“l’isola di Arturo”, di Elsa Morante: crescere nell’incanto di Procida

L’anno scorso sono stata a Procida. E, forse, non sono più veramente tornata.
Il romanzo è ambientato tra il 1935 e il 1940, poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Arturo Gerace è un bambino che ha vissuto tutta la sua vita sull’isola di Procida, la quale rappresenta il suo intero universo, affettivo e geografico. Cresce allevato da un uomo che gli fa da balia, perché la madre muore dandolo alla luce ed il padre Whillelm è sempre lontano da Procida. Suo padre, così come il resto del mondo che conosce solo attraverso i libri, assumono per lui una dimensione  leggendaria, che travalica la realtà per confodersi con la sua fantasia di bambino. Durante la bella stagione, che a Procida dura da aprile a settembre, passa il tempo a fare lunghi bagni, escursioni in mare con la sua barca, o a giocare in spiaggia con il suo cane Immacolatella. Quando l’autunno comincia ad abbracciare l’isola, anticipando ogni giorno l’ora del tramonto, Arturo si chiude nella “Casa dei Guaglioni” a leggere le storie dei Condottieri e a tracciare sull’atlante la linea immaginaria dei suoi viaggi. Quelli che, una volta cresciuto, avrebber intrapreso  con il padre. Per lui Wilhelm  è una specie di eroe, un marinaio avventuroso, un vero viaggiatore e cittadino del mondo: così giustifica in cuor suo le lunghe assenze del genitore, cercando nell’immaginazione quell’amore che non c’è mai stato, quell’assenza di carezze e di gesti d’affetto che per un bambino sono la vita stessa. La Morante non insiste mai sull’infanzia avara del bambino, ma anzi amplifica il sentimento di amore filiale di Arturo nei confronti di suo padre.
Le lunghe attese del ragazzo sulla spiaggia di Procida sono sempre descritte con emozione e gioia, perchè Arturo sepeva sempre in cuor suo quando il vaporetto sarebbe giunto da Napoli con il suo prezioso carico. Era per lui il giorno più bello, a cui sarebbero seguiti molti altri, fino alla nuova partenza di Wilhelm. Nonostante l’infanzia vissuta senza obblighi e senza regole, spensierata e giocosa,  Arturo  porta inevitabilmente  dentro di sè un grande vuoto: la malinconia di un bambino che non sa dare un nome alla sua fame d’amore.
Allora, i miei occhi e i miei pensieri lasciavano il cielo con dispetto, riandando a posarsi sul mare, il quale, appena io lo riguardavo, palpitava verso di me, come un innamorato. Là disteso, nero e pieno di lusinghe, esso mi ripeteva che anche lui, non meno dello stellato, era grande e fantastico, e possedeva territori che non si potevano contare, diversi uno dall’altro, come centomila pianeti! Presto, ormai, per me, incomincerebbe finalmente l’età desiderata in cui non sarei più un ragazzino, ma un uomo; e lui, il mare, simile a un compagno che finora aveva sempre giocato assieme a me e s’era fatto grande assieme a me, mi porterebbe via con lui a conoscere gli oceani, e tutte le altre terre, e tutta la vita!”
Gli incantesimi si sa, non durano per sempre. E anche l’incanto di Procida, che protegge l’infanzia di Arturo come una boccia di cristallo, si spezza un giorno come tanti. Un bagaglio nuovo di sentimenti contrastanti ed emozioni sconosciute fanno breccia nel cuore del ragazzo che, ancora una volta, non sa dare un nome a ciò che prova. Di ritorno da uno dei suoi viaggi,  Wilhelm  porta con sè a Procida una ragazza giovanissima, Nunziata, la sua nuova moglie. Arturo non ha mai conosciuto nessuna donna, nemmeno la propria madre, e all’inizio questo incontro lo disorienta. Il suo animo infantile la disprezza, ritenendola un essere inferiore, perché ha la convinzione che tutte le  femmine, nessuna esclusa, siano brutte e stupide. Ma soprattutto, Nunziata non è degna di prendere il posto di sua madre. Arturo è geloso delle attenzioni che il padre riserva alla sposa, ma non comprende  la vera natura sua rabbia; ed è così che alza un muro contro la ragazza, fatto di silenzi e di fughe. Durante le lunghe assenze di Wilhelm  da Procida Arturo e Nunziata sono costretti ad una convivenza difficile, perché mentre Nunziata cerca di instaurare un rapporto con il ragazzo, ottemperando ai suoi doveri di matrigna, lui non le rivolge la parola e la evita, addirittura non la chiama mai nemmeno per nome. Arturo è incosnapevolmente  attratto dalla giovane donna:  il rancore, il rifiuto e il disprezzo che le riserva non sono altro che i confusi germogli di un sentimento che piano piano si fa spazio dentro di lui.
Da questo momento in avanti, gli avvenimenti si susseguono rapidi e la malìa di Procida sembra aver allentato momentaneamente la presa su Arturo. Non corre più spensierato per le vie del borgo e poi giù fino alla spiaggia, pensando alle storie dei grandi Condottieri; nemmeno si illude più di compiere viaggi da grande esploratore intorno al mondo. I suoi tormenti sono ora reali, non immaginari, e non deve cercarli lontano da Procida perché sono proprio lì, nella grande casa che abita da quando è nato. Arturo sta crescendo, sta diventando un uomo, sperimenta la gioia e il turbamento dell’amore e del sesso, che troverà in un’intraprendente amica di Nunzia. Anche gli altri protagonisti vivono profondi sconvolgimenti, sembra che nulla sia più uguale a prima, per nessuno. Nunziata subisce come una disgrazia i  sentimenti che si accorge di provare nei confronti del figliastro, dilaniata dal senso di colpa e dal  peccato. Riversa tutto il suo amore sul figlioletto Carmine, nato l’anno prima, ormai consapevole di non avere mai avuto nulla all’infuori di questo: nè  Wilhelm, nè Arturo.
Wilhelm, tornato a Procida dopo un lunghissimo periodo di assenza, è ora sofferente e sfuggente, al punto che Arturo non lo riconosce più. Aspettava con ansia il suo ritorno perché era  sicuro che il padre l’avrebbe portato con lui durante il suo prossimo viaggio. La soluzione al suo disagio stava tutta lì, nella concreta possibilità di partire, di scappare da Procida e da quello che ormai l’isola rappresentava. Abbandona anche la sua amante, per la quale non prova nulla, perché si sente rifiutato da tutti e disperatamente solo. La scoperta più amara di Arturo  non sarà però l’amore non ricambiato per Nunziata, ma riguarderà l’eroe della sua fanciullezza: suo padre. Sarà la ferita definitiva, quella che non guarirà e che gli farà prendere una decisione sofferta ma inevitabile. Le pagine in cui la Morante ci guida nel labirinto di sentimenti che prova Arturo in questo frangente sono a mio avviso tra le più belle non solo di tutto il romanzo, ma che abbia mai letto in generale. La scrittura  raggiunge livelli altissimi mentre l’isola di Procida sfuma nei suoi contorni, non può più essere solo un paesaggio, perchè si confonde e si completa con l’anima di Arturo; la delusione e la  sofferenza del ragazzo non trovano pace, ma in quel disincanto c’è una poesia di rara bellezza. Riusciamo a percepire l’intensità del suo il dolore, ma al tempo stesso non possiamo sottrarci al fascino di Procida, che continua ad abitare il cuore del giovane anche quando è spezzato dagli eventi. Indimenticabili le ultime righe, quando Arturo dice addio a suo modo all’isola, abitata dall’amore e dall’odio nella stessa misura, ma pur sempre parte di sè. L‘isola è il simbolo della fanciullezza spensierata e dolce, in cui l’innocenza sembra eterna e la realtà è solo un’eco lontana che non ci sfiora mai. Quando la vita inevitabilmente irrompe con le sue dure leggi anche Procida assume un aspetto diverso, diventa desiderio di fuga, dispiacere, dolore. L’età adulta ci porta in dono la consapevolezza e la capacità di distinguere la realtà dalla fantasia, e rivela le menzogne che spesso ci costruiamo da soli, in un gioco infantile. Quasi sempre però è un boccone amaro, per Arturo come per chiunque di noi.
“…Come fui sul sedile accanto a Silvestro, nascosi il volto sul braccio, contro lo schienale. E dissi a Silvestro: – Senti. Non mi va di vedere Procida mentre s’allontana, e si confonde, diventa come una cosa grigia…Preferisco fingere che non sia esistita. Perciò, fino al momento che non se ne vede più niente, sarà meglio ch’io non guardi là. Tu avvisami, a quel momento.
E rimasi col viso sul braccio, quasi un malore senza nessun pensiero, finché Silvestro mi scosse con delicatezza, e mi disse: – Arturo, su, puoi svegliarti.
Intorno alla nostra nave, la marina era tutta uniforme, sconfinata come un oceano. L’isola non si vedeva più.”

L’isola di Arturo – Elsa Morante (Einaudi)

L'ISOLA DI ARTURO DELLA MORANTE, 60 ANNI INTRAMONTABILI

“Immagina i corvi”, di Luca Sorrenti: storie nere di provincia

Io ho immaginato.
Ho immaginato un piccolo paese della Puglia arroccato su Le Murge, dove il tempo pare essersi fermato. Ho rievocato nella mia mente quella lontana estate del 1986, teatro di questa storia tragica ma allo stesso tempo bellissima, ed ho rivisto una  ragazzina undicenne alle prese con l’insondabile mondo degli adulti. Il campionato mondiale di calcio che si svolgeva in Messico faceva da sottofondo alla pace di quei lontani pomeriggi di vacanza, oziose giornate in cui mio padre era a casa dal lavoro e la telecronaca di Bruno Pizzul era un’eco comune a tutto il vicinato. Quegli anni me li ricordo bene. Ricordo tutto: “la mano de dios” di Maradona, l’Italia che perse il titolo conquistato in Spagna quattro anni prima lasciandoci delusi e polemici, e quel caldo torrido che aveva colpito anche la liguria. Più volte, scorrendo le pagine, mi è sembrato di leggere una parte della mia infanzia.
“Immagina i corvi” è stata  una lettura per certi versi casuale con risultati inaspettati, che mi ha coinvolta e tenuta col fiato sospeso fino alla fine. Si tratta di un thriller, o meglio, di un giallo. Preferisco definirlo “giallo” perché il thriller ha alcuni elementi imprescindibili che qui non ci sono, o meglio, non completamente. Il ritmo non è sempre serrato, la suspence a tratti si perde nelle pieghe della storia, i colpi di scena spesso sono preceduti da affermazioni dell’autore che inevitabilmente tolgono pathos e fanno calare la tensione narrativa. C’è però il delitto irrisolto, il mistero che aleggia intorno a fatti apparentemente inspiegabili, una matassa che pare aggrovigliarsi ad ogni pagina anziché dipanarsi, fino ad arrivare alla verità. Una verità terribile e crudele, forse la più agghiacciante a cui ero mai stata messa di fronte in tanti anni di letture di genere. Il punto forte del romanzo è l’ambientazione, particolare e  suggestiva. Come spiegavo all’inizio l’autore riesce abilmente a catapultare il lettore  nell’estate  del 1986, in un piccolo paese dell’entroterra pugliese.
In quel microcosmo sperduto tra le montagne il tempo sembra essersi congelato, abbracciato da un’immobilità che mette i brividi. E’ il periodo del primo governo socialista nella storia della repubblica italiana, con Bettino Craxi ai vertici ma  ormai dimissionario, mentre la politica internazionale è segnata dall’anti europeismo della Lady di Ferro, al secolo Margareth Thatcher. E’ l’epoca della Milano da bere, degli yuppies, di nuovi ceti sociali che emergono grazie ad un diffuso benessere economico che viene ostentato senza freni. Ma la modernità che avanza non riesce a penetrare a Spinosa, dove gli abitanti continuano a vivere barricati dietro i loro pregiudizi e la società sembra impermeabile ai cambiamenti: il parroco, il sindaco, il medico, il farmacista, la zitella, l’immigrato, il barbone avvinazzato, il matto del paese di cui tutti hanno paura. Questa è la stratificazione sociale di Spinosa, un equilibrio inalterato nei secoli che un giorno come tanti cade in mille pezzi, sotto i colpi della follia omicida. C’è una chiesa sconsacrata a Spinosa, dove da sessant’anni giacciono sepolti gli scomodi segreti  di alcuni anziani del posto, che allora erano appena adolescenti. Un patto antico, una promessa tra ragazzi che però aveva in sè un forza devastante.  Nessuno di loro ha mai più dimenticato, trascinandosi dietro quell’assurdo fardello fino a quando  ciò che sembrava sepolto per sempre si è risvegliato. Come l’avverarsi di una terribile profezia.
I corvi, il Male, Dio, il Diavolo, l’uomo, la morte. Appassionatamente stretti in un caldo e soffocante abbraccio nel tuo paese.
Immagina un bimbo seviziato e il suo cadavere finito, non si sa come, nel giardino di un’abitazione maledetta.
Immagina un delitto in un luogo chiuso. Porte e finestre sono sbarrate dall’interno. E nessuno avrebbe potuto uccidere in quelle condizioni e nessuno sarebbe potuto fuggire. Eppure è accaduto.
Anche i corvi sono tornati in paese, proprio come nel 1926, e gli abitanti di Spinosa sanno bene che il loro arrivo può significare solo una cosa: disgrazia, morte, orrore.
Questo giallo/thriller ha i toni cupi di un romanzo gotico, e strizza l’occhio a diversi autori importanti della letteratura internazionale. Quando descrive il piccolo paese teatro degli atroci delitti mi è sembrato attingesse a piene mani da Stephen King, che è un vero maestro del genere (La piccola provincia americana è la sua scenografia preferita). Altri  richiami  sono poi evidenti quando l’autore fa entrare in scena il personaggio di Eugenio Corsi, un uomo con una forte menomazione psichica che da anni vive recluso insieme agli anziani genitori, incapace di avere un qualsiasi contatto sociale. E’ la vittima sacrificale dell’ignoranza e della diffidenza dei compaesani, che non conoscono la sua malattia e per questo ne hanno paura. Le grida che dicono di sentire nel cuore della notte, urla agghiaccianti di disperazione e dolore, per gli abitanti di Spinosa, così timorati di Dio, hanno solo un significato:  è la voce di un mostro, una creautra del demonio, essere immondo capace di qualsiasi tipo di violenza. Eugenio Corsi non è altro che  la versione pugliese di Boo Ridley, il protagonista silenzioso de “Il buio oltre la Siepe” di Harper Lee. Meno riuscito forse, ma sempre efficace proprio  per il significato importante che la sua triste storia porta con sè. Infine il nostro bravo autore ha voluto omaggiare un classico della letteratura gialla di tutti i tempi: l’ “enigma della camera chiusa“. Una locuzione con la quale si indica una specie di “sottogenere” di romanzo giallo in cui il delitto viene compiuto in una camera chiusa dall’interno, in una circostanza quindi  apparentemente impossibile. Il fulcro della vicenda non è la ricerca del colpevole, bensì scoprire come sia stato commesso il crimine in questione. Una roba assolutamente intrigante, trattata da geni quali  Edgar Allan Poe  (I delitti della Rue Morgue) e da John Dickson Care (le tre bare). Rispettivamente il capostipite e il maggior esponente di questo genere. Verrebbe da pensare quindi che  il nostro Luigi Sorrenti ha compiuto un certo numero di azzardi mettendo tutti questi riferimenti importanti in un romanzo d’esordio, ma tant’è. L’ha fatto e tutto sommato gli è riuscito piuttosto bene, perché il romanzo si legge senza riuscire a smettere, mi ha tenuta  inchiodata alle pagine e  una volta richiuso mi ha  lasciato quel sottile velo di angoscia che noi giallisti conosciamo bene. Quando succede questo, significa che il giallo funziona. Ha rispettato tutti i dogmi della letteratura di genere ed ha superato ampiamente la prova, almeno per quanto mi riguarda.
Credo che l’autore sia originario dei posti narrati, perché descrivere con tale trasporto una terra arida e ingrata come  quella delle  Murge Pugliesi di quegli anni è possibile solo se quei luoghi ce l’hai nel cuore. Doveva per forza esserci stato quando il progresso bussava alla porta dell’immaginaria Spinosa ma gli abitanti lo respingevano, forti delle loro tradizioni e delle loro superstizioni. Nelle ultime pagine si sente tutto l’amore e la nostalgia per questo paese, nonostante le terribili contraddizioni e l’arretratezza culturale in cui versava la maggior parte della popolazione locale. Ma l’ignoranza non è quasi mai una colpa, perché quella terra amara bisognava pure lavorarla,  non c’era tempo da perdere con i libri.
Essendo un esordio è naturale che i difetti ci siano e che siano piuttosto evidenti. Ho trovato l’edizione poco curata, con diversi refusi, ed il fatto che la pubblicazione sia avvenuta tramite una casa editrice minore non giustifica tali mancanze. Minore non vuol dire peggiore. Inoltre non mi è piaciuto il finale, sicuramente non all’ altezza di tutto il resto del romanzo: mi è parso frettoloso e raffazzonato, non mi ha soddisfatto per niente il confronto tra il commissario di polizia e il colpevole. Sbrigativo e superficiale,  lascia molti dubbi e tante domande senza una risposta esaustiva.
Non ho voglia però di dare troppo rilevanza a questi aspetti, perché tutto sommato non lo trovo giusto. Un esordio così non va deplorato a causa di un finale sottotono o di un editing poco curato, perchè gli elementi validi sono tanti e Luigi Sorrenti è un autore davvero in gamba, con un ottimo stile e che sa fare presa sui sentimenti umani. Una felice scoperta, una lettura appagante e completa: un’affermazione che non si può fare spesso quando si parla di gialli.

Immagina i corvi – Luigi Sorrenti (TRE60)

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“Olive Kitteridge”, di Elizabeth Strout: l’anti eroina della provincia americana

“Olive Kitteridge” è molto più di quello che sembra. Ad un lettore poco attento può apparire come un libro semplice e di natura incerta, senza un inizio e una fine precisa, un incontro di storie che si aprono e si chiudono nel giro di poche pagine con alcuni elementi ricorrenti che fanno da amalgama. Ma ad una analisi più approfondita si capisce perché l’autrice, Elizabeth Strout, è considerata tra le più importanti scrittrici contemporanee, vincitrice nel 2009 del premio Pulitzer proprio con questo romanzo. La sua eccellenza si nota nei tanti particolari che gli conferiscono una struttura narrativa di forte impatto : cerchiamo di capire perché. Lo faccio soprattutto per i suoi detrattori, quelli che hanno visto in “Olive Kitteridge” solo il ritratto di una donna negativa, irritante e spesso deplorevole nel modo in cui si relaziona al prossimo. E’ strutturato con una serie di racconti in cui la presenza della donna, a volte ingombrante, a volte marginale, è il filo che tiene unito e imbastisce il contorno narrativo.
Olive è un’ insegnante in pensione che vive con il marito in una piccola cittadina del Maine affacciata sull’oceano, sferzata costantemente dal vento salmastro che batte sulla costa, con piccole case di legno e un accogliente porticciolo.
Proprio l’ambientazione, così suggestiva, è l’altro elemento comune del romanzo: tutte le vicende si snodano in questo microcosmo che pare uscito fuori dal nulla, slegato da quello che è il mondo circostante: un piccolo nucleo scontroso, introverso, chiuso in se stesso, che accoglie ma al tempo stesso spinge ad allontarsi, come una madre troppo invadente. Anche Olive lo è,  troppo invadente. Ma di questo vorrei parlare alla fine, perché la Signora Kitteridge non è l’elemento fondamentale del libro. Come accennavo all’inizio Olive è una presenza costante che ha l’importante compito di collocare in uno spazio – tempo ben definito le vicende che vengono raccontante di volta in volta, in cui protagonisti molto spesso sono completamente scollegati gli uni dagli altri. Se non per il fatto che tutti loro, chi più chi meno, ad un certo punto della propria vita si imbattono nella donna. Per un lungo periodo o per pochi secondi, per un incontro fugace o per un’amicizia di vecchia data, Olive è sempre presente, come se servisse ad ancorare alla realtà le storie inventate dalla Strout. Lo stesso ruolo di “aggancio” è affidato al paesaggio, che è sempre lo stesso: una piccola cittadina dove tutti si conoscono, simbolo della vita di provincia americana. Elizabeth Strout condensa le vite dei protagonisti in brevi racconti, con uno stile essenziale ma molto intenso e ricco di sfumature. Riesce a catturare con pochi dettagli il mondo interiore e i sentimenti delle persone che popolano questa cittadina, come se fosse il quadro di un impressionista che anziché usare i colori usa le parole per suscitare emozioni e ricordi. In sottofondo c’è l’inesorabile scorrere del tempo che viene scandito dalla vita di Olive, e da una tristezza che non da tregua. E’ struggente e malinconica la cornice che la Strout crea per noi, ed in questo contesto così dolente la vita narrata si muove velocemente, lasciando dietro di sé rimpianti e rimorsi, passioni bruciate troppo in fretta o mai sopite, smania di partire e desiderio di restare, fame d’amore, illusioni, malattia, morte. Non c’è spazio per la leggerezza, per la dolcezza, per la speranza: a volte si intravede, ma è come la luce di un faro che pulsa in lontananza, a spezzare il buio delle notti costiere. Un puntino di luce perso nel nulla.
Infine c’è lei, Olive Kitteridge. Sono sicura che la Strout ha voluto dipingerla così ordinaria perché doveva essere il più reale possibile, distante anni luce dalle solite protagoniste femminili dei romanzi. Forti, tenaci , indipendenti, affascinanti, colte, intelligenti. No. Olive è sciatta, ha parole sgradevoli per tutti, non le interessa riscattarsi dalla vita arida che conduce ma ci scivola sempre più in fondo. Non è un’eroina patinata, la nostra Olive. E’ una perdente. E’ antipatica, acida, pensa e fa cose cattive di cui poi non ha nessuna vergogna perché è convinta di essere sempre nel giusto. E’ disturbante, invadente, emotivamente incapace di stabilire un rapporto equilibrato con la famiglia, detesta sua nuora perché l’accusa di averle portato via il figlio, strappandolo da quella vita che lei, la sua amorevole madre, aveva confezionato apposta per lui. Gli aveva creato un nido accogliente per quando sarebbe cresciuto, una casa vicino a lei e uno studio in cui avrebbe potuto esercitare la sua professione nella tranquillità domestica. Una vita sicura e protetta, in cui lei sarebbe stata naturalmente presente. Non ha mai capito che quel tipo di amore ha suscitato nel figlio sentimenti opposti, una personalità confusa e un desiderio di fuggire che lo ha fatto aggrappare al primo soffio di libertà. Per Olive sarà un dolore immenso da cui non guarirà mai, che continuerà a logorarla fino alla fine, che non capirà e che non le consentirà mai di perdonare. E’ è alta e goffa Olive, è in sovrappeso, non sa vestirsi in modo adeguato, non è attraente e non si cura. Non le importa né di se stessa, né del prossimo. Dentro di lei ci sono tanti sentimenti contrastanti che fanno uscire fuori solo la sua parte peggiore. Quella migliore resta dentro il suo corpo sgraziato, al riparo da chi non potrebbe capire. Anche lei ha amato, e molto. Un tempo molto lontano, aveva arginato il suo brutto carattere per fare spazio a sentimenti sconosciuti e sbagliati. Soltanto suo marito Henri ha intravisto e capito quel che di buono c’era in lei, accettandola per quello che era. Anche se lui non fu mai il destinatario di quell’amore che rese Olive bella e felice, Henri l’amava ugualmente, e scelse sempre lei.
C’erano giorni, se lo ricordava, in cui Henry le teneva la mano mentre tornavano a casa, due persone di mezza età, nella pienezza degli anni. Si erano resi conto della gioia tranquilla di quei momenti? Molto probabilmente no. La maggior parte della gente non era abbastanza consapevole della propria vita mentre la viveva.”
Olive è così umana, normale, così piena di difetti, così fragile e negativa che ho avuto voglia di prenderla a schiaffi per tutta la durata del romanzo. Eppure, questi sono anche gli stessi motivi per cui mi è piaciuta così tanto. Imperfetta, vera. Olive è la parte più segreta e sbagliata di ogni donna: quella che volutamente ignoriamo per sentirci persone migliori.
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“La vedova Couderc”, di Georges Simenon: il lato oscuro della vita di provincia

Georges Simenon è stato un autore, oltre che geniale, anche estremamente prolifico, talmente prolifico che prima di arrivare alla conclusione della sua “Opera Omnia” ho davanti a me ancora moltissime letture. Circostanza che considero una fortuna non da poco, perché è tra i miei autori preferiti ed ogni suo romanzo è fonte di puro piacere letterario, e di profonde riflessioni.  La sua bravura non risiede nella costruzione di storie articolate o di strutture narrative complesse, ma nell’apparente semplicità stilistica, nella fluidità del racconto e nella facile immedesimazione che offre al lettore. E’ proprio questa la vera differenza tra uno scrittore normale ed uno straordinario come lui, ovvero la capacità di ridurre all’essenziale dialoghi ed avvenimenti, riuscendo nello stesso tempo a trasmettere messaggi profondi. Le parole, scelte con cura, saranno allora così pregne di significato da non necessitare d’altro.  La trama di per sè passa in secondo piano e tutta la nostra attenzione sarà catalizzata dalle vicende umane e dall’aspetto psicologico dei suoi protagonisti. Questo forse è l’unico elemento ricorrente in tutti i suoi romanzi: la tortuosità dell’animo umano contrapposta alla linearità delle storie narrate, a cui fa da sfondo un paesaggio spesso immobile, sempre uguale, come se fosse lo sfondo di un quadro che stiamo osservando rapiti.

Questa volta Simenon ci immerge nella campagna francese di provincia, un piccolo mondo rurale che sembra avulso dai cambiamenti e dal progresso. In questa staticità quasi innaturale le descrizioni del paesaggio, seppur minime, sono superbe e fanno calare con facilità noi lettori in un contesto particolare e suggestivo, in cui la bellezza pura ed incontaminata del mondo contadino si contrappone allo squallore delle vite narrate, creando contrasti forti e stridenti, che suscitano una persistente sensazione di fastidio e di disagio. I protagonisti principali sono due: Tati e Jean. Tati è una vedova di circa 45 anni che vive in una cascina nei pressi  di uno dei molti canali che attraversano la campagna parigina, e si guadagna da vivere allevando bestiame ed animali da cortile. Giunse qui appena quattordicenne, mandata dalla madre a servizio dalla famiglia Couderc; ha sempre vissuto lavorando e faticando molto in cambio di vitto e alloggio, alla stregua di una serva. Rimasta incinta del figlio del padrone, rimarrà in quella casa in seguito alla morte del marito, continuando a badare alla cascina e soddisfacendo ogni tanto le voglie dello suocero, che lei chiama senza remore “vecchio porco”. Una situazione di comodo che le ha permesso nel corso degli anni di mettere da parte una discreta somma di denaro, attirandosi addosso l’invidia e le ire delle sue cognate, che l’accusano senza mezzi termini di voler mettere  le mani sulla casa e su tutta la proprietà approfittando del loro padre, ormai anziano e fuori di testa. La vita che conduce è dunque amara e pregna di solitudine: il suo unico figlio infatti è un delinquente e al momento si trova lontano, in Africa, in un battaglione di punizione. Quando un giorno come tanti, dalla corriera che dal paese porta al mercato rionale, scende alla solita fermata anche il giovane Jean, Tati ha come un guizzo in petto.

Jean è un ragazzo di buona famiglia, uscito da poco di prigione, dove ha scontato una pena per aver commesso un delitto in circostanze giudicate attenuanti. Simenon non lo esplicita mai durante tutto il romanzo, ma leggendo tra le righe si intuisce che tra i due si crea fin da subito un legame carnale malato ed ossessivo. Tati diventa possessiva, offre a Jean vitto e alloggio in cambio di aiuto con i lavori in campagna, lo mette in guardia dalla giovane e seducente nipote perchè ne è gelosa, spande veleno sulle sue cognate e sulle loro famiglie perchè vuole che lui non la giudichi, ma che la veda anzi con occhi ammirati. Jean, dal canto suo, decide di rimanere a dare una mano a Tati non già per amore e neppure per desiderio, ma solo perché non desidera ricongiungersi con la sua famiglia, per la quale nutre un totale disprezzo. Tutti i protagonisti di questa storia sono sbagliati, miseri, aberranti: nessuno si salva.


La vita nel cascinale non ha nulla dell’incanto pastorale che ci si aspetta, anzi, è una fucina di sentimenti orribili, di parole sottaciute, di maldicenze, di asti covati silenziosamente per lunghi anni. Questo mondo rurale, in cui l’orologio del tempo sembra essersi fermato, è raccontato attraverso le passioni insane di una famiglia come tante, costretta ad abitare sotto lo stesso tetto perché la realtà contadina di quegli anni era un microcosmo in cui si condivideva il lavoro nei campi così come si condivideva la vita. Le miserie e le nefandezze di ogni membro della famiglia ricadevano allora su tutti, creando spirali micidiali di odio.


Tati, al centro di questa spirale, e Jean, lo straniero che improvvisamente irrompe in quella quotidianità malata, non riusciranno a sottrarsi al loro destino. Perfettamente calati nella loro parte non ci offriranno nessun tipo di redenzione, nessuna speranza di cambiamento, nessun pentimento o presa di coscienza… fino all’ ultimo tragico atto finale.

La vedova Couderc – Georges Simenon (Gli Adelphi)

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“La ragazza del Convenience Store”, di Murata Sayaka: surreale ed irriverente

Prima di tutto: che cosa è un konbini?

A meno che non siate esperti di cultura Giapponese, o per vostra fortuna abbiate  trascorso diverso tempo nel paese del Sol Levante, sono certa che non sappiate esattamente di cosa si tratti. Il termine è intraducibile in italiano, nel senso che qui da noi non esiste l’esatto corrispettivo di questo genere di negozi. Sono piccoli supermercati aperti 24 ore su 24, 7 giorni su 7,  in cui strova un po’ di tutto: dai generi alimentari a quelli di prima necessità, tabacchi, articoli di abbigliamento, quotidiani etc. Solitamente le bevande offerte sono calde (o fresche d’estate) ed i cibi, quasi tutti precotti, vengono riscaldati sul momento. Tutti gli articoli in vendita  costano decisamente meno rispetto ai normali supermercati, e da qui deriva  il termine europeo “Convenience store”.

Furukura Keiko, la protagonista di questa storia ironica ed a tratti surreale, è una donna di 36 anni che lavora come commessa part-time in un piccolo Konbini da ben 18 anni, ovvero da quando ha concluso gli studi superiori. Keiko, in quasi vent’anni di lavoro, non ha mai fatto un’assenza e svolge con una precisione maniacale le sue incombenze quotidiane. Come afferma lei stessa si attiene scrupolosamente al manuale della perfetta commessa, affinchè la macchina del konbini funzioni al meglio. Keiko è felice ed appagata dal suo lavoro, non ha mai desiderato altro, non ha particolari ambizioni o interessi. L’unica cosa davvero importante per lei è sentirsi parte di quel piccolo microcosmo, con il suo ritmo scandito da rituali ordinati ed immutabili: le riunioni mattutine che terminano sempre con lo stesso slogan auto motivazionale, gli scaffali da sistemare a seconda del periodo dell’anno, i prodotti in offerta dei quali spingere la vendita, la divisa da indossare, i capelli sistemati come impone il manuale, le unghie corte e pulite, la vetrina senza mai un alone, il pavimento sempre pulito, i sorrisi smaglianti da offrire ad ogni cliente che entra, la stessa musica in sottofondo  trasmessa ininterrottamente giorno e notte. Questa è la sua vita. Il Konbini per Keiko  è molto più di un lavoro, è lei stessa ad essere parte integrante di quell’ingranaggio. Ma come mai Keiko conduce un’esistenza così fuori dagli schemi? E’ questa la domanda più interessante, quella su cui verte tutto il romanzo. La risposta  che l’autrice vuole dare ai suoi lettori è geniale: semplicemente, un motivo non esiste. La storia di Keiko fa riflettere su un tema molto importante, quello della normalità. Che cosa è in fondo la normalità, se non aderire ad un insieme di regole stabilite dalla maggioranza? Normale rispetto a chi? Rispetto a cosa? Perchè le regole imposte dalla società in cui viviamo diventa il metro  con cui misurare le vite di chiunque, giudicandole malamente se non conformi agli standard previsti? Perchè chi non vuole soggiacere a questi diktat è costretto a subire una pressione sociale così pesante, come quella che subisce la protagonista? Keiko è sempre stata diversa dagli altri ma non ha nessun problema psichiatrico, nessun trauma infantile da superare. Fin dai tempi della scuola ha sempre avuto pochissime amiche, che frequenta ancora saltuariamente pur di  non apparire troppo diversa agli occhi altrui. Non ha nessuna necessità affettiva, è disinteressata al sesso e non prova sentimenti nemmeno per il suo nipotino nato da pochi mesi. Eppure Keiko è cresciuta in un ambiente domestico sereno, affettuoso e premuroso, lo stesso della sorella, donna regolarmente sposata e madre di famiglia. Da bambina ha avuto dei comportamenti anomali che hanno messo in allarme i genitori, ma gli psicologi che l’hanno visitata non hanno riscontrato in lei nessuna patologia. Non essendo affatto una stupida, crescendo ha capito che ciò che per lei è naturale per gli altri non lo è assolutamente, e così ha fatto l’unica cosa che poteva fare per poter vivere la sua vita in pace: ha trovato un lavoro come commessa part time di un Konbini,  come la maggior parte degli studenti giapponesi della sua età. Ma, a differenza degli altri, lei non se ne è mai andata, facendo del Konbini la sua vera casa. In questo posto così ordinato, dai ritmi sempre uguali, Keiko riesce a trovare la sua dimensione: un luogo quasi irreale, sospeso dal tempo, esattamente come lei, immutabile come i giorni in un Konbini.

La sua vita cambia quando al Konbini viene assunto un suo coetaneo, che però a causa di problemi comportamentali non riesce a tenersi il lavoro per più di una settimana. Keiko quasi per caso instaura una specie di legame con questo ragazzo, seriamente disturbato, e quando la voce si diffonde tra i familiari, tra le amiche e tra i colleghi, sconcertata scopre come questo fatto, per lei totalmente privo di significato, l’abbia fatta balzare dritta dritta  nell’olimpo della normalità. Sono tutti entusiasti! Keiko ha finalmente un fidanzato, come si conviene ad una donna rispettabile di 36 anni! Si sposerà, e quindi potrà abbandonare il suo anonimo lavoretto perchè metterà su famiglia! Il fatto che quest’uomo sia un parassita sociale ed uno psicopatico passa naturalmente in secondo piano, perché agli occhi del mondo Keiko ha finalmente ottemperato al suo dovere sociale. Questa è la cosa importante.

«Apri gli occhi, Furukura! Senza troppi giri di parole, tu sei fuori dai giochi, non hai speranze: tra qualche anno sarai troppo vecchia per avere dei figli, non ti curi e dai l’impressione che non te ne freghi niente dei tuoi bisogni sessuali. D’altra parte non guadagnerai mai uno stipendio all’altezza di quello di un uomo e non hai neanche un lavoro fisso, ma solo un misero impiego a tempo determinato. Sei un fardello per la società, un rifiuto umano.»

Cosa succederà a Keiko? Il finale è stato diverso da quello che immaginavo, ma è solo voltando l’ultima pagina  si scopre il vero significato di questo romanzo così sottile, ironico e geniale. Geniale perchè dietro ad una storia apparentemente semplice si nasconde in realtà un’anima molto profonda, che denuncia ferocemente la società giapponese così classista, sessista e tradizionalista, che condanna senza pietà chi non si conforma ai suoi severi standard.


In sole 170 pagine questa giovane autrice, con uno stile fresco e arguto, riesce a metterci davanti ai nostri pregiudizi facendoci cambiare per un istante la prospettiva con cui guardiamo le vite degli altri. La normalità, la diversità e la felicità individuale sono concetti relativi, variabili, e forse proprio per questo scomodi. Siamo talmente radicati nelle nostre abitudini, talmente incancreniti nei nostri  rigidi schemi mentali che proviamo disagio di fronte a qualcuno che, semplicemente, guarda la vita da un’altra angolazione.


Mettersi in discussione, diciamolo, non è il nostro forte. Eppure, se ognuno di noi imparasse a guardare il prossimo consapevole di non avere in tasca la verità assoluta, dal nostro vocabolario sparirebbe persino la parola “tolleranza”. Ma questa è un’utopia. Quella di Furukura Keiko invece è solo una storia, che merita di essere conosciuta e compresa, perchè i libri hanno un potere enorme: quello di insegnarci a pensare.

La ragazza del convenience store – Sayaka Murata (Edizioni E/O)

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“I complici”, di Georges Simenon: una depravazione piccolo borghese

Georges Simenon è uno dei miei autori preferiti. I protagonisti delle sue storie sono quasi sempre uomini e donne in bilico, in lotta contro se stessi ed incapaci di accettare  il finto perbenismo della vita borghese di quei tempi. I  rituali consolidati, le apparenze che dovevano ingannare, la polvere nascosta sotto eleganti tappeti, i villini a schiera in cui riciclare le miserie di un’intimità domestica da tempo logora. Siamo negli anni cinquanta, e per la società conformista di quei tempi il mantenimento dello status quo era una questione di grande importanza. Una quieta sottomissione era di gran lunga preferibile a qualsiasi forma di rivolta : poco importava se poi, nel proprio intimo, una rabbia sorda corrodeva la quotidianità di alcuni, fino a  trasformarla in un fardello impossibile da portare avanti senza sbandare.
Questa storia si apre con un’immagine forte, inaspettata: un uomo e una donna stanno percorrendo una strada di campagna, una pioggia lieve ma costante ha  reso l’asfalto scivoloso ed il volante dell’auto è  governato da una sola mano. Accanto a Lambert  c’è Edmonde, la sua segretaria. Dietro di loro un autobus carico di bambini di ritorno da una gita scolastica sta terminando la  stretta curva, quando improvvisamente appare di fronte all’autista l’autovettura di Lambert che procede lentamente  a zig zag. Una manciata di minuti e accade la tragedia che spaccherà in due la vita di Lambert. Il pullman precipita in una scarpata ed immediatamente divampa  un incendio, lasciando un’unica piccola superstite a combattere tra la vita e la morte. Lambert, nei pochi minuti a sua disposizione, compie una scelta suicida: decide infatti di non voltarsi indietro e fugge via dal rogo disastroso, lasciando l’impronta dei pneumatici  sull’asfalto bagnato. Accanto a lui, EdmOnde non si scompone di un millimetro: non grida, non si agita, non lo guarda. Tutto quello che fa è abbassarsi con un gesto rapido e abitudinario la gonna, senza che trapeli la minima emozione. Quella fuga all’inizio destabilizza Lambert, che si interroga sul perché abbia istintivamente pestato sull’acceleratore anzichè prestare soccorsi ai feriti. Poi, poco alla volta, comprende la terribile verità. Lui ha bisogno di quella colpa, se la vuole sentire addosso totalmente aggravando la sua posizione con la fuga perché in questo modo costringe sè stesso a fare i conti con la propria vita, che tutto è fuorché esemplare. Lui non è un uomo perbene, non ha nulla dell’integrità morale che ci si aspetterebbe da una persona come lui, elemento di spicco all’interno della piccola comunità in cui vive. Insieme al fratello minore gestisce una  società di costruzioni lasciata in eredità dal padre, un lavoro ben avviato e redditizio da cui forse riesce a trarre l’unica  soddisfazione della sua esistenza. Edmonde è la segretaria dell’azienda. Da quando un giorno di alcuni anni prima la vide per la prima volta  praticare autoerotismo nel suo ufficio, ignara di essere vista, un desiderio furioso ed ottuso si impossessa di lui. Sempre senza dirsi nulla o confessarsi alcunchè diventano l’uno per l’altro  un gioco pericoloso, silenzioso e perverso. Un rituale che ha bisogno delle sue regole per svolgersi, e  che non ha nulla nè dell’amore romantico o del sesso occasionale: diventano, per l’appunto, complici.
L’avrebbe comunque portata in campagna, in un posto qualsiasi, e l’avrebbe posseduta selvaggiamente. Ne aveva bisogno. Bisogno soprattutto di provare a se stesso che erano loro due ad avere ragione, che quello era un loro diritto, che non c’era niente di sporco o di colpevole nel piacere che si davano l’un l’altro…di che cosa erano colpevoli, alla fine? E se non lo erano, perché, da quando conosceva Edmonde, si sentiva così spesso preda di una sorda inquietudine?

Lambert ed Edmonde sono uniti  nella loro bestialità, nel loro squallore, nella loro evasione da una quotidianità che non li appaga, insulsa, inutile, stanca. Quanto meno, questo è quello su cui riflette Lambert. Quello che pensa Edmonde non è dato saperlo: per tutta la durata del romanzo la ragazza è niente più che un oggetto inanimato, una donna che sembra non avere una vita interiore se non fosse per quel guizzo erotico che ogni tanto soddisfa da sola, o con l’aiuto di Lambert.  Lambert ha bisogno di questa complicità anche dopo l’incidente, fin dai primi istanti, quando in  quell’ attimo di indecisione prima di voltarsi indietro cerca in Edmonde uno sguardo di approvazione o di comprensione. Tutto quello che trova però sono due mani fredde,  intente a  sistemare l’orlo del vestito. E’ questo il punto più basso che raggiunge Lambert, il punto di non ritorno.

La sua vita è costellata di rapporti personali che non funzionano più, esauriti da tempo, logori e stanchi. Disprezza sè stesso e gli altri, con la stessa forza disperata. Dal momento dell’incidente i giorni si susseguono consapevole che prima o poi la polizia sarebbe giunta alla sua Citroen, ma quel pensiero non lo ossessiona. Non lo teme, anzi, quasi desidera che la questione si risolva presto, così finalmente pagherà per aver sciupato la sua vita, perchè – in fin dei conti – di quell’ incidente lui è solo il colpevole morale. Ben altri sono i suoi tormenti, le sue miserie, e le colpe che non può più espiare. L’unico motivo per cui tenta di sviare le indagini è per preservare quei momenti di intimità con Edmonde, gli unici istanti in cui gli sembrava di tornare a respirare. Come se quella fosse una porta che lo conducesse in un altro mondo, privo di regole bigotte, di felicità fittizie, di ipocrisie, di ruoli imposti e gabbie dorate.
Gli occhi di tutta la Francia sono rivolti a colui che credono l’assassino di 50 bambini, e mentre le indagini della polizia avanzano Lambert è costretto a ripercorrere ed analizzare tutta la sua vita: un matrimonio senza figli, una moglie che da anni lo rifiuta a letto, le prostitute che abitualmente frequenta, le amanti occasionali, il troppo bere, l’odio silente per il fratello dalla vita ineccepibile. Tutto gli appare privo di significato, insopportabile, ormai giunto al capolinea. L’ultimo fotogramma è l’esatto epilogo che mi aspettavo, l’unico possibile quando ormai il buio ha inghiottito l’anima dei disperati.
C’è qualcosa però in questo romanzo che non mi ha del tutto convinta, nonostante la straordinaria bravura dell’autore che come sempre   ha  saputo eviscerare alla perfezione sentimenti sbagliati e scomodi, tanto umani quanto abietti, creando atmosfere cariche di inquietudine e angoscia. Mi è sembrato che a volte il filo si spezzasse, ho colto delle incongruenze – soprattutto nel personaggio di Lambert – che mi hanno lasciata qualche perplessità. I suoi protagonisti sono sempre tutti un po’ maledetti, dei relitti, dei superstiti, talmente umani nelle loro fragilità che nonostante tutto ho sempre provato una specie di empatia nei loro confronti. Questa invece   è la prima volta che non riesco ad entrare in sintonia con nessuno: troppo squallore, troppa miseria umana. Non ce l’ho fatta, non ho provato nessuna “humana pietas” ed  ho detestato Edmonde e Lambert molto più del falso perbenismo contro il quale Simenon muove le sue critiche spietate.

I complici – Georges Simenon (Gli Adelphi)

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