Tre libri per celebrare il 25 Aprile

IL PARTIGIANO JOHNNY, di Beppe Fenoglio

“Il partigiano Johnny” è un romanzo autobiografico di Beppe Fenoglio rimasto incompiuto e pubblicato postumo nel 1968, ideale prosecuzione del precedente “Primavera di bellezza”. Johnny, soprannominato così a causa della sua passione per la letteratura inglese, è un giovane ex ufficiale dell’esercito italiano che, in seguito all’armistizio firmato dal maresciallo Badoglio l’ 8 settembre 1943, approfittando del caos che tale decisione provocò all’interno delle forze armate, decide di disertare e di fare ritorno al paese natìo, dove per qualche tempo conduce una vita da imboscato sulle colline di Alba, nascosto dalla famiglia. Poco dopo però, insofferente a quella vita monotona e codarda, si arruola nel primo gruppo di partigiani che incontra in zona, di estrazione comunista, pur non approvandone né l’ideologia né la disorganizzazione con la quale affrontano la guerriglia. Proprio a causa di alcuni terribili errori di strategia  il suo gruppo fu portato al massacro;  Johnny, tra i pochi superstiti dell’ eccidio, cambierà definitivamente fazione passando ai partigiani badogliani, più moderati e più in linea con le sue idee militari. Potrebbe sembrare uno dei tanti romanzi antifascisti che omaggiano la storia della resistenza, invece è molto più di questo: fin dalla prime pagine intuiamo che la storia di Johnny ha un respiro differente, più profondo ed esistenziale. La grandiosità di questo romanzo sta infatti nella visione anti eroica con cui Fenoglio racconta la resistenza italiana, ponendo invece l’attenzione sul dramma umano, sulla crudeltà della guerra civile e sulla sua insensatezza. Ciò che lo distingue dalla letteratura di genere e che lo inserisce di diritto tra i più importanti romanzi del novecento è la profonda dimensione esistenziale che si astrae dal contesto e che rende universale le vicende umane di Johnny. La lettura di questo romanzo è, inoltre, un’ esperienza linguistica affascinante: la scrittura è pregna di invenzioni lessicali, inglesismi mescolati a retaggi dialettali e spesso i pensieri di Johnny vengono espressi con termini inglesi arbitrari ed adattati alla prosa. Un’ autentica avventura che all’inizio può sembrare un po’ ostica ma, se riusciamo ad accoglierla e abbandonarci ai suoi manierismi,  ci appagherà in maniera totalizzante.

L’ AGNESE VA A MORIRE, di Renata Viganò

“L’ Agnese va a morire” è un romanzo dal titolo emblematico, che ci svela fin da subito quale sarà il tragico epilogo della storia raccontata da Renata Viganò. Agnese è una lavandaia di mezza età che vive nelle valli di Comacchio con il marito Palita, un uomo molto debole di costituzione che, impossibilitato a svolgere lavori di fatica, si dedica anima e corpo alla politica. A causa delle sue posizioni antifasciste  Palita viene catturato e ucciso dai tedeschi, lasciando Agnese in balìa della disperazione e di un odio feroce che comincia a montarle dentro giorno dopo giorno, fino a culminare nell’omicidio di un soldato tedesco che per divertimento uccide l’amatissima gatta del marito. In seguito a quel gesto Agnese deciderà di rifugiarsi presso un gruppo di partigiani, con i quali comincia a vivere in clandestinità. Quell’ istintiva ribellione alla brutalità dell’ occupazione nemica fa maturare in lei, donna priva di cultura e di coscienza politica, una nuova consapevolezza che la porterà a diventare un’attivista della lotta partigiana. “Mamma Agnese” , questo il suo nome di battaglia, avrà un ruolo fondamentale nella guerriglia, meno militaresco e più umano, in cui si occupava dei militanti sfamandoli e sostenendoli, svolgendo lavori di logistica e di vivandiera. Pedalando con la sua bicicletta attraverso le Valli di Comacchio traporta cibo, munizioni e informazioni sfidando la sorte ogni giorno come staffetta, sempre al fianco dei suoi ragazzi, sempre fedele al suo battaglione, fino all’ultimo estremo sacrificio. Un romanzo anch’esso autobiografico, una testimonianza quasi in presa diretta degli accadimenti di quegli anni che non vengono mai edulcorati, ma raccontati con crudele realismo e struggente bellezza. E non è vero, come si legge nella chiosa, che di lei “resterà solo un mucchio di stracci nella neve sporca“: Mamma Agnese sarà per sempre un simbolo di forza, di fede, di speranza, di coraggio, il sacrificio di chi lotta senza remore, senza imposizioni e senza ideali altisonanti, ma  solo perché è giusto.

IL CORAGGIO DI CION, di Daniele La Corte

“Il coraggio di Cion” racconta la storia vera del partigiano Silvio Bonfante, nome di battaglia Cìon, che in dialetto del ponente ligure significa “chiodo”. Nato ad Oneglia (oggi Imperia) nel 1921, durante gli anni della resistenza come molti altri suoi coetanei si arruola nelle truppe partigiane dell’entroterra ponentino. Grazie alle sue doti di stratega diventa prima comandante di una banda, poi vice comandante della divisione “volante“, preposta alle più rischiose operazioni d’ assalto. La breve vita di Cion è una storia autentica che l’autore ha cercato di rendere ancora più vera ponendo l’accento sull’uomo nella sua complessità oltre che sul guerrigliero, un ragazzo di soli 23 anni con i suoi sogni, le sue paure e debolezze, i suoi affetti. Trascorre la sua esperienza da partigiano senza mai dimenticarsi della famiglia, soprattutto della sorella Anna, a cui è profondamente legato e che cerca di proteggere in ogni modo. Anche quando la lotta si farà dura e disperatamente incerta, su quelle montagne scenari di terribili e feroci scontri, la vita continua a pulsargli nelle vene e pretende di essere ascoltata: arriva l’amore e ha gli occhi di Fiammetta, una giovane staffetta che riuscirà a mettere a nudo la tenerezza di quel comandante così duro e deciso, svelandone l’aspetto più intimo e riservato. La battaglia di Monte Grande, tragicamente famosa per l’eroismo dimostrato da quel manipolo di partigiani che riuscì a mettere in fuga le truppe tedesche ben più numerose e meglio organizzate, trasforma Cion in un eroe leggendario. Un’impresa epica, ardita e quasi folle, che ancora oggi viene festeggiata ogni anno, la domenica più prossima a quell’indimenticabile 5 settembre 1944.

Come ogni eroe che si rispetti, anche Cion morirà sul campo di battaglia, a Briga Alta (CN), il 17 ottobre 1944. Un ultimo atto di coraggio e di sacrificio estremo che gli valse, nel 1946, la Medaglia d’oro al valore, con questa motivazione: “In nove mesi di continua lotta contro i nazifascisti creava intorno a sé, con le sue epiche gesta, un’aureola di eroica leggenda. Trascinatore entusiasta e combattente valorosissimo, ebbe largo seguito di giovani che, animati dal suo valore, accorrevano ad impugnare le armi per la redenzione della Patria. Ferito durante un cruento combattimento e raccolto in un ospedale da campo che veniva circondato da SS. tedesche, visto cadere al suo fianco il medico che lo curava e preclusa ogni via di scampo, per non fare trucidare i porta feriti e non cadere vivo nelle mani del nemico, si uccideva, concludendo la sua vita col volontario supremo sacrificio. Fulgido esempio di valore e di sublime altruismo”.

Le creature letterarie più riuscite di sempre: Miss Havisham (da Grandi Speranze, C.Dickens)

In una poltrona, con un gomito appoggiato alla tavola e con la testa posata sulla mano sedeva la più straordinaria donna che io avessi mai visto, e che mi rivedrò. Era vestita di un ricco abito: raso, merletti, sete: tutto in bianco. Anche le scarpe erano bianche. E un lungo velo ornato di fiori nuziali le scendeva dai capelli che pure erano bianchi. Sembrava non avesse ancora finito di vestirsi perché portava una sola scarpa, l’altra era posata sulla tavola vicino alla sua mano; e il velo era aggiustato solo a metà sulla testa; l’orologio e la catena non erano ancora stati messi,; e alcuni pizzi per il seno erano ammucchiati in disordine sul tavolo con i gioielli, con il fazzoletto, con i guanti, con i fiori e con un libro di preghiere.”

Così ci racconta Dickens il primo incontro tra il protagonista di Grandi Speranze, Pip, e la bizzarra Miss Havisham, una nobile signora di mezz’età che tanta influenza avrà sulla vita del protagonista.

La donna vive rinchiusa da anni in una ricca e decadente dimora, chiamata “Satis House”, nei pressi del villaggio in cui Pip è nato e cresciuto, alla foce del Tamigi. Una villa, come dice la parola stessa, immobile. Immobile come la vita che Miss Havisham ha voluto congelare un giorno di tanti anni prima, fermando gli orologi della casa nell’ora infausta in cui tutto cambiò per sempre. La pendola del soggiorno non scandisce più lo scorrere del tempo, ma le ricorda continuamente la stessa ora, giorndo dopo giorno, anno dopo anno. L’ora in cui il sangue le scivolò via dal corpo e la testa imboccò la strada della pazzia senza fare più ritorno. Da quel giorno in poi, un insano desiderio di vendetta cominciò ad essere la sola forza a mantenerla in vita.

La madre di Miss Havisham muore quando lei è ancora una bambina. Suo padre, un ricco possidente, in seguito a quel dolore si allontana anche dalla figlia, lasciandola sola nella grande dimora. Il genitore in fin di vita si pentirà di quell’ abbandono e per risarcire la figlia dei patimenti inflitti le lascia in eredità la maggior parte delle fortune della famiglia a discapito del fratello, che non dimenticherà mai il torto subito. Nonostante la solitudine la ragazza trascorre nell’agio e in serenità la sua giovinezza, trasformandosi in una creatura graziosa ed affascinante. I suoi peccati mortali furono l’ingenuità e l’amore, e li scontò entrambi in vita. Diventata adulta, getta il seme della sua fatale disgrazia: si innamora infatti di un uomo di nome Compeyson, un truffatore da quattro soldi e dai bei modi che aveva messo gli occhi sul suo cospicuo patrimonio, in combutta con il fratello Havisham. Suo cugino, Matthew Pocket, la mette in guardia dall’uomo, che aveva trascorsi ben noti alle cronache londinesi, ma lei è troppo innamorata per dargli retta. Accecata d’amore, è convinta che quelle del cugino siano solo maldicenze dovute alla gelosia e all’arroganza. Compeyson, all’apparenza sempre più innamorato, le chiede la mano e lei naturalmente accetta, traboccante di gioia. Alle nove meno venti del giorno stabilito per il loro matrimonio, mentre stava indossando l’abito da sposa, Miss Havisham riceve una lettera da Compeyson con la quale il suo promesso sposo si dichiara innamorato di un’altra donna e si congeda da lei come se fosse un semplice ospite che all’improvviso declina un invito a cena.

Preda di un furore cieco per essere stata abbandonata sull’altare, tradita, offesa ed umiliata, la Havisham ferma tutti gli orologi di casa all’ora esatta in cui scopre di essere stata raggirata. Come se volesse fissare nell’eternità quel momento così doloroso, si tramuta in una statua grottesca di disperazione: ogni cosa viene lasciata intatta nel soggiorno, compresa lei stessa. Tutto finisce in quell’ora terribile: i sogni di gioventù, la speranza, il futuro, la voglia di vivere. Lucidamente folle, decide che da quel giorno in avanti nessuna forma di vita avrebbe mai più abitato quella stanza e quel corpo, che giorno dopo giorno abbandona l’aspetto di promessa sposa per diventare un patetico fantasma ricoperto di stracci. Non si toglierà mai più quell’abito di pizzi e felicità, lascia marcire sul tavolo la torta nuziale ancora intatta e permette solo a pochissime persone di farle visita. Durante quel tempo immobile, Miss Havisham comincia a mettere a punto la sua vendetta. Quel rinchiudersi fuori dal mondo reale non fu solo un gesto per proteggersi dal dolore, per prendersi cura di sé leccandosi le ferite in solitudine, in attesa di ritornare alla vita. Quel suo isolamento andò ben oltre, e segnò l’inizio della fine: un male oscuro cominciò allora a farsi strada nella sua mente distrutta e ad allungare i suoi tentacoli. La casa fatiscente, la veste bianca ormai lacera ed insozzata dal tempo, il corpo avvizzito per la mancanza di luce, la pelle grigiastra di chi non respira più aria salubre, le ragnatele che rivestono il freddo talamo nuziale sono la cova perfetta per sentimenti altrettanto putridi e marcescenti. E’ in questo luogo tombale che la rabbia ed il desiderio di vendetta escono dai confini della normalità e divorano quel che resta di lei.

Nonostante l’aspetto decadente ha in realtà solo una cinquantina d’anni quando Pip fa la sua conoscenza. Il ragazzo rimane molto colpito dalle sembianze della nobildonna, che descrive come un orribile incrocio tra una statua di cera ed uno scheletro, con gli occhi semoventi in cavità vuote che gli incutevano un certo timore. La sua inesperienza ed il forte desiderio di migliorare la propria vita non gli consentono di capire subito il piano malvagio della donna: anche Pip infatti diventerà un’altra delle pedine di Miss Havisham, ignaro delle sue macchinazioni. Durante gli anni di isolamento volontario la donna chiede al suo avvocato, il signor Jaggers, di adottare una bambina per lei; l’uomo esegue i suoi ordini e presto a Satis House fa il suo ingresso la piccola Estella. La bimba cresce educata alla malvagità da Miss Havisham, che le insegna fin da subito ad usare bellezza, fascino e e ricchezza per irretire ed illudere gli uomini. Lei stessa si preoccupava di cercare giovanotti da presentare ad Estella, in modo che potesse così diventare abile nello spezzare il cuore di chi si innamorava di lei. La  bambina  diventa così un’adulta priva di moralità, incapace di distinguere il bene dal male e senza nessuna coscienza del dolore che infliggeva. Ne era consapevole, ma pensava che fosse giusto e normale, un divertimento crudele ma del tutto lecito. Pensava che una donna del suo calibro avesse tutto il diritto di ammaliare, ingannare, ed infine ferire chi si dichiarava innamorato di lei senza averne le qualità necessarie. Miss Havisham, artefice e spettatrice di quegli scempi, si illudeva così di vendicare se stessa del torto subito anni prima. Usava sua figlia per spezzare i cuori degli uomini, così come tanti anni prima fu spezzato il suo. L’aspetto angelico di Estella era talmente in contrasto con la sua natura guastata che riusciva a confondere chiunque le si avvicinasse. Pip, ingenuo com’era ed attratto anche lui da quella bellissima ragazza, cade nel tranello come uno sciocco. E’ convinto che Miss Havisham sia in realtà una benefattrice che, intravedendo in lui buone qualità e voglia di affermarsi, decide di aiutarlo a crearsi una posizione, per affidargli infine Estella. Una convinzione ridicola, ma Pip è talmente ottenebrato dalla voglia di riscatto sociale che non distingue più la realtà dall’illusione. A nulla valgono gli ammonimenti degli amici e dei familiari. E’ proprio nei loro confronti che commette il peccato più grave: comincia ad allontanarli da sé perché si vergogna di loro, si convince che per quanto buoni e amorevoli non possano senz’altro essere un buon biglietto da visita per il suo ingresso nel bel mondo. La nobildonna ed Estella esigevano il meglio, ed ambivano a renderlo un gran signore: non poteva permettersi di continuare a frequentare persone rozze ed ignoranti, anche se voleva loro molto bene.

Le due donne però hanno altri progetti per lui, e non fanno altro che umiliarlo. Miss Havisham lo paga solo per essere il giocattolo di Estella, e quest’ultima non fa che disprezzare Pip ricordandogli continuamente le sue umili origini.

….Nel passarmi vicino, mi guardò con un aria di trionfo, come se gioisse delle mie mani grossolane e delle mie scarpe grosse; aprì il cancello e lo tenne aperto. Stavo uscendo, senza guardarla, quando mi toccò con la mano e mi disse come per rimproverarmi: ”Perché non piangi?” “Perché non ne ho voglia” ”E invece ne hai,” disse lei “hai pianto fino a ridurti mezzo cieco, e anche ora stai lì lì per piangere. Poi si mise a ridere sprezzante, mi spinse fuori e chiuse il cancello alle mie spalle. Filai diritto dal signor Pumblechook e fui grandemente sollevato dal non trovarlo in casa. Quindi dopo aver lasciato detto al commesso in che giorno la signorina Havisham voleva che ritornassi da lei, mi misi in cammino attaccando le quattro miglia che mi separavano dalla nostra fucina, meditando lungo il cammino su quello che avevo visto, e ripetendomi che altro non ero che un volgarissimo figlio di operai, che le mie mani erano tozze, che le mie scarpe erano grosse, che avevo la deplorevole abitudine di chiamare i fanti jacks; che mi sentivo molto più ignorante di quanto non mi fossi sentito la sera prima e che, in linea generale, avevo l’aspetto di un miserabile essere appartenente a una classe inferiore.”

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Questa consapevolezza, anziché farlo rinsavire, lo spinge a desiderare disperatamente un futuro prospero che possa in qualche modo elevarlo dalla condizione di inferiorità in cui si sente relegato. Decide così di partire per Londra, rinnegando gli amici di una vita e chi l’aveva cresciuto. E’ questo l’unico modo in cui pensa di poter raggiungere la felicità: una volta diventato ricco e liberatosi dalla zavorra del passato, si sarebbe avvicinato al cuore di Estella rendendosi degno di lei. Nonostante tutto il dolore che le aveva procurato continuava ad amarla, perché non vedeva cattiveria in quella ragazza, ma soltanto un giusto desiderio di pretendere il meglio per sé. Ma Pip, ovviamente, non ottiene nulla di quello che sperava. La strada tracciata dal male non è mai molto lunga, e nemmeno prospera. Quello che compie è invece un cammino di conoscenza e disillusione, in cui sarà costretto a fare finalmente i conti con la propria cecità, fino a quando apprenderà la più importante delle lezioni.

Ormai la macchina del male ha arrestato la sua corsa ed ha invertito gli ingranaggi: è il momento della presa di coscienza e della consapevolezza. Per tutti.

Miss Havisham, quando Estella sta per sposare il rivale di Pip (l’odioso Bentley Drummle), realizza improvvisamente che l’ aver spezzato il cuore del ragazzo non ha provocato in lei nessuna soddisfazione, ma capisce di aver causato solamente altro dolore. La maschera grottesca che aveva indossato per rifugiarsi dal mondo si rompe in mille pezzi di fronte all’accettazione della realtà, liberandola finalmente da quella vita di tormento. Miss Havisham supplica Pip di perdonarla, sinceramente pentita.

Dopo che Pip se ne è andato, Miss Havisham prende la lettera del fidanzato che l’aveva tradita e la brucia gettandola nel camino. Ormai non ha più bisogno di covare rabbia. I tizzoni ardenti le ricadono sul vestito di stracci, e in un attimo il fuoco le divampa addosso. Pip, quando si accorge dell’incendio, torna indietro per cercare di salvarla, ma la donna ha ormai subito troppe ustioni.

Morirà poche settimane dopo, con il cuore libero e il perdono di Pip.

“Alabama Song”, di Gilles Leroy: Zelda racconta

E’ il luglio del 1918 quando Zelda, figlia di un anziano e severo giudice di contea, incontra al Country Club di Montgomery Francis Scott Fizgerald. Sottotenente dell’esercito americano con l’ambizione di diventare un grande scrittore, si arruolò durante il conflitto mondiale ma non venne mai spedito al fronte. La guerra è ormai agli sgoccioli quando viene spostato al campo di addestramento in Alabama: si innamora perdutamente di Zelda ma pochi mesi dopo il suo reparto viene trasferito in una base militare di Long Island per l’imbarco. Pochi mesi dopo otterrà il congedo dall’esercito e farà ritorno a New York, fermamente intenzionato a scrivere il suo primo romanzo,  non prima però di aver chiesto la mano  della più bella ragazza di Montgomery. Zelda è poco più di una bambina, e nonostante ami Scott non ha nessuna intenzione di aspettare pazientemente che il fidanzato ottenga il successo sperato privandosi dei divertimenti a cui era abituata. Fu un periodo di missive burrascose, che però non minarono l’unione. Giovani, spregiudicati ed innamorati, i due ragazzi  si sposano il 3 aprile del 1920 a New York, dove iniziò “la grande leggenda della bellissima coppia, eroina, simbolo ed interprete di tutte le prodezze sofisticate dell’età del jazz”. In quel periodo Scott aveva appena dato alle stampe “Di qua dal Paradiso”, e fu un enorme successo. Critica e pubblico accolsero con grande entusiasmo il romanzo, dimostrando di apprezzare lo stile fresco, innovativo e spregiudicato di Fitzgerald. Scott, giovanissimo, diventò così il simbolo di una nuova generazione, quella che si andava profilando dopo gli anni terribili della Grande Guerra: era iniziato il periodo più sfrenato del ‘900, permeato da un’intensa gioia di vivere che spesso raggiungeva livelli estremi di esaltazione. Ma questa non è la storia di Scott, e nemmeno quella dei ruggenti anni venti. Questa è la storia di una giovane donna ribelle e spregiudicata, per la quale la famiglia di origine e la vita di provincia rappresentavano   un’inutile  zavorra che le impediva di volare libera. Era erotica e sensuale Zelda, ed amava esserlo. Gli uomini   perdevano la testa per lei e lei adorava essere corteggiata, ma non si concedeva mai veramente; usciva con i militari di stanza a Montgomery (seppur colleghi di Scott), ed i compagni di liceo senza badare ai pettegolezzi e alla disapprovazione dei genitori, incurante di tutto eccetto che di sè stessa e del proprio appagamento. L’estrema severità del padre e l’incomunicabilità con la madre spinsero Zelda alla ribellione, ma non fu necessario alzare barriere ed inneggiare alla guerra: era come se avesse seguito un’onda naturale, la piega perfetta, l’unica che potesse prendere la sua vita. Oggi  Zelda viene considerata una  “femminista ante litteram“, ma per quei tempi non fu altro che una donna scandalosa e modaiola, a seconda dell’ambiente a cui si rapportava. Portava i capelli alla maschietta,    usciva da sola o con chi più l’aggradava atteggiandosi come un uomo, beveva troppo e faceva il bagno completamente nuda: se questo a New York o in Europa era considerato un comportamento accettabile ed addirittura affascinante, si scontrava invece  duramente con la cultura dell’ america del sud, ancorata a solide tradizioni per le quali le donne dovevano essere creature docili ed irreprensibili, senza ambizioni nè desideri.  Zelda  era l’opposto di quell’archetipo, e fu proprio il suo anticonformismo ad attirare dannatamente Scott, anche lui lontano anni luce dall’immagine del  bravo ragazzo americano. Gli anni venti ebbero così la loro stella,  strappandola ai cieli infuocati dell’Alabama. Quella di Zelda fu un’esplosione di luce tanto fugace quanto intensa, che bruciò ogni cosa, come un incendio devastante: amore, famiglia, carriera, sogni, speranze. Sopravvissero al suo declino solo i ricordi della fanciullezza, che custodiva come un tesoro prezioso in un angolo di sè, uno dei pochi che ancora l’elettroshock non aveva distrutto. Il luogo più intimo, il più inaccessibile di tutti,  in cui era sempre giovane e bella, innamorata,  seducente ed affamata di vita. L’Alabama, da cui era scappata con Scott per mordere la vita, si trasforma in nostalgica dolcezza e diventa il leitmotiv che accompagnerà la sua vita adulta.

Il matrimonio con Scott fu una perenne corsa  sulle montagne russe, con picchi di euforica felicità e precipitose discese all’inferno. Un uomo e una donna simbiotici ed autodistruttivi, lanciati a folle velocità verso un futuro di cui  non importava a nessuno, icone di un’epoca dorata in cui gli artisti venivano idolatrati, come oggi faremmo con una rockstar. E loro, investiti da tanta magnificenza, si sentivano forse in dovere di restituire qualcosa al pubblico adorante, dettando mode e sovvertendo qualsiasi regola morale. Gli artisti hanno un tormento interiore che costituisce parte fondamentale del loro genio, ma per Scott è diverso. Il vero tormento è Zelda a portarselo addosso, e Scott non può far altro che assimilare il suo male di vivere, osservarlo, spiarlo ed ispirarsi ad esso per i suoi romanzi. Anche se questo significava rubare i diari che Zelda scriveva sin  da quando era ragazza, o sabotare la pubblicazione della sua raccolta di racconti aggiungendo il nome “Scott” accanto al cognome di entrambi. La sofferenza psichica di Zelda diventa essenziale per la scrittura di Scott, i cui personaggi femminili interpretano ognuno una fase diversa della vita della moglie. Nel giro di pochi anni le stelle più sfavillanti del firmamento europeo si spengono poco alla volta, lasciando il vuoto intorno come gigantesche supernova. Scott non riesce più a scrivere niente di decente, è imbottito di alcol e debiti, non riesce più a fare l’amore con sua moglie perché sono più le volte che si addormenta ubriaco fradicio di quelle in cui è sveglio. Zelda lo tradisce, scappa ad Antibes con un aviatore francese, ma Scott torna a riprenderla per rinfacciarle quel tradimento fino alla fine del loro matrimonio. La bellezza di Zelda comincia a sfiorire, i demoni interiori la tengono stretta in una morsa micidiale, cominciano i ricoveri nelle cliniche psichiatriche, le sedute interminabili con i dottori, gli elettroshock. “Scott, mio marito, è stata una trappola di cristallo: ha rubato la mia vita, la mia essenza, la mia arte“. Ma i medici non le danno retta, è Scott che paga le loro parcelle, e la diagnosi è quella di schizofrenia.  Chi può mai sapere se Zelda fosse stata realmente plagiata dall’amato Scott o se la sua fu semplice ispirazione? Quella del marito era gelosia per un talento puro, che non aveva bisogno di anni di incessante lavorìo, o era sincera ammirazione? I disturbi psichici di Zelda erano gravi  al punto da farle percepire tutto attraverso un filtro distorto? E’ stata la sua follia latente a condurre Scott passo dopo passo sull’orlo del baratro, alcolizzato e senza più vena creativa, o fu la depressione di Scott a distruggerla definitivamente? Era folie a’ deux o era solo troppo amore? Questo romanzo non ha la pretesa di stabilire una nuova verità, è solo la vita di Zelda raccontata  attraverso i suoi occhi ed è composto come un diario, simile a quelli che la donna – presumibilmente – ha sempre tenuto fin da quando viveva ancora in Alabama. Non esiste una trama lineare, le pagine sono pensieri che prendono forma un po’ alla volta, come se arrivata ad un certo punto della sua vita Zelda sentisse la fine vicina e venisse travolta dai ricordi. Il piano temporale è sfalsato, gli anni si rincorrono veloci e si raggomitolano su sè stessi, ma seguire il flusso dei suoi pensieri è semplice, perchè per comprendere un romanzo così intimo non è  necessario seguire lo scorrere del tempo. Il filo conduttore è qualcosa di sfuggente, che non si può misurare: è la nostalgia, è un  demone interiore che non si riesce mai a vincere,  che respingiamo e cerchiamo con la stessa ostinata disperazione.

🔖 Zelda Sayre Fitzergald morì all’età di quarantasette anni nell’incendio nell’ospedale psichiatrico in cui era ricoverata a causa della sua instabilità mentale, dovuta secondo alcuni ad una grave forma di schizofrenia, secondo altri ad una depressone congenita. Nel 1932 pubblicò il romanzo autobiografico “Save Me the Waltz” (Lasciami l’ultimo valzer), in cui sono presenti numerosi spaccati della sua vita matrimoniale. “Tenera è la notte” venne pubblicato da Francis Scott Fitzgerald nel 1934, e leggendolo è impossibile non capire dove  trasse ispirazione per i personaggi di Dick e Nicole. O dove fu il plagio.

“Italiana”, di Giuseppe Catozzella: la leggenda della prima brigantessa d’Italia

Cosa significa essere italiana all’alba del 1861?

L’unità del regno fu proclamata il 17 marzo del 1861 dal Re di Sardegna Vittorio Emanuele II, dopo due guerre di indipendenza contro il dominio austriaco e la spedizione dei Mille capitanata da Giuseppe Garibaldi. L’annessione del Regno delle due Sicilie fu l’episodio cardine con cui si conclusero decenni di moti insurrezionali da parte di un popolo ormai insofferente ai Borboni, colpevoli della situazione di degrado generale in cui versava tutto il regno, da Napoli alla Sicilia. Il mezzogiorno con i suoi grandi latifondi in mano ai pochi nobili locali aveva un’economia arretrata, improduttiva e sterile, che indusse il popolo ormai ridotto in miseria ad appoggiare la spedizione di Garibaldi. L’onda emotiva degli ideali mazziniani di libertà e giustizia, il concetto di un’unica nazione e di un unico popolo, furono il motore che spinse frotte di eserciti spontanei ad unirsi ai garibaldini appena sbarcati a Marsala. Vittorio Emanuele promise in cambio l’abbattimento del sistema colonico e un’equa distribuzione delle terre, ma purtroppo, come la storia ci insegna, non mantenne mai l’impegno preso: dalla sudditanza nei confronti dei Borboni si passò a quella nei confronti dei Savoia. Come affermò il Principe di Salina mentre assisteva impotente al suo inesorabile declino, “Bisogna che tutto cambi affiché niente cambi”. E così fu.

In questo contesto sociale e politico così difficile, segnato da guerre civili perlopiù ignorate dai libri di storia, Giuseppe Catozzella racconta la vita straordinaria di Maria Oliverio detta Ciccilla, nata nella Calabria borbonica del 1841, prima brigantessa d’Italia. Fatta eccezione per il già citato “Gattopardo”, che in ogni caso rappresenta il punto di vista della nobiltà borbonica, in pochi hanno approfondito le vicende degli sconfitti, che dopo l’annessione al Regno Sabaudo crearono sacche di resistenza in tutto il sud. A scuola studiamo con fervore la grande impresa di Garibaldi, che unì l’Italia sotto un’unica corona, aiutato dal popolo oppresso: in realtà la spedizione dei Mille fu un fallimento completo, e Il sentimento patriottico che accese di speranza i meridionali in rivolta contro i borboni fu come un’intensa fiammata di cui rimasero solo le ceneri. E le conseguenze furono drammatiche.

Maria nacque a Casole, un paesino situato nel cuore dell’altopiano della Sila, circondato da paesaggi di indescrivibile bellezza. I boschi della Sila, con la loro natura maestosa ed incontaminata, hanno un ruolo molto importante nella vita di Maria fin da quando era una bambina. Si sentiva pienamente felice e libera solo quando si inerpicava lungo i sentieri che dal paese conducevano fino al Monte Botte Donato, la vetta più alta della Sila, ai piedi del quale aveva vissuto la nonna materna e ancora abitava la zia “Terremoto”. Ogni volta che il suo sguardo si posava su quelle montagne avvertiva un richiamo ancestrale, una specie di presagio che poteva fiutare nell’aria, come se dentro di sè sapesse di appartenere a quei luoghi da sempre. I suoi genitori erano coloni che lavoravano nei latifondi dei signori locali, come la maggior parte dei popolani di quel periodo, e conducevano un’esistenza misera, fatta di privazioni e di fatica. La vita della famiglia cambia improvvisamente quando Concetta, la figlia maggiore data in adozione ad una coppia di aristocratici napoletani ( di cui in casa non si parlava mai) è costretta tornare a vivere al paese. Durante un tumulto di piazza i due nobili, in viaggio verso Casole per accordarsi anche sull’adozione di Maria, restano vittime di un agguato e muoiono entrambi. Concetta ritiene responsabile Maria per la tragica morte dei genitori adottivi e per la fine della sua vita agiata; per questo motivo, fin da subito, decide meschinamente che si sarebbe vendicata, distruggendole la vita. La famiglia, per compiacere quella figlia che veneravano quasi come fosse un essere superiore, si indebita affinché lei potesse mantenere le sue costose abitudini e le lasciano l’unica stanza da letto della casa. Maria, senza più un posto dove stare, trova ospitalità dalla zia Terremoto, che viveva in una baracca ai piedi del monte Botta, in mezzo agli animali. Paradossalmente quelli furono gli anni più felici della sua infanzia: dalla zia Terremoto, moglie di un brigante che da anni era fuggito dal paese, impara a vivere nei boschi in perfetta simbiosi con la natura circostante, traendo dalla sua figura solitaria e mascolina l’ affetto e la protezione di cui aveva bisogno. La storia della brigantessa Ciccilla affonda qui le sue radici, tra la maestosità di quelle montagne che le donne della sua famiglia avevano nel sangue da generazioni, emblema di libertà assoluta, rifugio e nutrimento per chi, come lei, non aveva un luogo che potesse davvero chiamare casa. Ritornata in famiglia dopo la partenza per Napoli del fratello maggiore si rassegnò al suo destino di tessitrice presso la massoneria dei signorotti locali, fino al fatale incontro con Pietro Monaco, giovane e brillante carbonaro animato dai nuovi ideali di libertà che stavano infiammando tutta la penisola. Pietro, inizialmente arruolato nelle truppe borboniche, diserta l’esercito regio per unirsi ai garibaldini in procinto di salpare verso Marsala. Nel mentre Maria e Pietro si sposano, lei ha solo 17 anni e crede intensamente nell’amore del ragazzo, ma ancora una volta la vita le presenterà un conto altissimo. Pietro è un sognatore insofferente alle regole, con un animo passionale ed irruento che crede fortemente in Garibaldi, al punto di rischiare più di una volta la sua stessa vita in nome di quegli ideali. Vittorio Emanuele però non manterrà mai nessuna delle sue promesse di libertà e giustizia: non fece altro che riciclare la vecchia classe dirigente borbonica, che nel frattempo aveva cambiato giubba. Quando Pietro percepisce il tradimento del nuovo Re una rabbia feroce si impadronisce di lui, esacerbando la sua indole violenta. Fugge sulle alture della Sila per combattere contro la stessa nazione che col suo sacrificio aveva contribuito a far nascere, dandosi al brigantaggio insieme ad un manipolo di disillusi come lui. Maria lo seguirà poco dopo, anche lei ormai senza via di scampo dopo aver commesso un terribile omicidio, ben sapendo che la vita con Pietro sarebbe stata un’altra guerra, un continuo amare per poi difendersi fino allo stremo delle forze. Tra le grotte silane abbandonò per sempre i panni di Maria e si trasformò in Ciccilla, una donna libera e fiera, brigantessa spietata e bellissima, una guerriera le cui gesta diventarono leggendarie e travalicarono i confini dell’Italia. Di lei parlò Alexander Dumas, all’epoca direttore del giornale “L’indipendente”, dedicandole diversi racconti, mentre si ispirò a Pietro Monaco per comporre il suo romanzo “Robin Hood il proscritto”.

💡La vicenda storica e umana di Ciccilla, raccontata in prima persona, è un piccolo gioiello . L’autore è riuscito a calarsi nei panni di questa giovane donna dando voce al suo complesso mondo interiore senza mai far percepire la finzione narrativa. Maria, lacerata tra l’amore per la sua famiglia e quell’intenso desiderio di vivere secondo le sue leggi e Ciccilla, brigantessa coraggiosa e indomabile: non sarebbe stato semplice nemmeno per una donna raccontare il profondo percorso evolutivo di un’altra donna, conosciuta solo attraverso la documentazione ufficiale degli atti processuali e degli archivi di stato. Giuseppe Catozzella invece riesce a scrivere in modo assolutamente credibile queste pagine, entrando in profonda connessione non solo con Maria ma con tutte le figure femminili che hanno accompagnato la sua vita: la madre, la sorella, la zia, la maestra, perfino la lupa che la sceglierà come capo branco durante il periodo da brigantessa ha un suo ruolo, un suo percorso, ed è fortemente simbolica. A tutto questo fa da contorno un paesaggio affascinante e primordiale che si fonde completamente con la figura di Ciccilla, creando intense suggestioni.

🔖”Italiana” è la storia di una donna che combatte per la sua libertà, ma è anche la storia di un paese, il nostro: abbandonato dai vincitori, ferito, unito geograficamente ma non nel suo intimo, in cerca di un senso di appartenenza che forse ancora non ha trovato.

“Leggere Lolita a Teheran”, di Azar Nafisi: La cultura e la donna nell’Iran di Khomeyni

“Leggere Lolita a Teheran” è un romanzo di Azar Nafisi, professoressa di letteratura anglosassone presso l’università Allameh Tabatabei di Theran, pubblicato nel 2004 ed immediatamente balzato in testa alle classifiche di tutto il mondo. Da molto tempo questo volume transita nella mia libreria ma ho costantemente  rimandato  la sua lettura,  perché l’idea di avventurarmi  nell’estremismo islamico non mi attirava, anzi, mi respingeva con forza. Quest’anno, complice una sfida tra amici lettori, ho finalmente deciso di affrontarlo. E’ un romanzo che strizza l’occhio al saggio, senza  capitoli in ordine cronologico, senza una trama vera e propria ma con un messaggio di fondo ben preciso, che ne costituisce il fulcro. Il testo è strutturato  in quattro parti,  ognuna delle quali prende il nome dei romanzi che la professoressa, più di ogni altro, amava insegnare ai suoi studenti: Lolita, Gatsby, Daisy Miller e Orgoglio e Pregiudizio. Questi titoli rappresentano non solo un preciso momento storico e personale della vita della Nafisi, ma  sono il simbolo  del legame che lei e le sue studentesse  ebbero con la letteratura in quegli anni  terribili, un’ancora di salvezza  alla quale  rimasero aggrappate per non venire inghiotte dal buio della repressione e restare umane, vive, consapevoli.

L’Iran è un paese con una storia millenaria affascinante, culla di antiche e nobili civiltà, ma  purtroppo la mia generazione ha imparato a conoscerlo solo dopo la rivoluzione islamica degli anni settanta, quando l’ estremismo religioso e politico dell’Ayatollah Khomeyni lo trasformò in un acerrimo nemico dell’ Occidente. Il romanzo è sostanzialmente la storia della professoressa Nafisi, figlia di un ex sindaco di Theran, che a tredici anni viene mandata a studiare in America, dove si formerà culturalmente. Dopo la laurea torna in Iran per intraprendere la  carriera di insegnante universitaria, ma già all’aeroporto ha la netta percezione di quello che starà per accadere: il suo non sarebbe stato un ritorno in patria, bensì l’inizio di una nuova vita in un paese radicalmente cambiato, ormai straniero.

Durante i primi anni che seguono la rivoluzione islamica la professoressa Nafisi continua ad insegnare letteratura inglese fino a quando le fu concesso di farlo, nonostante le difficoltà causate dalle materie “occidentali” che insegnava e dalla sua emancipazione. L’estremismo religioso imponeva divieti al limite del surreale, che di fatto rendevano impossibile una normale formazione, soprattutto per le ragazze. Era vietato correre per le scale, ridere con le compagne, mettersi i lacci colorati alle scarpe, perfino mordere una mela o leccare un gelato per strada erano considerati atti peccaminosi, e pertanto puniti severamente dalle guardie della rivoluzione. Si trattava di punizioni corporali che, a seconda della gravità dell’atto, si traducevano in un numero variabile di frustate, fino ad arrivare all’arresto e a lunghe prigionie a scopo rieducativo. Khomeini abbassò l’età minima per le spose a nove anni, in modo da poter garantire al buon fedele una moglie vergine, inaugurando una lunga serie di restrizioni, umiliazioni e violenze che le ragazzine subivano fin da piccole, all’interno delle famiglie e dei cortili scolastici.  In un clima simile l’educazione liberale della professoressa Nafisi si scontrava duramente col nuovo potere, il quale considerava la cultura occidentale  il nemico da sconfiggere, che contaminava e rendeva impuri. Paradossale ed emblematica è la figura del censore di quei primi anni post rivoluzione,  un uomo completamente cieco che per ovvi motivi tagliava le scene dei film stranieri senza alcuna cognizione di causa.  Questo personaggio viene spesso citato dalla Nafisi come simbolo di degrado,  per farci comprendere quanto la rigidità dei provvedimenti adottati dal regime talebano fosse talmente ottusa e priva di senso  da sfociare spesso nel ridicolo. L’università di Teheran era tra le più liberali dell’ Iran, non perché tolleravano quel genere di insegnamento o la sua figura di donna occidentalizzata, ma perché non prendevano provvedimenti  e sostanzialmente lasciavano che lei svolgesse il suo lavoro senza punirla come avrebbero fatto altrove. Era rispettata dalla maggior parte degli studenti e malvista dalle guardie della rivoluzione perchè la sua opposizione al regime non sfuggiva agli occhi più attenti, ma a differenza di molte sue studentesse non fu mai né arrestata né torturata in carcere. Dentro di sè  non accettò mai l’imposizione del velo, portandolo sempre con evidente rassegnazione, ma fu una ribellione silente, taciuta per sopravvivere. Quando con il passare del tempo la situazione divenne insostenibile decise di  abbandonare l’università ma non rinunciò all’insegnamento, organizzando un seminario tra le mura domestiche, destinato ad un ristretto gruppo di studentesse. Erano incontri privati e clandestini ai quali le ragazze, scelte tra quelle più meritevoli e promettenti, parteciparono con grande entusiasmo: è Lolita di Nabokov il primo romanzo scelto per questi incontri, un testo che era impossibile reperire nelle librerie di Theran, già da tempo purgate da qualsiasi opera occidentale. Nafisi lo fotocopia per tutte loro e da quel momento in poi sarà la letteratura a fare il resto. Quegli appuntamenti settimanali diventeranno un momento di rinascita individuale, uno spazio libero in cui le ragazze potevano togliersi il velo e la veste e rivelarsi per quello che erano, giovani donne che amavano laccarsi le unghie di rosso ed indossare jeans e t shirt colorate, che amavano ironizzare  su sé stesse  e sulla vita, mangiare dolci preparati in casa e bere caffè riflettendo sulla libertà espressiva di Nabokov, sul crollo delle illusioni di Fitzgerald, la critica sociale di Henry James e la modernità di Jane Austen. La letteratura rappresentava per queste ragazze non soltanto un mezzo per evadere da un contesto familiare e sociale opprimente, ma una concreta possibilità  di riappropriarsi di sè stesse e della  propria libertà di pensiero, quando tutto il resto veniva negato. L’affermazione della propria individualità, una rivolta non fisica bensì intima, era l’unica arma che avevano a disposizione per ribellarsi al fondamentalismo islamico, una battaglia per la dignità  combattuta studiando su libri trafugati, su testi fatti a brandelli e tenuti insieme dalla forza della disperazione.  Il romanzo diventa, anche per Nafisi stessa, uno specchio in cui è possibile scorgere i tanti riflessi di sé stesse e della realtà che le circonda, un luogo in cui potersi muovere liberamente, seppur restando seduti dietro le tende di un’abitazione privata .  “Leggere Lolita a Teheran” è una contraddizione in termini nell’Iran di Khomeini, è l’espressione individuale  contro un regime che omologa e che invade ogni spazio privato, è il potere della letteratura che arricchisce di nuove prospettive contrapposto alla censura cieca  del totalitarsimo, è la libertà di raccontare una storia qualunque contro il perfetto, irreale eroismo dei martiri religiosi.

Viene naturale chiedersi se, in un romanzo così apertamente ostile alla rivoluzione islamica e i suoi dogmi, siano molte le pagine dedicate alla denuncia sociale e alla critica politica. La risposta è no, tutt’altro. I fatti vengono raccontati attraverso l’esperienza della Nafisi come docente universitaria e delle sue studentesse, ma il romanzo non perde mai il suo centro, che resta il ruolo della donna  all’interno degli ambienti  culturali iraniani  nel momento in cui la letteratura, così come ogni altra forma di espressione,  stava per essere imbrigliata nelle fitte restrizioni del regime, trasformandosi in un accessorio  fragile e superfluo, la cui salvaguardia non interessava più a nessuno. I suoi ricordi sono  sempre stemperati da un’intensa nostalgia, si percepisce un amore profondo per le sue origini, per il suo paese martoriato dal fanatismo religioso e da anni di guerra con l’Iraq, per quell’antica Persia che la rivoluzione avrebbe dovuto restituire al popolo e che invece, come tutti gli atti violenti ed estremi, tradì i suoi ideali ed ebbe conseguenze nefaste.

Le uniche divagazioni che l’autrice si concede sono quelle letterarie,  che a mio giudizio appesantiscono un po’ il racconto e mettono in difficoltà il lettore che non ha dimestichezza con l’esegesi dei testi.  Inoltre la struttura non lineare del romanzo conferisce alla narrazione un ritmo poco sostenuto, che spesso rallenta e si perde nei ricordi della Nafisi. Le immagini si sovrastano l’una con l’altra ed anche i personaggi sembrano sfuggenti, tanto che alcune volte  collocarli nel contesto è difficoltoso.  Tuttavia, essendo il focus del romanzo slegato da una trama in senso stretto,  la lettura risulta comunque appagante, interessante, oserei dire quasi indispensabile  se si vuole comprendere meglio la realtà della condizione femminile nell’Iran fondato da Khomeini, ancora tristemente attuale, ed andare oltre i nostri pregiudizi nei confronti di questo popolo.

“Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”, di Mary Ann Shaffer: l’occupazione nazista nella Manica

“Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”, a dispetto del titolo curiosamente buffo, è un romanzo profondo e commovente che ho avuto la fortuna di leggere grazie al mio club del libro, con il quale affrontiamo letture mensili scambiandoci impressioni, sorrisi e tazze di tè.

Questo è uno di quei romanzi che, una volta terminati, ti fanno venire voglia di preparare i bagagli e di partire immediatamente verso la minuscola Isola di Guernsey, nel canale della Manica. Prima di leggere il libro (e di aver visto il film, di cui però ho vaghissimi ricordi) non sapevo nemmeno cosa fosse e dove fosse Guernsey, figurarsi poi se ero al corrente della sua incredibile storia. Google alla mano, leggo che “il Baliato di Guernsey è uno stato autonomo di fronte alla costa della Normandia ma dipendenza della corona britannica, dove si parla inglese, il guernese (variante del normanno francese) e altre lingue delle isole del canale”. Queste informazioni  mi sono state di aiuto per contestualizzare la storia narrata, a cui l’autrice ha voluto dare voce dopo essere soggiornata a Guernsey nel 1980. Mary Ann Shaffern, libraia, bibliotecaria ed editor, parlando con gli abitanti del posto decide di compiere alcune ricerche più approfondite sulle vicende storiche dell’isola durante l’occupazione nazista, rimanendone affascinata al punto da voler scrivere un libro a riguardo. La sua protagonista Juliet rappresenta quindi una specie di alter ego, alla quale viene affidato il compito di riconsegnare alla memoria collettiva un pezzo di storia europea completamente dimenticata: quella dell’unico lembo di terra che Hitler riuscì a strappare alla Corona Inglese, con l’intento di trasformarlo in un avamposto militare per il controllo della Manica. Siamo nel 1946 e l’isola risente ancora dei pesanti strascichi dell’occupazione nazista. Juliet Ashton, giovane ed intraprendente giornalista londinese alla ricerca dell’ispirazione giusta per confezionare il suo nuovo romanzo, comincia per una mera casualità del destino una fitta corrispondenza con alcuni abitanti dell’isola. Spinta dalla curiosità di conoscere di persona i suoi amici di penna e desiderosa di lavorare alla sua nuova idea, deciderà di raggiungere Guernsey lei stessa, con disappunto del fidanzato e il benestare del suo editore. La vita sull’isola in pochi giorni la cattura e l’avvolge con la piacevolezza di una coperta calda, restituendole col suo tepore un’essenza vitale che pareva perduta per sempre tra le macerie di Londra. La vita di Juliet è apparentemente perfetta: è una ragazza carina e solare, con una vita piena e soddisfacente, un lavoro interessante che le ha conferito una certa popolarità ed un corteggiatore che pare sbucato fuori da un libro delle fiabe, desideroso di impalmarla al più presto. Eppure, dopo le prime missive scambiate col timido Darwsey, sente un irresistibile richiamo che la allontana lettera dopo lettera dalla sua vita londinese con le sue promesse di rinascita.

E’ stata una lettura semplicemente perfetta, a cui la forma epistolare ha aggiunto quel “quid” in più, rendendola scorrevole e molto piacevole. Mary Ann Shaffer è morta prima di riuscire a terminare il romanzo, è per questo che in copertina figura un doppio nome tra gli autori: è stata infatti la nipote Annie Barrows a portare a termine il suo lavoro, mantenendo intatto il senso e lo stile della zia. A mio sindacabilissimo giudizio l’autrice è riuscita a coniugare con grande abilità lo spessore storico degli eventi narrati all’ironia e alla leggerezza liberatoria dei protagonisti che in prima persona raccontano le loro terribili esperienze, alcune non ancora concluse. E’ la voce di chi è riuscito con fatica a tenere testa a all’orrore, dando respiro a quella voglia di vivere che a dispetto di tutto è rimasta incollata addosso anche in mezzo alle tragedie, come una seconda pelle. Sono persone impaurite e mutilate nell’anima, eppure non c’è traccia di commiserazione in loro, tutt’altro. Nella disperazione di quei lunghi mesi riescono a trovare qualcosa di straordinario che li salva e li unisce: “Leggemmo di libri, parlammo di libri, discutemmo di libri, e diventammo sempre più vicini gli uni agli altri… e le nostre serate insieme divennero momenti vivaci e luminosi – potevamo quasi dimenticare, adesso e allora, l’oscurità all’esterno.” Sì, è stato proprio questo a tenerli vivi: un improbabile gruppo di lettura nato nel pieno dell’occupazione, tra coprifuoco e privazioni di ogni genere. Il senso di comunione degli isolani protagonisti, e la forza straordinaria che ne scaturisce, è come un balsamo che allevia il dolore, che cura le ferite più profonde, e che miracolosamente fa stare meglio anche noi mentre leggiamo. Perché il contorno sarà anche finzione a scopo narrativo, ma la storia non lo è affatto. La paura, la fame, le deportazioni, i lavori forzati, le bombe, le macerie, l’isolamento dal resto del mondo, l’assenza di notizie, i bambini allontanati nelle campagne inglesi, gli aiuti umanitari della Croce Rossa arrivati dalla neutrale Svizzera, quando ormai stavano tutti morendo di stenti nell’indifferenza del quartier generale britannico preoccupato di non far intercettare i viveri ai nemici più che della sopravvivenza degli isolani. Questo è reale, lo sarà sempre e noi abbiamo il dovere di ricordare fino a che ne saremo capaci. Ho sorriso lo stesso numero di volte in cui mi sono commossa, in un perfetto equilibrio, ed ho desiderato che le pagine fossero almeno il doppio, perché non volevo lasciare Guernsey. Non la volevo lasciare non solo perché ho amato pazzamente tutti i personaggi, l’ambientazione storica e geografica, o perché mi ha aiutato a conoscere un pezzo di storia che colpevolmente ignoravo. Ho amato Guernsey soprattutto perché è portatrice di un messaggio importante che condivido pienamente, di cui anche tutti noi in fondo siamo un po’ testimoni: che i libri ci salvano sempre, ed i legami che essi creano sono qualcosa di indissolubile, un richiamo fortissimo alla vita che ci arricchisce e ci fa crescere continuamente.

P.S.

Dal romanzo è stato tratto anche un film, uscito per Netflix qualche anno fa. Delizioso, ma il libro ha decisamente una marcia in più!

“Dracul” di Dacre Stoker & J.D. Barker: tra miti e antiche leggende

Vlad III di Valacchia, Voivoda discendente dei Drakul conosciuto col nome patronimico “Dracula”, passato agli onori delle cronache come “Vlad Tepes”, che in rumeno significa “L’impalatore”:  la leggenda più famosa del mondo, un personaggio realmente esistito che Bram Stoker prende in prestito dalla storia per dare vita ad una delle figure letterarie più famose e indimenticabili, quella del vampiro “Dracula”. Come sappiamo, Bram Stoker si ispirò al principe rumeno, noto per la sua brutalità, per creare l’ultimo, e probabilmente il più grandioso, dei romanzi gotici. Ad alimentare la fantasia dell’autore vi era anche quel nome così intriso di significati occulti, perché “Drakul” in lingua rumena significa “demoni”. Una coincidenza perfetta , un incastro tra storia e finzione narrativa che avrebbe funzionato alla perfezione…forse persino troppo, per essere solo frutto di una fantasia. Quello che  molti ignorano, e che io ho scoperto soltanto oggi (molti anni dopo averlo letto), è che Bram Stoker nella prefazione originale all’opera sosteneva la piena veridicità delle vicende narrate. Quando l’editore londinese di Stoker lesse le pagine di presentazione si rifiutò categoricamente di pubblicare il manoscritto come storia vera: Londra era ancora sconvolta dalle terribili vicende di “Jack Lo squartatore” e dare alle stampe un romanzo-verità in cui il protagonista uccideva le proprie vittime per cibarsi di sangue umano avrebbe certamente suscitato ondate di panico. Quella che è arrivata fino a noi è quindi una seconda versione del manoscritto, amputata dalle affermazioni sull’esistenza del Principe Vlad, aristocratico vampiro dalla leggendaria efferatezza. Le pagine mancanti sono circa un centinaio: cosa contenevano?

Ribadisco che la misteriosa tragedia qui descritta sia totalmente vera in tutti i suoi aspetti esterni. (Prefazione originale di “Dracula”)

In quale ordine di successione siano presentate queste carte risulterà evidente a chi le leggerà. Tutti i fatti superflui sono stati eliminati, in maniera che una storia apparentemente inverosimile e quasi incompatibile con le credenze di oggi possa reggere come una semplice realtà. (Prefazione a “Dracula”)

A questo punto viene naturale porsi una domanda: come mai un uomo così colto e concreto come Stoker, che studiò al Trinity College di Dublino sia materie umanistiche che scientifiche, laureandosi poi a pieni voti in matematica, appassionato recensore di spettacoli teatrali e dedito alla carriera nella pubblica amministrazione, avrebbe dovuto credere ad una leggenda popolare al punto tale da ritenere necessario divulgare le sue convinzioni? Quale messaggio voleva trasmettere al mondo, quale sconcertante verità doveva rivelare? E’ proprio questo il perno su cui ruota “Dracul”: l’ossessione dell’antenato Stoker per i vampiri, giustificata dall’inconfutabile certezza della loro esistenza. In questo senso il romanzo può considerarsi un prequel: qui troveremo la risposta ai tormenti di Stoker, poiché il protagonista è lui stesso. Viaggeremo tra i suoi ricordi, frugheremo tra i segreti della sua famiglia e affronteremo i suoi incubi. Analogamente a “Dracula” , anche “Dracul” è strutturato come un romanzo epistolare, in cui ai numerosi carteggi si alternano pagine di diari privati che servono al lettore per calarsi nella storia e per comprenderne meglio le dinamiche. Bram Stoker era un bambino con una salute molto cagionevole, gracile e sfortunato, che molto spesso si ritrovò a sfiorare la morte. Trascorse buona parte della sua infanzia rinchiuso in una stanza e allettato, a subire i salassi dello zio medico nella speranza che le sanguisughe lo epurassero dal sangue malato. Incontriamo il piccolo Bram mentre combatte contro la più grave delle sue ricadute, una strenua lotta in cui gli sforzi dello zio parevano vani più del solito. Durante i suoi deliri febbrili il ragazzino ha però la netta percezione che la tata della famiglia Stoker, Ellen Crone, gli stia prestando cure particolari, come se qualcosa di terrificante e sconosciuto stesse per riportarlo alla vita. Tata Ellen è una giovane donna dotata di una bellezza tanto straordinaria quanto inquietante, molto amata dai ragazzi Stoker. Ma Ellen, in realtà, è un vampiro. O meglio: è una Dearg Due.

“Dearg Due”, che in irlandese significa “pollone rosso sangue”, è un demone di natura femminile che seduce gli uomini e poi li prosciuga del loro sangue. Secondo la leggenda celtica, una giovane donna conosciuta in tutto il paese per la sua bellezza, si innamorò di un contadino locale, cosa inaccettabile per suo padre. Egli la costrinse a sposare un ricco nobiluomo molto più anziano di lei, dal quale subì maltrattamenti di ogni sorta, fino a quando non sopportò più la sua disgrazia e decise di suicidarsi gettandosi dall’alto della torre in cui viveva rinchiusa. Fu sepolta vicino a Strongbows Tree nella contea di Waterford, ma la notte successiva alla sua tumulazione risorse dalla tomba per vendicarsi di suo padre e di suo marito, succhiando il loro sangue fino alla morte. Da quel momento la ragazza venne chiamata “Dearg Due” e continuò ad usare la sua straordinaria bellezza per attirare a sè gli uomini ed ucciderli, in un’eterna vendetta per i soprusi subiti.

Ma torniamo a noi. Tata Ellen, intenerita dalle sofferenze del piccolo Bram, quella notte gli offre il suo sangue immortale, guarendolo da una malattia crudele che lo avrebbe certamente ucciso prima di raggiungere l’età adulta. Poi sparirà per sempre. Passano gli anni e Bram inspiegabilmente non accusa più nessun problema di salute, anzi, cresce forte e robusto e pare avere acquisito addirittura la capacità di rimarginare le proprie ferite straordinariamente in fretta. Oramai diventato adulto, incapace di dimenticare quella notte misteriosa, si mette sulle tracce di Tata Ellen, coinvolgendo nelle sue ricerche anche la sorella Matilda ed il fratello maggiore Thornley, angosciato per l’improvvisa e inspiegabile follia della moglie. Pagina dopo pagina veniamo risucchiati nelle spire di una storia orrorifica, in cui le leggende dei non – morti si mescolano alla storia personale della famiglia Stoker. L’autore, abile a tessere trame come un ragno con la sua tela, prende in prestito le più terrificanti leggende popolari mischiando Dearg Due irlandesi e Strigoi rumeni, a dimostrazione del fatto che i Vampiri sono miti trasversali il cui ceppo, però, è uno solo. Dracul. Non è un caso che il Principe Vlad qui venga nominato senza la “a” finale: è lui il padre di tutti i demoni, e la risposta al perché dell’ossessione di Bram Stoker. Dracul e la Dearg Due sono legati da un filo rosso d’amore e morte che scopriremo andando avanti con la storia, lo stesso che ha unito per sempre tata Ellen al piccolo Bram…e lo stesso per il quale ora Dracul vuole il giovane per sè. Nell’inquietante incipit, degno della migliore tradizione, troviamo Bram assediato all’ interno della torre di un’abbazia sconsacrata, circondato da crocefissi e rose bianche per tener fuori il “mostro”, con riserve di acqua santa ed in mano un fucile carico. Stremato da quella lotta e temendo di non arrivare vivo all’ alba, prende carta e penna e comincia a scrivere quanto accaduto fino ad allora, a cominciare da quella notte di tanti anni prima, quando Tata Ellen sparì strappandolo alla morte.

Non sapremo mai quanto Bram Stoker credesse nella propria storia, pare comunque che questa sua ossessione lo perseguitasse abbastanza da scegliere la cremazione per la propria sepoltura. Una pratica che, nel 1912, non era certamente così diffusa come oggi. Verrebbe quasi da pensare che l’abbia fatto proprio per evitare di trasformarsi in un non-morto al servizio di forze oscure, che vanno ben oltre la comprensione umana.


Aldilà di queste illazioni, ciò che resta è un romanzo ben costruito, che pur restando molto fedele all’impostazione del Dracula originale riesce a mantenere la sua individualità. Avventuroso ed angosciante, ricalca perfettamente le regole del gotico e, ovviamente, anche dell’horror più raffinato. Attraverso  uno stile impeccabile  gli autori riescono a conferire alla narrazione un ritmo incalzante, che fa lievitare la tensione pagina dopo pagina, fino a culminare in una lotta allegorica tra forze del bene e forze del male.


Tuttavia non mi sento di consigliare questo romanzo ai soli amanti del gotico ed ai nostalgici di Stoker, perché dietro la sua stesura c’è un grande lavoro di ricostruzione che merita di essere conosciuto e apprezzato, anche e soprattutto dal punto di vista filologico. Dacre Stoker, a più di un secolo di distanza, si è messo alla ricerca dei dettagli, delle note e dei diari del proprio antenato per cercare di capire quanto ci fosse di vero, quanto la fervida immaginazione di Bram bambino avesse influito sulla creazione di Dracula e quanto l’autore effettivamente credesse all’esistenza dei non-morti. Le ultime pagine, ricche di annotazioni degli autori, sono le più intriganti di tutto il volume e lasciano noi lettori piuttosto sgomenti, a domandarci se forse Bram Stoker non avesse avuto ragione ritenendo la leggenda più antica e più diffusa del mondo assai più vicina a noi di quello che immaginiamo.

Dracul, Dacre Stoker & J.D. Barker – Nord

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“L’assassinio di Florence Nightingale Shore” e “Morte di un giovane di belle speranze” di Jessica Fellowes: le sorelle Mitford tra storia e delitti irrisolti

“I delitti Mitford” sono una serie di romanzi gialli usciti dalla fantasiosa penna di Jessica Fellowes, scrittrice britannica molto amata in patria grazie anche allo straordinario successo ottenuto da “Downtown Abbey”, serie tv a cui lei, nipote del suo famoso ideatore e  sceneggiatore Julian Fellowes, ha collaborato. In realtà il suo è stato più che altro un lavoro da “dietro le quinte”, quel tanto che è bastato però per farle decidere – evidentemente –  di abbandonare la sua carriera da redattrice per tuffarsi anche lei nel mondo del melò storico, attingendo a piene mani  da uno dei periodi più affascinanti del secolo scorso. La  tipica atmosfera “upstairs downstairs” edoardiana, così ricca di contraddizioni tra il forte ancoraggio al passato e le prime incursioni di modernità, viene arricchita dall’elegante suspense del giallo alla Agatha Christie e dal glamour delle indiscusse protagoniste delle cronache britanniche dell’epoca: le celeberrime sorelle Mitford.

Nancy, Pamela, Diana, Unity, Jessica e Deborah appartenevano a quell’aristocrazia inglese che, aggrappandosi ai suoi retaggi di classe, cercò di sopravvivere nel periodo a cavallo tra le due guerre mondiali senza mollare mai la presa su quello che da sempre la contraddistingueva: molteplici privilegi, grandi manieri di campagna, una numerosa servitù coordinata da maggiordomi e governanti, l’irrinunciabile stagione londinese con i suoi eventi mondani, matrimoni combinati, passioni sottaciute. Jessica Fellowes, durante la presentazione del primo romanzo della serie,  ha affermato che le sei sorelle Mitford “Hanno incarnato, talvolta con una notevole dose di anticonformismo, altre meno, lo stile di vita delle élite dell’epoca, ma anche una sorta di protagonismo femminile per certi versi ante litteram.” La più grande, Nancy, nacque nel 1904 mentre la più giovane, Deborah, nel 1920: ognuna di loro ha quindi attraversato fasi diverse della storia britannica, raggiungendo il punto più alto della propria “carriera sociale” in periodi ovviamente differenti. Le loro vicende personali si intrecciarono con i personaggi  e gli  eventi storici di quegli anni travagliati,  garantendo ad ognuna di loro esperienze uniche. La politica senza dubbio forgiò la loro personalità fin da piccole, e non sarebbe potuto essere altrimenti avendo in famiglia un cugino del calibro di Winston Churchill. Tuttavia, affascinate com’erano dalle passioni  della gente comune, nelle loro vite non mancarono incontri con i fascisti londinesi, con il quartier generale Hitleriano, addirittura con i militanti delle brigate internazionali anti-franchiste. Queste conoscenze furono decisive per la loro formazione ideologica che, neanche a dirlo, non fu la stessa per tutte: alcune di loro appoggiarono fazioni completamente diverse, se non addirittura opposte. Unity, dapprima fascista come la sorella Diana e successivamente nazista convinta, visse per un periodo in Germania entrando nella schiera personale di Adolf Hitler; Jessica divenne, assieme al marito, un’ attivista del partito comunista,  e partecipò a numerose campagne per i diritti civili in difesa degli ultimi; Diana si dedicò alla propaganda fascista dando vita con il suo amante del periodo al B.U.F, il “British Union of Fascists”; Pamela aveva le sue convinzioni antisemitiche ma non lo manifestò mai pubblicamente, preferendo la tranquilla vita di campagna all’intraprendenza delle sorelle; Nancy e Deborah, rispettivamente la maggiore e la minore delle sei, si dedicarono ad altro, diventando l’una scrittrice, definitivamente ispirata dall’incontro con Evelyn Waugh, e l’altra imprenditrice, che ristrutturò e trasformò la dimora di campagna del marito in una grande fattoria, impiegando nei suoi progetti almeno un centinaio di persone. Insomma, un vero e proprio  caleidoscopio umano all’interno dello stesso nucleo familiare, in grado di accendere gli incolori salotti della buona società britannica  con una piccante dose di  sensualità, di  intraprendenza  e di scandalosa modernità. 

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Le fascinose sorelle Mitford, gli anni venti, una serie di delitti irrisolti: l’idea vincente di Jessica Fellowes è stata quella di mescolare insieme tutti questi ingredienti per realizzare un prodotto che potesse affiancarsi allo stile di Downtown Abbey, aggiungendo però, al tempo stesso, un tocco di originalità. La componente misteriosa, così come la scelta di agganciarsi a fatti reali delle cronache di allora, svecchiano un po’ le atmosfere compassate dell “upper class” e rendono la lettura più frizzante.  Ogni romanzo è ispirato ad una delle sorelle, in ordine cronologico: si parte da Nancy, protagonista de “L’assassinio di Florence Nightingale Shore”, per arrivare al secondo “Morte di un giovane di belle speranze“, incentrato su Pamela. L’ultimo, appena edito da Neri Pozza, è “Scandalo in casa Mitford“, dedicato a Diana, ed è l’unico dei tre che non ho ancora letto. In realtà  le protagoniste assolute non sono le Mitford,  le quali fungono più che altro da riferimento, bensì la loro cameriera  Louisa  Cannon, che incontriamo nel primo volume e che, insieme all’agente di polizia Guy Sullivan, saranno presenti in tutti i romanzi della serie, costituendone il vero “file rouge”. Assunta inizialmente ad Asthall Manor  come cameriera addetta alla nursery, riesce ad instaurare un buon rapporto con tutte e sei le ragazze, diventando  il loro chaperon e, soprattutto, la confidente dell’allora sedicenne Nancy.


I sei volumi non sono capitoli a sè stanti, ma parti di un racconto di più ampio respiro, in cui accanto all’evoluzione delle sei sorelle, che da ragazzine si trasformano poco alla volta in giovani donne con le proprie inclinazioni e le proprie peculiarità, scorre la storia di un intero paese, alle prese con cambiamenti epocali. Le tensioni interne sono al massimo, si stava profilando all’orizzonte una società del tutto nuova. Le distanze tra servitù e signorie si accorciano sempre di più ed i legami che nascono tra le mura domestiche, come l’amicizia tra Louisa Cannon e Nancy Mitford, rompono gli schemi e mettono in discussione la rigida divisione in classi dell’ aristocrazia. La voce delle donne emerge con forza sempre maggiore, spinte da nuove prospettive esistenziali e, conseguentemente, da nuove necessità e richieste di diritti.


Dopo la prima guerra mondiale infatti in Gran Bretagna emerse quello che la stampa di allora definì “Il problema delle donne in eccedenza”: oltre un milione e mezzo di uomini non tornarono dal fronte, o tornarono in gravissime condizioni. Per molte donne, educate fino ad allora ad avere come unico obiettivo  quello di sposarsi e mettere al mondo figli, tutto cambiò   e si ritrovarono improvvisamente, per la prima volta, padrone della propria vita. E’ Louisa Cannon, ancora una volta, a rappresentare al meglio questo primo timido soffio di libertà, al contempo spaventoso ed eccitante.

Il primo romanzo, basato sul vero omicidio di Florence Nightingale Shore, rimasto irrisolto, non mi è piaciuto tanto quanto il secondo. Le tematiche di fondo sono appena abbozzate ed il giallo legato al misterioso assassinio su cui Nancy e Louisa decidono di indagare non è sviluppato a dovere, rendendo il tutto piuttosto insipido. Tuttavia l’idea di base mi convinceva, per questo ho deciso che avrei  continuato a leggere la saga, e per fortuna non sono rimasta delusa. “Morte di un giovane di belle speranze” si collega alla storia di Alice Diamond e delle quaranta ladrone, una fuorilegge a capo di una banda di rapinatrici realmente esistite. Nancy è cresciuta, ed ora tocca a Pamela debuttare in società. Ma la sera del suo 18 esimo compleanno, ad Asthall Manor un giovane rampollo invitato alla festa viene trovato assassinato.

Louisa si ritroverà nuovamente coinvolta nelle indagini, aiutata dall’arguta e curiosa Nancy. Sullo sfondo troviamo una Londra in pieno fermento, in cui una nuova generazione deve inventarsi un differente modo di stare al mondo, con nuove regole, nuovi riferimenti: un girotondo di vite in cui le differenze sociali tra upper e working class stanno lentamente sbiadendo tra le pagine della storia.

I delitti Mitford – Jessica Fellowes (Neri Pozza)

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“Il miniaturista”, di Jesse Burton: Il secolo d’oro dell’Olanda

Questo acclamato romanzo d’esordio di Jessie Burton è stata una lettura affascinante ed estremamente coinvolgente, a dispetto di quello che pensavo. E’ stato un autentico viaggio nel tempo, dalla poltrona di casa mia fin lungo i canali della città di Amsterdam del XVII secolo, cuore pulsante dell’attività mercantile di tutta l’Europa e  sede dalla potente VOC, la Compagnia Olandese delle Indie Orientali, che all’ epoca deteneva il monopolio delle attività commerciali con il continente asiatico. In questo contesto storico di grande fervore e benessere economico l’autrice ci racconta la storia di Petronella Oortman, una ragazzina di appena diciassette anni costretta a sposare uno dei più influenti mercanti della VOS per fuggire dalla situazione di indigenza in cui versa la sua famiglia. Nella, come la chiamano tutti, ha sempre vissuto nella campagna olandese e non sa nulla della vita né degli uomini; l’unico consiglio che la madre le ha dato, cercando di confortarla di fronte alla prospettiva di unirsi in matrimonio con un uomo di cui non conosce nemmeno il viso, è questo: “la chiave è il tuo corpo, tesoro mio.” Una situazione che Nella comprende perfettamente, certa che saprà sfruttarla come meglio potrà. Questo è il suo ruolo di donna, e lei nonostante la giovane età si sente pronta.

Nell ’autunno del 1686 Petronella si presenta davanti al portone di casa dello sconosciuto che ha sposato, nel quartiere benestante di Amsterdam. Con sé ha un piccolo pappagallo verde di nome Peebo, unico legame con l’infanzia che sta abbandonando per sempre. Viene accolta in modo molto diverso da come se l’era immaginato, con freddezza e senza nessun tipo di benvenuto da parte del marito Johannes Brandt, assente per lavoro. Nella è una ragazza intelligente e sveglia, e comprende fin da subito che quella casa custodisce segreti sfuggenti ed inconfessabili. Sono le stranezze che nota a metterla in allarme: la vera padrona di casa sembra essere sua cognata Marin, una donna forte, di polso, esperta contabile e abile negli affari tanto quanto il fratello. Nonostante la sua indiscutibile bellezza Marin non si è mai sposata, ma la cosa che stupisce di più Nella è che nemmeno ambisce a farlo, cosa assai inusuale per l’ epoca. La servitù, costituita dalla domestica Cornelia, donna dal cuore grande quanto i suoi occhi azzurri, e da Otto, servitore di colore arrivato in Olanda con una delle navi del padrone, è fin troppo libera di esprimersi. La società del tempo era rigidamente oligarchica e la ricchezza degli individui, più che la propria condizione di nascita, stabiliva la classe di appartenenza: in un contesto simile era impensabile che la servitù potesse prendere iniziative di qualsiasi genere, o instaurare rapporti di amicizia con i loro padroni. Per le stesse ragioni, anche le donne non sposate erano guardate con sospetto, situazione che la Chiesa appoggiava in pieno. Marin era tollerata nel suo status di donna sola perché esponente di una famiglia molto in vista della città e come tale poteva concedersi il lusso di scegliere cosa fare della propria esistenza. Per tutte le altre ragazze nubili il matrimonio era un laccio legato stretto, quasi sempre privo di amore, ma rappresentava l’unica strada percorribile per poter godere di una vita quanto meno dignitosa. Nella si sente ospite in casa sua e non comprende il rifiuto del marito che non la guarda e non la tocca come un uomo dovrebbe fare con la sua giovane sposa: l’unico gesto di benvenuto che Johannes le riserva è un regalo molto particolare, uno stipetto che rappresenta una casa in miniatura, splendidamente rifinito. Ma Nella non sa cosa farsene di un mobile che riproduce una casa da riempire con minuscoli oggetti: vorrebbe calore umano, vorrebbe essere una moglie devota ed amata. Johannes è gentile e premuroso, la porta con sé nelle occasioni pubbliche, non le fa mancare nulla… ma per il resto è come se lei non esistesse. Dorme da sola ogni notte, ed ogni notte sente la casa pulsare di vita. Un fermento che non le appartiene, ma che la incuriosisce. Prigioniera in un mondo che non comprende, comincia a perlustrare le pareti della sua gabbia dorata scoprendo un po’ alla volta cosa si cela dietro l’assenza del marito, la freddezza della cognata e la libertà di cui gode la servitù. Alcune rivelazioni saranno scioccanti ed apriranno a Nella orizzonti completamente nuovi e spaventosi: dovrà affrontare situazioni difficili che la faranno crescere, consapevole dalla propria forza e del proprio posto nel mondo. Complice di questa sua evoluzione interiore sarà anche l’ambiguo personaggio del miniaturista. In seguito al dono dello stipetto Nella comincerà a ricevere strani pacchetti: sono straordinarie miniature di oggetti e di persone, perfettamente riprodotti, ricchi di particolari che la sconcertano perché riguardano la sua casa e la sua famiglia. Questo artigiano che nessuno conosce sembra vedere quello che solo Nella può sapere, addirittura certe riproduzioni sono in grado di svelarle cose che i suoi occhi prima non riuscivano a vedere. E’ come se la spiasse, come se osservasse continuamente tutti gli abitanti della sua casa, con la loro vita apparente e la loro intimità celata.

L’autrice non sembra affatto al suo esordio narrativo, è troppo brava, troppo abile, ha una tecnica consumata: dosa sapientemente il ritmo incalzante quando la situazione lo richiede e sa riempire di pathos le pagine in cui Nella, Johannes e Marin provano dolore e tormento, ma senza annoiare . Alcune volte la lettura è un po’ statica, ma penso sia dovuto soprattutto alla storia in sè che punta molto sul vissuto interiore dei personaggi e meno sulle vicende, raccontate stemperando sempre la crudezza dei fatti. Anche se il romanzo è incentrato sul personaggio di Petronella, tutti i protagonisti sono ben delineati, così veri ed umani nella loro imperfezione. In particolare mi è piaciuto molto il personaggio di Marin, donna anticonformista e fiera, vero pilastro della famiglia, che nasconde dietro un’algida apparenza una sorprendente tenerezza. Non accetta il destino che la società le ha già riservato alla nascita in quanto donna, non vuole sposarsi annullando se stessa, il suo spirito ribelle ha bisogno di nutrirsi di sogni e avventure che nessuna ragazza ai tempi avrebbe mai potuto anche solo immaginare, figuriamoci realizzarli.


Il messaggio di fondo penso sia proprio questo: tutte le donne devono poter essere artefici del proprio destino, devono osare, hanno il diritto di lottare per cambiare le cose anche quando il prezzo da pagare è molto alto.


Un romanzo affascinante e coinvolgente, senza dubbio un’ ottima lettura. La cosa curiosa che ho scoperto leggendo è che tale Petronella Oortman, moglie del ricco mercante Johannes Brandt è realmente esistita: la sua casa per le bambole è conservata al museo “Rijksmuseum ” di Amsterdam ed è considerata una vera e propria opera d’arte. Pare proprio che la signora Petronella non badò a spese per la sua realizzazione, coinvolgendo i migliori artigiani di Amsterdam: tutti gli oggetti sono perfettamente funzionanti e le scene di vita quotidiana riprodotte in tutti i loro più piccoli dettagli.

 

“Furore”, di John Steinbeck: Il romanzo simbolo della Depressione Americana

“Nella regione rossa e in parte della regione grigia dell’Oklahoma le ultime piogge erano state benigne, e non avevano lasciato profonde incisioni sulla faccia della terra, già tutta solcata di cicatrici. Gli aratri avevano cancellato le superficiali impronte dei rivoletti di scolo. Le ultime piogge avevano fatto rialzare la testa al granturco e stabilito colonie d’erbacce e d’ortiche sulle prode dei fossi, così che il grigio e il rosso cupo cominciavano a scomparire sotto una coltre verdeggiante. Agli ultimi di maggio il cielo impallidì e perdette le nuvole che aveva ospitate per così lungo tempo al principio della primavera. “

Così comincia Furore, il libro simbolo della Depressione Americana che valse a Steinbeck (in assoluto uno dei miei scrittori preferiti) il Premio Pulitzer nel 1940, cui seguì il Nobel per la Letteratura nel 1962. Alla sua pubblicazione il romanzo fu aspramente criticato, perché lo scrittore sembrava troppo di sinistra, in pieno appoggio al piano di risanamento economico e sociale proposto dal Presidente Roosvelt. Il cosiddetto “New Deal” di fatto risollevò l’America dal baratro in cui era sprofondata in seguito alla crisi del ’29, ma fino a che la sua politica economica non cominciò a dare i primi frutti l’intero Paese versava in condizioni disastrose. In questo difficile momento della storia americana, Steinbeck si inserisce con un romanzo che ha come obiettivo quello di raccontare la vita reale di milioni di americani dell’epoca. Intere comunità contadine si trovarono costrette ad abbandonare le loro fattorie oramai improduttive per percorre le strade desolate del loro grande e sconfinato Paese, in cerca della Terra Promessa. Egli trasse spunto da un articolo di giornale, il San Francisco News, che pubblicava annunci di lavoro in California: oltre alla crisi economica che aveva investito indistintamente tutto il Paese, a peggiorare le condizioni di vita già difficili dei contadini vi furono eventi climatici disastrosi: terribili tempeste di polvere si abbatterono sullo stato dell’Oklahoma rendendo infertili i terreni di quelle zone. Sono moltissime le famiglie di contadini che si spostano come mandrie lungo la Route 66 inseguendo il sogno di un lavoro con cui ricominciare una vita dignitosa. Una di queste, la famiglia Joad, diventa la protagonista del romanzo e seguiremo così, attraverso pagine intense e memorabili, il loro penoso esodo. Steinbeck pone il suo sguardo crudo e realista sulla storia di questi braccianti costretti a prendere la più difficile delle decisioni: quella di lasciare tutta una vita (seppur misera) alle proprie spalle per gettarsi nell’ ignoto, senza alcuna certezza, ma solo con il miraggio di una grande opportunità che pareva offrirsi aldilà dei loro confini. La California, con le sue dolci valli baciate dal sole e le sue distese immense di frutteti, aveva bisogno di uomini per la raccolta e garantiva un salario sicuro e una casa in cui alloggiare durante il periodo di lavoro. Una promessa di rinascita effimera e vaga, eppure quell’idea conteneva in sè una forza trascinante che era in grado di smuovere le montagne. Disperazione, fame, voglia di riscattarsi, di pretendere di meglio per la propria famiglia….due righe lette accidentalmente su un pezzo di carta furono viste come l’avverarsi di un sogno.

Nonostante parli di povertà, sconfitte e amare disillusioni non si tratta affatto di un romanzo in cui domina il dolore: la bravura di Steinbeck sta proprio nel filtrare tutto attraverso uno stile che pone il suo accento sempre e comunque sulla forza vitale dell’essere umano, non sulla sua propensione ad abbandonarsi alla disperazione accettando passivamente la malasorte. I Joad sono un forza della natura, non si perdono mai d’animo, lottano ogni giorno contro la voglia di arrendersi. Non lo faranno mai, nemmeno quando la realtà si presenterà dura e spietata e il sogno della California si dipanerà davanti ai loro occhi come la nebbia al sorgere del sole. Un personaggio che resterà indimenticabile è quello della matriarca della famiglia, la Mamma: è sempre lei che da sostegno continuo a tutti i Joad, è lei che la mattina si alza prima di tutti per preparare il caffè ai suoi uomini perché potessero corroborarsi e caricarsi di energia quando dovevano partire all’alba per andare in cerca di un lavoro o quando qualche lavoretto c’era già e dovevano portarlo avanti fino a sera, anche se per pochi spiccioli.


Ci sono i momenti di festa, di aggregazione, di solidarietà, di amore: anche in mezzo alla disperazione più nera, la vita pulsa sempre nelle vene dei suoi personaggi. Se ci soffermiamo tra le righe, se andiamo oltre gli accadimenti che purtroppo sono tragici, è facile notare come questo filo conduttore non abbandona mai il romanzo. E’ vero, purtroppo per tutti i Joad del mondo l’America Dream è solo un’illusione. Però, nel mentre, bisogna pur vivere. E Steinbeck lo ribadisce in modo forte ed indimenticabile regalandoci un finale che nella sua drammaticità lascia comunque ai lettori un briciolo di speranza.


Come accennato all’ inizio, quando il libro fu pubblicato divise in due l’opinione pubblica: c’era chi lo osannava perchè era in grado di risvegliare con forza le coscienze di un popolo allo sbando, ma fu anche aspramente criticato poiché eccessivamente propagandistico. Per i detrattori, “Furore” fotografava uno spaccato della società americana in una visione troppo sinistroide. Era una denuncia troppo forte quella che portava con sè, tanto che all’inizio tutto questo polverone impedì al lavoro di Steinbeck di essere giudicato non per quello che era realmente, ovvero un grande romanzo, ma solo come un documento di propaganda politica. Fu attaccato da grandi uomini politici, dalla chiesa protestante, dalle lobby dell’agricoltura che lo tacciarono di falsità e di immoralità. Fu messo al bando dalle scuole e dalle biblioteche. Adesso tutto questo pare esagerato e impossibile da capire, ma se inseriamo il romanzo nel contesto storico in cui nacque, uno dei più difficili e delicati della storia Americana, si può forse comprendere come un romanzo così arrabbiato, sanguigno e roccioso possa aver suscitato tanto clamore.
Sono passati molti anni da quando Steinbeck denunciò l’America ed il suo perbenismo di facciata con questo romanzo, eppure ancora oggi nulla è cambiato. Ogni giorno  profughi di ogni paese fuggono dalle loro case e dai loro affetti portandosi dietro un dolore che nessuno vede. Fuggono dalla fame e dalla disperazione di chi non ha più nulla, se non due braccia con cui poter lavorare, conservando nel cuore la speranza di poter ricominciare una vita dignitosa, da qualche parte, un giorno…. imboccando viaggi spesso senza ritorno.

Furore – John Steinbeck (Bompiani)

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