Immaginate uno di quei borghi centenari nascosti negli anfratti della nostra bella penisola: vicoli acciottolati che si arrotolano su se stessi, case di pietra antica rivestite di edera e vite americana, gerani dai colori sgargianti che fanno bella mostra di sè alle finestre, e gatti che si scaldano sonnacchiosi al sole. Ora provate a dare un’occhiata agli abitanti che si aggirano per le vie del paese: troverete, quasi certamente, un gruppetto di comari intente a spettegolare del più e del meno, ognuna con l’ultima novità da raccontare alle altre. E siccome nel borgo non succede mai nulla, le invenzioni delle signore corrono veloci sulle ali della fantasia, per rimbalzare poi di bocca in bocca e di porta in porta. Ma se un giorno come tanti succedesse qualcosa, un fatto a dir poco straordinario, che squarcia improvvisamente l’immobilità di quel tempo sospeso? Succede che inizierebbe una storia. La storia di Borgo Propizio.
Loredana Limone presta la sua penna a questo paese, trasformando la sua storia in una favola moderna. All’ inizio non avevo capito lo spirito della narrazione, concentrata com’ ero a non perdermi una sola parola. Questo romanzo (e il suo seguito) da quando è stato pubblicato, ovvero nel 2012, continua a riscuotere un grande successo, soprattutto nell’ ambiente dei blog letterari. Impossibile non incappare in qualche citazione o recensione: tutte entusiastiche. Le mie aspettative erano quindi molto alte, al punto che durante le prime cento pagine, disturbata dalla frenesia di trovare anche io l’eccezionalità nel romanzo ho perso di vista il mio diktat, la regola n.1 che sempre mi impongo di seguire quando mi approccio ad una lettura: calarsi nel contesto. Non si può affrontare una lettura senza sapere prima in quale dimensione dobbiamo entrare, perchè ogni mondo narrativo ha le sue regole e le sue eccezioni. Il rischio che si corre, senza prendere i dovuti accorgimenti, è di non coglierne il senso e di non vedere quello che l’autore ha voluto nascondere tra le pagine. Così è capitato che io, fino a metà del libro, cercassi qualcosa che non c’era. Mi sono goduta molto poco la surreale stravaganza di Mariolina e Marietta, due personaggi che da sole potevano tessere le fila di tutto il romanzo. Due sorelle di 46 e 47 anni, single da tutta la vita, diverse come più non si potrebbe fatta eccezione per la verginità che le accomuna, e che ancora conservano come un lascito morale della defunta madre: l’una che non vede l’ora di disfarsene, l’altra che lo cura come una reliquia. Ad agitare le acque della placida vita da impiegata comunale di Mariolina arriva Ruggero, un costruttore edile piacione e sgrammaticato che per amore indossa le vesti di cavaliere dalla scintillante armatura, colui che la salverà da un futuro di ragnatele. Come mai Ruggero si trova proprio a Borgo Propizio, dove le case sono antiche e antiche restano, e dove nessun negozio esiste più? Perché in paese sta per arrivare una fresca novità: una latteria. Un’attività commerciale che più anacronistica non si potrebbe, dove un tempo risiedeva la bottega di un ciabattino, diventerà il luogo perfetto per ricominciare. Belinda, la proprietaria, ha bisogno di diventare adulta ed è decisa a realizzare il suo sogno di bambina: isolarsi dal mondo industrializzato per lanciarsi senza paracadute in un’avventura in mezzo al nulla, cercando di trasformare la sua infantile passione per il latte in qualcosa di stuzzicante, originale e nuovo. A fare da contorno ci sono altri personaggi, ognuno con la sua matassa da sbrogliare: per esempio i genitori di Belinda, una coppia di mezza età in piena crisi coniugale; ed ancora zia Letizia, una vedova nostalgica dei bei tempi andati, fan sfegatata di Gianni Morandi.
Tutto in questo romanzo ha le dimensioni di una fiaba, ogni cosa sembra sbucata fuori dal tempo, dalla logica e dallo spazio. E come in ogni fiaba che si rispetti, ogni cosa troverà il suo posto ed ognuno il suo lieto fine. Borgo Propizio è un paese inesistente che diventa un simbolo, il simbolo di chi ha speranza, di chi ha il coraggio di cambiare, di chi vuole allontanare la paura, di chi crede nel lato buono delle persone.
Non è un caso se l’autrice, come lei stessa dichiara nella postfazione, ha scritto questo romanzo mentre stava uscendo da un periodo personale difficile ed aveva fortemente bisogno di tornare ad avere speranza e fiducia nella vita. Borgo Propizio è diventato così un nido accogliente, per lei stessa prima che per tanti altri lettori. Questa dimensione favolistica è la caratteristica vincente del romanzo, ma esiste anche il rovescio della medaglia: quello che ho colto io, purtroppo. Per tutta la durata della lettura, volata via in un batter d’occhio, mi sono chiesta continuamente dove stava la fregatura per Mariolina, per Belinda, per Ruggero e per la coppia in crisi. Mano a mano che ottenevo le mie risposte una parte di me rimaneva delusa, aggrappata come sono alla vita reale che come ben sappiamo è fatta di delusioni, sconfitte, cadute rovinose e miracolose rimesse in sesto. Borgo Propizio mi ha fatto capire quanto io non sia più in grado di credere nelle favole, nella mia come in quelle di nessun altro. “...E vissero tutti felici e contenti” è una locuzione che oggi come oggi mi infastidisce, spesso mi irrita anche.
Forse un giorno tornerò a Borgo Propizio, magari quando sarò pronta a farmi trasportare da un’ondata di pensieri positivi, perchè per credere che alla fine tutto andrà bene occorre una buone dose di coraggio: il coraggio di gettare via la rassicurante zavorra delle nostre paure, quel dannato peso che ci portiamo sempre dietro e che ci tiene saldamente ancorati a terra, al riparo da voli che potrebbero costarci le ossa.
Purtroppo Loredana Limone è mancata l’anno scorso, vinta da una terribile malattia contro la quale lottava da tempo. Lei, così positiva e sorridente, che ha saputo creare una deliziosa favola moderna, non è riuscita a costruire un lieto fine per sè stessa.