“Benedizione”, di Kent Haruf: una provincia americana

La scrittura di Kent Haruf sta tutta nel suo titolo: un’autentica benedizione. Mi sono approcciata a questo romanzo, che è il primo libro di una trilogia (in realtà sarebbe l’ultimo, ma è stato pubblicato in ordine cronologico inverso), con la certezza che avrei trovato tematiche importanti, ma fluidità e sobrietà nella narrazione. Qui tutto il superfluo viene abbattuto, lasciando però intatta la profondità del pensiero. I dialoghi sono ridotti al minimo, ma ogni parola viene soppesata ed incastrata in un gioco intimo e straordinario, come i più grandi scrittori sanno fare. “Il grande romanzo americano” ha un nuovo figlio, e si chiama Kent Haruf. Autore da noi praticamente sconosciuto, ha avuto uno straordinario successo grazie alla scelta preziosa ed intelligente svolta dalla casa editrice, anch’essa fuori dai circuiti dei mass market librari, ovvero la NN Editore. Apprezzo queste scoperte, apprezzo il lavoro di chi si spinge altrove per cercare quella bellezza che altrimenti rimarrebbe sconosciuta ai più.
 
Tenetevi alla larga da questa trilogia se però amate gli intrecci complicati e la narrazione impetuosa, se amate riflessioni articolate e dialoghi che si snodano lunghi e tortuosi come le corsie di una strada provinciale. Perché qui non succede nulla, o quasi. Non ci sono avvenimenti eclatanti, sviluppi imprevedibili e colpi di scena. Già sappiamo come sarà la fine di questo romanzo fin dalla prima pagina: un uomo anziano sta morendo di cancro. E tra la scoperta di questa fine immenente ed il suo avverarsi, c’è tutto un mondo che Haruf ci racconta in modo lucido ed essenziale. Il rischio sarebbe stato peccare di superficialità. Ma se hai un maestro come Hemingway, che rivoluzionò il modo di scrivere trasformando lo stile “giornalistico” in una qualità eccelsa, e se sei capace di una prosa armonica e asciutta puoi compiere veri prodigi ed incantare i lettori anche se semplicemente ti limiti a raccontare la vita. Avete presente quelle vecchie fotografie di una volta, in bianco e nero, che ritraggono uomini e donne in posa, a cui fanno da sfondo paesaggi immobili, statici come i loro volti? Kent Haruf sembra che abbia catturato quelle istantanee per farle rivivere attraverso la scrittura…
Contea (immaginaria) di Holt, Colorado. L’istantanea di “Benedizione” è il fermo immagine di un anziano e di una sconfinata pianura americana che fa da sfondo. Dad è un uomo per bene, un gran lavoratore e da sempre membro attivo della piccola comunità rurale di cui fa parte. E’ un vecchio riottoso giunto alla fine della sua esistenza, consapevole dell’inesorabilità del suo destino. Però non si fa compiangere e  cerca di andare incontro alla morte con dignità. L’affetto della moglie e quello ritrovato della figlia, costretta a tornare a casa per aiutare la famiglia in difficoltà, riescono a velare la crudeltà della malattia, cosicchè anche per noi lettori questo sarà un fattore che rimarrà in secondo piano. Entriamo in punta di piedi nella vita di quest’uomo così come in quella di tutta la piccola cittadina, ancora legata ai retaggi del passato, in cui l’emancipazione e il progresso sembrano essere arrivati con estrema difficoltà, bucando granitiche corazze di diffidenza e di ignoranza. Ognuno di questi personaggi porta con sé il proprio bagaglio fatto di speranze, di sogni, di illusioni, di amarezze, di turbamenti, di gioia ma soprattutto di dolore. Perché Haruf non ci indora la pillola, e ce lo dice senza mezzi termini: la vita è quasi sempre dolore, a volte sottile, a volte talmente intenso da spaccarci il cuore. La felicità è un battito di ciglia ed i treni persi non torneranno mai indietro a riprenderci.
Non voglio parlare di quali personaggi s’incontreranno durante la lettura e con quali vite ci si dovrà confrontare. Non lo voglio raccontare perchè non c’è niente da svelare, niente con cui catturare l’attenzione: potrebbero tutti, indistintamente, essere il nostro vicino di casa, nostro fratello o nostra madre. Quasi sicuramente troverete un pezzo di voi stessi e della vostra storia in quello che Haruf vi racconterà. Io ho rivisto in Dad gli ultimi giorni di vita di mio padre, ho ritrovato nelle cure di sua moglie tutto l’amore con cui mia madre l’ha accompagnato verso la fine. Ho rivisto me stessa in quella figlia e nell’illusione di Ally per un amore che credeva perfetto e che invece le ha rubato la giovinezza, marchiandola a fuoco. Ora è di nuovo serena, ma i capelli si sono ingrigiti e la paura l’ha inghiottita. E poi c’è la speranza. La speranza che è rappresentata da Alice, una bambina, una metafora che ci parla di futuro e di apertura alla vita che nonostante tutto prosegue il suo corso naturale, sconfiggendo i demoni che la morte lascia in chi resta.
L’armonia narrativa di Haruf si sparge in tutto il romanzo, conciliandosi perfettamente con le pianure sconfinate del Colorado. Elegante, sobria e completamente denudata, mi ha incantata e mi ha fatta entrare in quel piccolo microcosmo come se fossi anche io parte di Holt.
E’così che succede, quando una penna magistrale decide di mettere nero su bianco la vita: non  troviamo la nostra benedizione in una trama intrigante, ma nelle storie ordinarie che ognuno ha dentro di sé. La benedizione di Haruf è il dono inaspettato della serenità e un solido senso di compiutezza. A dispetto di tutto.
 

 

“il terzo relitto”, di Barbara Bellomo: un nuovo caso per l’archeoinvestigatrice De Clio

Ho letto nella post fazione che questo romanzo non è stato concepito come il secondo capitolo delle “avventure” dell’archeologa Isabella de Clio, ma si tratta in realtà di una rielaborazione ed un riadattamento del primo romanzo dell’autrice, (Il quinto relitto) dato alle stampe da una piccola casa editrice siciliana nel 2010. La protagonista Isabella è stata calata all’interno di una storia già costruita con una serie di adattamenti che ricalcano il precedente   “La ladra di ricordi “(edito nel 2016): ritroviamo infatti la stessa identica ragazza, con un paio di anni in più ma sempre prigioniera di intricati nodi psicologici che sfociano in una forma di  cleptomania. Isabella infatti tende a sottrarre quegli oggetti che rappresentano per lei ricordi preziosi che vuole tenere per sè, in un complesso mondo interiore che non riesce a condividere con nessuno. Anche questa volta  Isabella è alle prese con problemi relazionali, con uomini sfuggenti, ambigui, che non può avere completamente…e sbaglia. Non potrebbe essere altrimenti, perchè è difficile, se non praticamente impossibile, riuscire ad avere una relazione solida  e positiva se dentro  hai il caos. Questa volta però l’errore le costerà caro, perché metterà a repentaglio la sua incolumità e la sua reputazione di studiosa. In ogni caso, mi piace Isabella. Mi è sempre piaciuta e mi sono trovata subito in sintonia con lei, perché mi assomiglia fisicamente e mi ricorda com’ero io a trentanni. Non ero cleptomane, ma psicologicamente parlando ero un casino vivente ed ero una donna irrisolta. Passavo ore a leggere, scrivere ed ascoltare musica rock e blues in una mansarda in cui abitavo da sola, la vita mondana non mi mancava affatto ed in un certo senso stavo bene così. Una volta rientrata a casa dal lavoro mi chiudevo la porta alle spalle e a quel punto non mi importava più di cosa lasciavo fuori. Proprio come Isabella: completamente  immersa nei suoi studi, nel suo lavoro di vicedirettrice del museo di Avola ed in perenne conflitto con l’umanità, risolve tutto con  una lunga corsa, una  caffettiera fumante e qualche ricordo rubato.

Gli altri punti forte del romanzo sono gli stessi che ho trovato ne “La ladra di ricordi”: l’ambientazione suggestiva e la scrittura perfetta della Bellomo. Questa volta l’autrice cala il lettore in un contesto geografico ancora più affasciante: le isole Eolie e la splendida Sicilia in cui Isabella è tornata ad abitare dopo l’esperienza di Todi.  Sono luoghi pieni di storia, in cui l’epoca romana rivive con forza grazie ai numerosi ritrovamenti che nel corso degli anni si sono succeduti e che hanno dato vita a musei del mare assolutamente incredibili, in cui si possono ammirare relitti restaurati risalenti alle guerre puniche ed il loro preziosi carichi. E’ proprio attorno ad  una di queste antiche imbarcazioni, e precisamente una trireme del 250 a.C., che si svolgono questa volta  le ricerche di Isabella De Clio. Durante un convegno a Genova la ragazza si imbatte casualmente in un rarissimo documento che potrebbere riscrivere il corso della prima guerra punica e che ridarebbe lustro ad valoroso  militare e statista un po’ dimenticato dalla storia: Gneo Cornelio Scipione. Anche questa volta i capitoli sono intercalati dalla voce narrante  dei protagonisti storici  attorno ai quali si stanno svolgendo le ricerche, un  espediente narrativo utilizzato dall’autrice per dare un senso di continuità alla trama e per far comprendere a noi lettori quanta vita  esista in realtà dietro semplici oggetti, come può esserlo una  moneta d’oro con l’effige di un militare impressa sul dorso, e come passato e presente siano legati indissolubilmente a doppio filo.  Ogni reperto ha una sua storia da raccontare e l’archeologia, così come la storia antica, non fanno altro che ridare voce a uomini e gesta che altrimenti verrebbero inghiottiti dall’inesorabile scorrere del tempo.

Infine non posso non parlare della bravura dell’autrice: Barbara Bellomo ha imbastito una storia incastrata tra presente e passato che  mi ha coinvolta molto, complice anche l’assoluta bellezza del paesaggio in cui si muove il racconto. Attraverso le sue descrizioni così accurate e d’impatto è stato come compiere un autentico viaggio sensoriale: più volte mi sono immaginata ad Avola, seduta  in un chiosco baciato dal sole primaverile tutta intenta a gustarmi una granita alle mandorle di fronte ad uno scenario mozzafiato. Quando Isabella e Paul Anderson “pinneggiano” verso il terzo relitto, immersi nelle profondità marine dell’arcipelago delle Eolie, è stato emozionante ed il loro entusiasmo e la loro passione erano tangibili.
Una scrittura sobria e lineare, che non eccede mai in volgarità e in inutili dissertazioni, ha reso questo romanzo un libro estremamente godibile e fresco, perfetto per ritagliarsi un momento di svago in mezzo alla frenesia del quotidiano.

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“La ladra di ricordi”, di Barbara Bellomo: un’archeologa investiga

Mi sono approcciata a questo libro con qualche preconcetto di troppo, che per fortuna si sono disintegrati fin dalle prime pagine. La  lettura si è rivelata infatti estremamente piacevole. Non si è trattato di  un esordio nel senso letterale del termine, perché Barbara Bellomo è una docente laureata in Lettere con alle spalle diverse pubblicazioni e un dottorato in Storia Antica. Quindi  sa utilizzare molto bene lo strumento linguistico, è padrona dell’italiano, scrive molto bene ed io le sono grata per questo: in un paese come il nostro in cui sembrano esserci più autori che lettori, troppe volte la grammatica e la sintassi prendono il volo, e questa è una cosa che mi disturba enormemente. Ma torniamo al romanzo. La Bellomo imbastisce una storia perfetta sotto tanti punti di vista, arricchita anche da una copertina che mi ha fatta innamorare a prima vista. La prima cosa che ho gradito, padronanza dell’italiano a parte, è lo stile dell’autrice: elegante, sobrio, mai una parola di troppo, eppure efficace e d’impatto. L’ambientazione è stata un altro punto forte del romanzo. La storia si snoda infatti per la maggior parte all’interno dell’immaginario ambiente universitario di Todi, in Umbria,   e a parte una piccola incursione in Sicilia, tutto si svolge in quel microcosmo tra studenti, professori e borsisti. Scegliere una piccola cittadina così ricca di storia e di fascino come base per lo sviluppo della narrazione credo sia stata un’ottima idea e non ha fatto altro che aumentare la mia curiosità. Un altro punto a favore è stato certamente  il personaggio su cui ruota l’intera vicenda, Isabella De Clio. Avevo il timore di incappare in uno di quei protagonisti seriali un po’ tutti uguali tra loro, tutti tormentati, e tutti rigorosamente appesi ad  una storia d’amore difficile. Perché – si sa – la storia d’amore tormentata funziona sempre, anche quando non c’entra nulla con il contesto. Grazie Barbara Bellomo per non aver buttato anche tu la tua protagonista nel mare pescoso dei cliché amorosi, mantenendo intatta la sua originalità. Grazie per aver dipinto il bel ritratto di una giovane donna anticonformista che mette il proprio lavoro e la propria realizzazione personale davanti a tutto il resto, forte del motto “ il lavoro resta, gli uomini vanno e vengono“.  Grazie infine perché l’hai resa normale aggiungendo alla sua forza i suoi difetti, senza esagerarli, e rendendola per questo così simile a tutte noi, donne imperfette ed incasinate. Quelle che siamo, o quelle che siamo state.
 
Studiosa, riservata, decisa. Credo che questi tre aggettivi la riassumano bene. E’ una donna che non permette mai a nessuno di superare le sue barriere personali. Come avrà notato è anche molto bella, ma sembra fare di tutto per nasconderlo”.
 
Isabella De Clio è una studiosa di 28 anni, laureata in archeologia e specializzata in gemme antiche, che vive da una paio di anni a Todi per lavorare ad un progetto che potrebbe aprirle le porte dei più importanti musei italiani.  Siciliana di origine, è partita dal suo paese lasciandosi alle spalle una storia d’amore fallita miseramente, che ha rinforzato ancora di più la sua naturale ritrosia e la sua totale mancanza di fiducia negli uomini. Suo padre l’ha abbandonata che era ancora una bambina, gettando un’ombra di dolore sulla sua infanzia che ancora oggi la accompagna  e che le sabota inevitabilmente la vita sentimentale. Le problematiche affettive che ha dovuto affrontare  l’hanno portata a sviluppare un disturbo della personalità molto particolare, di cui nessuno è a conoscenza, e che la umanizza a tal punto che viene difficile pensare che questa ragazza non esista realmente. Mi sarebbe piaciuto conoscerla, e fare quattro chiacchiere con lei davanti ad una birra. Isabella, oltre ad essere molto brava nel suo lavoro,  non passa certo inosservata:  alta, magra, con i capelli rossi lunghi e ribelli, nasconde la sua femminilità dentro i suoi  inseparabili  jeans e sembra faccia di tutto per essere schivata dagli uomini, ma ad  un occhio più sensibile ed attento non può sfuggire la sua sensualità. La bellezza di Isabella è per intenditori: non è sfacciata né banale, e per questo estremamente affascinante. Sono tutte peculiarità che mi hanno fatto entrare immediatamente in sintonia con lei, in tutto e per tutto. Non sa cucinare, si sfama con caffè e fette biscottate, si sposta per le strade di Todi con una moto d’epoca (una Morini) e la storia ha per lei un’attrattiva incredibile. Mi ha ricordato com’ero io a quell’età, durante i primi anni vissuti da sola, in una mansarda che sovrastava i tetti della mia città. Ombrosa e volitiva esattamente com’è lei, scappavo anche io da un uomo sbagliato e, molto più semplicemente, da me stessa. Alta anche io un metro e ottanta(tre), i jeans come una seconda pelle, non avevo nemmeno un forno per cucinare e non me ne importava affatto. Mi rifugiavo dopo il lavoro nella mia tana sulle colline, da cui potevo ammirare un panorama mozzafiato e scrivevo, scrivevo…e poi leggevo, ascoltavo tantissima musica, ma soprattutto scrivevo fino a notte fonda. Come una moderna bohemienne. Ma questa è un’altra storia, ed io devo finire di parlare di Isabella.
 
La nostra protagonista finirà nel bel mezzo di un noir a tinte fosche, quando la placida  cittadina viene messa sotto sopra da un efferato omicidio. Una signora anziana, dalla vita tranquilla ed irreprensibile, viene trovata barbaramente uccisa nel suo appartamento. La donna aveva appena telefonato all’ Università confidando al Professore di Museologia di essere in possesso di un cammeo risalente all’epoca romana di Ottaviano, e questo getta immediatamente un’aura di mistero sul macabro ritrovamento. Il cammeo sarà l’elemento chiave che unirà la storia antica al mistero moderno, e che creerà un forte legame tra coloro che si imbatteranno nella vicenda, ognuno per motivi diversi. Non posso più raccontare nulla, perché la trama dovete scoprirla da voi, godendo di questa storia pagina dopo pagina. Ho incontrato diversi personaggi durante la lettura, tutti sapientemente delineati. Il tocco in più dell’autrice è stato lasciare un pizzico di “non detto“, quel tanto che basta per scatenare la nostra immaginazione. Il professore che soffre di depressione in seguito alla vedovanza, il commissario di polizia ingessato in un matrimonio ormai logoro, il nipote della donna assassinata che cerca consolazione nella marijuana…Ognuno di noi può ritrovare qualcosa di sé in loro, e questo è un aspetto  molto  importante per un romanzo. E’ fondamentale che il lettore riesca a scovare un po’ di se stesso nelle trame di un libro, perché è ciò che rende la lettura un’esperienza unica. Io ho trovato molto di me in tutti loro, Isabella a parte. Il loro quotidiano è descritto con  sobrietà, hanno ombre che li accompagnano sempre, anche nei gesti più banali, e questo rende l’empatia facile ed immediata.
La storia antica, piena di fascino e suggestioni, fa capolino attraverso le vicissitudini del Cammeo di Ottaviano e resta il filo conduttore di tutto il romanzo, con mio enorme piacere e soddisfazione. Non esistono banalità  e gli spunti di riflessione sono molteplici. Forse alcuni di questi potevano essere sviluppati più approfonditamente, magari il problema di Isabella poteva essere sviscerato più nel dettaglio. Le critiche si possono fare, volendo. In fondo è un romanzo di esordio e la presenza di qualche  lacuna è inevitabile. Ad ogni modo il finale un po’ sfumato lascia aperte molte strade, sono sicura che ci sarà un prosieguo e che alcune di queste mancanze saranno colmate. So già che Isabella De Clio e la sua strana famiglia acquisita mi mancheranno, per cui attendo con ansia una nuova indagine sulle orme dell’antica Roma…
 
 
 
 
 
 
 

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25 aprile 1945

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casa colonica nei pressi della Val Comuna, Novellara (RE)

La sera del 24 aprile 1945, nei pressi della Val Comuna, un pugno di case di mezzadri giù nella Bassa, si diffuse la voce che gli americani erano arrivati in paese. Mia nonna mandò tutti a letto vestiti con scarpe e giacche, come tante volte aveva fatto quando suonava la sirena antiaerea. Per tutta la notte le truppe tedesche batterono in ritirata passando nei campi vicini, per raggiungere il Po. Alcuni riuscirono ad attraversarlo con le chiatte e a mettersi in salvo, altri morirono annegati, altri ancora furono catturati. Nessuno della mia famiglia riuscì a chiudere occhio, inchiodati al letto dalla paura. Quando il mattino dopo mio nonno uscì sull’aia vi trovò cinque carro armati americani e due prigionieri tedeschi, di cui uno ferito. Gli americani diedero ordine a mia nonna di rifocillarli, dopo di che medicarono il ragazzo tedesco. Tremava come una foglia e piangeva mentre guardava mia nonna che gli dava da bere del latte con il mestolo, e ripeteva in continuazione “kaput! kaput!”, facendo il gesto della ghigliottina con la mano. Mia nonna aveva paura persino di fiatare, e continuò a dargli da bere in silenzio. Finito di rimettere in sesto i prigionieri, raccolsero tutti i Bortesi e le famiglie vicine e con il mitra spianato li radunarono nella cantina, affinchè nessuno si muovesse. Mia madre sentì uno dei vicini piagnucolare, diceva che li avrebbero ammazzati tutti perché i tedeschi erano passati da quelle parti e gli americani erano convinti che mio nonno nascondesse dei fuggiaschi. Lo presero, mio nonno. Con la canna del fucile che gli sfiorava la schiena ispezionarono insieme a lui tutta la proprietà, mettendo sotto sopra anche la stalla, ma non trovarono nessun soldato nascosto. A quel punto fu davvero il 25 aprile: i miei nonni presero dalla cantina prosciutto, salame, vino, pane e latte ed insieme alla mia famiglia gli americani divisero il primo vero pasto dopo giorni di fame e paura. Mia nonna però non si era dimenticata del ragazzo tedesco che la guardava terrorizzato, così raccolto un po’ di coraggio si avvicinò al capitano e in dialetto gli disse “Vè, al’massè mia quel putel, eh?”. Dieci soldati americani, due tedeschi e mia nonna dava ordini in dialetto! “No Kaput, vè?” L’americano allora comprese, e fece cenno di no con le braccia.

La guerra era davvero finita.

Terminato il pranzo un giovane soldato biondo prese in braccio mia madre, l’abbracciò e le diede un’infinità di baci affettuosi, senza un motivo. Mia madre dice che è uno dei ricordi più belli che ha di quel periodo terribile, vivido come se fosse successo ieri e non 73 anni fa. E’ sempre stata convinta che quel soldato americano avesse una bambina a casa ad aspettarlo, e che lei gliela ricordava. O forse aveva solo un disperato bisogno di umanità.

In ricordo di mia nonna Maria Marazzoli e mio nonno Selvino Bortesi.