spazzerà via le nubi. Soprattutto farà tirare un sospiro di sollievo al suo assistente Danglar, con cui ha da sempre un rapporto ambiguo, conflittuale, ma anche  di profonda stima e rispetto. Perché Danglar è tutto quello che lui non è:  metodico, colto, buon padre di famiglia, forte bevitore con problemi cardiaci dovuti al sovrappeso, poco attraente ma sofisticato ed elegante. La sua logica ferrea  da poliziotto fatto e finito  si contrappone continuamente  al caos mentale del suo superiore, in uno scambio di battute ironiche e taglienti. Essendo il suo opposto, Adamsberg ha bisogno di lui. Così come Danglar, anche gli altri  componenti dell’anticrimine sono  i veri mattatori del romanzo, e la Vargas è una maestra nel dar loro vita , forma e spessore. Per ognuno di loro ha costruito un passato e dei tratti caratteriali che li rendono unici, psicologicamente ma anche fisicamente. Ed è così che diventano estremamente reali, tanto da sembrare nostri amici. Perché sono un po’ strani, ( e chi non lo è ?), sono logorati dalla vita come tutti noi ma  nonostante questo sono sempre pronti ad onorare la divisa che indossano, orgogliosi di essere poliziotti.
 
Questa volta la squadra di Adamsberg deve risolvere un caso che dalla fredda Islanda dei giorni nostri ci porta indietro nel tempo fino  al periodo di Robespierre e del regime del Terrore. C’è un triplo filo conduttore in questo giallo, che però non sembra portare da nessuna parte, aggrovigliandosi su se stesso fino a formare  una matassa sempre più intricata. Una catena di suicidi apparentemente collegati tra loro  condurrà gli uomini dell’anticrimine  fino ai ghiacciai islandesi per poi riportarli nuovamente a Parigi, nel bel mezzo di una congregazione di fanatici della Rivoluzione Francese. Gli adepti della congrega   durante le loro sedute rievocano gli avvenimenti salienti di quel periodo, con  allestimenti in costume ed immedesimazioni che vanno oltre il semplice divertimento, dando origine ad un gioco pericoloso che è pura follia. Infine la squadra segue un’altra pista ancora: si tratta di una fattoria situata nella campagna parigina, appartenente alla famiglia Masfauré. Qui il mistero si infittisce ancora di più, poiché la famiglia custodisce terribili segreti che sembrano non portare luce sulla vicenda, ma solo altri grovigli. Tre strade da seguire che più diverse non potrebbero essere, molteplici misteri, personaggi ambigui, cinghiali addomesticati, un viaggio in Islanda risalente a dieci anni prima in cui morirono alcune persone, la leggenda dell” afturganga”, uno spirito terrificante e primordiale che vive sull’isola, ed una pietra dai poteri misteriosi che tutti gli abitanti del luogo  conoscono. Ma da cui tutti si tengono alla larga.
Ogni cosa sembra sfuggire di mano anche a noi lettori, la storia si mischia con la leggenda, e più andiamo avanti  peggio è. Alcune volte ci ritroviamo anche noi a spalare le nuvole insieme ad Adamsberg, ma poi alla fine arriva l’intuizione che risolve il caso e noi restiamo lì a bocca aperta, un po’ sbigottiti, molto perplessi. Anche  dopo aver riposto il libro sullo scaffale per qualche giorno  ci ritroveremo  ancora  a domandarci  cosa diavolo sia successo in realtà.
Se questo è lo scopo di un libro, ovvero farsi ricordare, la Vargas ancora una volta ci è riuscita.

 

 
 
 
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“Tutta la luce che non vediamo”, di Anthony Doerr: un racconto di dolore e speranza

Parigi, 1934. Hitler tiene l’europa sotto scacco, il suo potere è alla massima ascesa. La dittatura del Terzo Reich stravolge completamente la vita delle persone comuni, a Berlino come nelle altre città europee che poco alla volta vengono inesorabilmente occupate dalle sue forze armate. Anthony Doerr, Premio Pulitzer 2015, in questo suo bellissimo romanzo intreccia un filo alla volta le vite di due bambini che loro malgrado si ritrovano a combattere la guerra degli adulti: l’uno al servizio del Regime, l’altra dalla parte del popolo oppresso. Le loro vite scorrono parallele, nessuno dei due sa dell’esistenza dell’altro, ma i due ragazzini hanno in comune il destino degli innocenti. Un capitolo dopo l’altro la distanza che intercorre tra loro si avvicinerà sempre di più fino a quando riusciranno a toccarsi, in un incontro fugace in cui il tempo si dilata, raccogliendo in sè tutta l’intensità di quel momento. Marie-Laure Leblanc è una bambina di sei anni, con una malattia degenerativa agli occhi che la conduce presto alla cecità. Vive a Parigi con il padre, che lavora come fabbro per il Muséum national d’histoire naturelle. L’amore immenso che lega padre e figlia traspare subito, fin dalle prime righe: quando il papà di Marie-Laure riceve dal medico la brutta notizia che sua figlia non potrà mai più vedere non si abbatte, ma sprona la piccola affinché possa accettare questa sua nuova condizione. Il suo scopo diventa allora quello di renderla per prima cosa autosufficiente. Grazie alla sua abilità manuale le costruirà un modellino in scala dell’arrondissement in cui vivono: ogni casa con le sue scale, ogni vicolo, ogni negozio, in modo che le sue piccole dita possano scorrerlo da cima a fondo e capire così come orientarsi una volta uscita di casa. All’inizio sarà molto difficile e scoraggiante per la bambina imparare le strade del quartiere a memoria senza perdersi, ma poco alla volta, grazie alla pazienza del padre e alla sua forza di volontà, riesce a percorrere senza sbagliare le strada per andare e tornare da casa sua, e nel mentre fare tappa anche all’ufficio postale, alla panetteria, al Museo dove lavora il padre. Marie-Laure a dispetto del suo grave handicapp cresce serena, curiosa e con un grande amore per la lettura. Nonostante conducano un’esistenza povera, scandita dalle privazioni della guerra, il padre riesce comunque a procurarle alcuni libri in Braille che la ragazzina leggerà e rileggerà, ritagliandosi momenti di infantile spensieratezza. Contemporaneamente, in una Germania trasformata nel quartier  Generale del Terzo Reich, Werner Pfenning, un gracile bambino di sette anni dalla chioma albina, trascorre le sue giornate con la sorellina minore Jutta all’orfanotrofio “Casa dei Bambini” in una località di nome Zollverein: un complesso minerario di sedici chilometri quadrati appena fuori Essen. Spesso non hanno abbastanza da mangiare o per ripararsi dal freddo, ma quando si è bambini si riesce a scovare la gioia anche nelle situazioni più difficili; talvolta, anche le cure della suora possono sostituire l’amore che manca. Anche lui come Marie-Laure è un bambino speciale, con un’intelligenza fuori dal comune ed una passione che purtroppo si trasformerà nella sua condanna. Werner ama trafficare con le radio, sa tutto delle onde elettromagnetiche, sa riparare gli apparecchi, sa far combaciare quei misteriosi fili elettrici necessari a riprodurre il suono che tanto lo affascina. Un giorno, dopo aver ritrovato una vecchia radio abbandonata nei paraggi dell’orfanotrofio, riesce a sistemarla e a captare il segnale di una radio francese. Una radio nemica, ma Werner ancora non lo sa. Lui e Jutta restano ore ad ascoltare, ogni sera, quella voce che pareva giungere da un altro mondo, incantati da quel prodigio. Di li a poco però quel mondo fatto di luci impossibili da vedere ma che si percepiscono tanto intensamente, svanisce. Un’ombra di incertezza e paura cala sulle vite dei due bambini e travolge tutto, portando via con sé la loro innocenza e spensieratezza.

Per uomini così il tempo era un sovrappiù, un barile che guardavano vuotarsi lentamente. Mentre in realtà, pensa Werner, il tempo è una pozza rilucente che ci portiamo fra le mani; bisognerebbe usare ogni energia per proteggerla. Combattere, impegnarsi davvero per non perderne neppure una goccia.

E’ il 1940, i nazisti hanno invaso l’Europa, Parigi è assediata e Marie-Laure e suo padre riescono a rifugiarsi nella cittadina di Saint-Malo, in Bretagna, a casa del prozio creduto“pazzo”. Da quando è ritornato dalla grande guerra, l’uomo sente delle presenze e vede nell’ombra cose che lo impauriscono, e questo ha creato intorno a lui un muro di diffidenza, in cui si trincera. Non esce più di casa, ha paura delle persone. In realtà è un uomo buono e intelligente che accoglierà i due nella sua casa e con il tempo avrà un ruolo importante nella vicenda. Parallelamente, anche Werner è costretto a subire le conseguenze della guerra, che per lui consistono nell’inserimento presso il più importante collegio della gioventù hitleriana, dove solo i migliori talenti vengono ammessi. Werner, con la sua prodigiosa intelligenza e la sua bravura con le apparecchiature radiofoniche, viene scelto per essere istruito secondo i dettami dell’ideologia nazista. Accetta perché non ha scelta, ma dentro di se è perfettamente consapevole che verrà addestrato per compiere qualcosa di sbagliato. Inghiottito dalla macchina di propaganda nazista, Werner riceverà l’ incarico speciale di intercettare le stazioni radio della Resistenza che opera dal fronte russo di Saint-Malò.

Come accennato all’inizio, Marie-Laure e Werner si sfioreranno soltanto in un breve incontro sotto il terribile bombardamento che subì Saint-Malò da parte degli alleati, nell’agosto del 1944. Degli 865 edifici racchiusi entro le mura della “città dei bastioni” solo 182 rimasero in piedi. Tutto il resto fu raso al suolo. In quel momento di disperazione, sotto le macerie, le loro vite si uniscono e tutte le differenze improvvisamente si appianano. In quelle poche ore rubate al tempo tornano ad essere solo due ragazzi a cui la guerra ha portato via tutto, sommandosi ad un’esistenza già di per se avara. Non esistono più nazisiti e partigiani, invasi ed invasori, buoni e cattivi. Esistono solo giovani vite segnate per sempre che dovranno in qualche modo essere ricostruite, come gli edifici di Saint-Malo. Werner dovrà convivere con il rimorso di quello che suo malgrado è stato costretto a compiere e Marie-Laure dovrà cercare di non farsi sopraffare dalla solitudine. Werner chiede a Marie-Laure come ha fatto a non lasciarsi andare mai alla disperazione, e lei le risponde la sola verità che conosce: “Mi alzo la mattina e cerco di vivere la mia vita. Non ho scelta. Tu non fai forse lo stesso?”

Poteva essere un romanzo melenso, e invece è un capolavoro. Il rischio era dietro l’angolo: bambini, povertà, guerra, tutti ingredienti strappalacrime. Ma come dico spesso, la differenza tra un romanzo di qualità e uno banale non sta nell’argomento affrontato, ma nella bravura dell’autore. Anthony Doerr si è rivelato talentuso, raffinato, profondo, non cade mai negli stereotipi da melodramma ed è stato capace di dare vita a due personaggi che non si dimenticano. Nei capitoli in cui racconta la vita fatta di ombre di Marie-Laure, di come sia riuscita nonostante questo ad imparare a muoversi liberamente nel suo quartiere di Parigi e sucessivamente in quello di Saint-Malo,  mentre conta i chiusini per capire a che punto deve svoltare, mentre cerca di ricordarsi il plastico in miniatura costruito da suo padre: sembra di vederla realmente quella ragazzina, e quasi riusciamo a indovinare i suoi pensieri pieni di timore ed incertezza. Può sbagliare a contare i chiusini e ritrovarsi persa chissà dove, può non riconoscere un profumo o una voce che per lei significano “casa”. Non può osservare nulla, vive di sensazioni tattili, di odori, di bagliori, di ombre più o meno intense, e noi siamo lì con lei. Durante la lettura si è creata un’empatia talmente forte con i personaggi che  avrei voluto abbracciarla, come se fosse una persona in carne ed ossa. Così come avrei voluto abbracciare Werner, quel piccolo ragazzino biondo buttato in un mondo selvaggio e brutale che non gli appartiene, che per una terribile casualità del destino si è trovato dalla parte dei malvagi. Una vittima innocente dell’orrore nazista e della sua coscienza, che non gli perdonerà mai le morti che ha causato.
Per quanto mi riguarda, è stata una delle più belle letture che abbia mai fatto.

CURIOSITA’

“Mi trovavo a Saint-Malò per un festival letterario, sono rimasto completamente incantato dalla bellezza della città. Questa isola fortezza, sembrava il posto ideale in cui impostare le scene culminanti di un racconto: un luogo ideale con una sua storia vera ma anche un luogo della fantasia”
Questo ha dichiarato l’autore riguardo al motivo per il quale ha deciso di scegliere questo luogo dove ambientare l’incontro fra i due protagonisti. Il significato del titolo si riferisce non solo alla cecità di Marie-Laure ma, soprattutto, all’annebbiamento mentale di Werner reso cieco dall’ottusa propaganda nazista.