“Via dalla pazza folla”, di Thomas Hardy: la poesia della vita pastorale

Era da diverso tempo che desideravo fare la  conoscenza di Thomas Hardy, importante autore inglese di fine ottocento che, sia  per l’epoca in cui visse che per le tematiche  pessimiste che adombrano le sue opere, costituisce  un importante collegamento tra l’epoca vittoriana e quella del primo novecento, in cui si consolida l’idea che l’uomo è in mano ad un destino ineluttabile, spesso crudele, contro cui non può combattere. Hardy sembra anticipare un ideale filosofico ancora agli albori, ed in questo  risiede buona parte della sua particolarità e della sua  modernità. E’ un autore molto innovativo anche per lo stile cinematografico che utilizza nei suoi  romanzi: noi lettori abbiamo la continua percezione di essere  onniscienti di fronte alle scene che lui descrive, totalmente parte dei paesaggi e di una  vita rurale magnificamente descritta. Nessun filtro sembra separarci dalla vita bucolica che Hardy ama raccontare, le immagini sono vivide e le sensazioni molto forti, quasi fossero anche olfattive e tattili. Il mondo pastorale è molto caro a Thomas Hardy: tutti i suoi romanzi sono infatti ambientati nel Wessex (nome fittizio della contea del  Dorset) a cui è  legato da nostalgici ricordi d’infanzia e da memorie del passato. Nacque infatti nel cuore della campagna inglese da una famiglia di umili origini, un mondo lontano e pieno di poesia che nella sua prosa diventa il protagonista assoluto, ben più dei personaggi a cui da vita. ”Via dalla pazza folla” è il  primo romanzo ambientato nel natìo Wessex, ed ha come protagonista la vita di una piccola comunità rurale. Tutto è permeato da un’intensa poesia, a cominciare dal titolo: non richiama un nome, un protagonista o un eroe da romanzo, bensì un mondo idilliaco che per l’autore è la massima espressione della vita stessa, l’ambizione suprema cui dovrebbe aspirare l’essere umano. Nella visione di Hardy il mondo rurale è l’unico scenario possibile in cui l’uomo e la natura possono convivere in perfetta armonia, ed allontanarsi da questo provocherebbe solo sofferenza e dolore. Se la felicità ha un luogo in cui insediarsi, è sicuramente lontano dalla convulsione cittadina.
All’interno di questo mondo che ha i colori e le forme di un quadro di Millais, viene ritratta la figura indimenticabile di una giovane donna anticonformista, testarda, indipendente e volitiva: Bathsheba Everdene. Il romanzo si apre con la sua comparsa, una visione fugace eppure così intensa  da sconvolgere  per sempre la vita tranquilla del fittavolo Gabriel Oak. Gabriel, all’inizio del romanzo, è un uomo che ha dedicato tutta la sua vita al lavoro, costruendosi una buona posizione all’interno della piccola comunità. Dopo molti sacrifici è riuscito ad avere un proprio gregge di pecore, e questo gli ha consentito di elevarsi socialmente: nella realtà contadina di quei tempi possedere capi di bestiame, o una terra da coltivare, significava essere benestanti. Gabriel si innamora subito di Bathsheba, la quale  aldilà di un carattere bizzoso non possedeva nulla; nonostante la sua condizione di povertà  rifiuta risoluta la proposta di matrimonio di Gabriel, disinteressata com’era agli uomini e saldamente legata alla sua idea di libertà.
L’imprevedibilità della vita porta però ad un ribaltamento delle condizioni economiche e sociali dei due protagonisti. Gabriel in seguito ad un incidente perde tutti i suoi capi di bestiame, ancora non assicurati, e il disastro economico lo obbliga a cercare lavoro presso una fattoria. Bahtsheba invece  eredita inaspettatamente alcuni possedimenti da uno zio, diventando così  fittavola a sua volta. Questo rovesciamento improvviso della sorte serve all’autore per mettere in evidenza gli aspetti caratteriali dei protagonisti, che riescono ad adattarsi alle nuove condizioni di vita affidandosi solo alla propria forza d’animo. Gabriel, solido e maturo, continuerà a svolgere al meglio il proprio lavoro di pastore alle dipendenze della donna che ama, per la quale nutre un sentimento sincero e profondo, indifferente alla gelosia e alle ripicche infantili tipici degli innamorati. Quando capisce che la sua nuova condizione non gli permetterà mai di conquistare il cuore di Bahtsheba si mette da parte con dignità e compostezza, senza pestare i piedi o mettersi ad imprecare contro la sorte avversa. Attende, paziente, il suo momento. Egli è certo che arriverà, così come è certo dell’alternarsi delle stagioni. Adatta l’amore che sente per Bahtsheba all’amicizia, diventando suo confidente e consigliere per quanto riguarda le faccende della fattoria. Una solida presenza che gravita nell’ombra, pronto ad intervenire nei momenti di bisogno: è questo ciò in cui si trasforma Gabriel Oak per amore. Bathsheba, dal canto suo, deve fare i conti con una grande proprietà da gestire, che non intende affidare a nessun altro. Decide così di farsi carico personalmente dei doveri di fattrice, organizzando il lavoro degli uomini  e gestendo gli aspetti economici della fattoria. Un compito tutt’altro che semplice, ma la sua indipendenza e la sua testardaggine non le consentono di scendere a patti con niente e nessuno.
Essersi tirata addosso tutto ciò era una cosa terribile; ma dopo un po’ la situazione non era senza una certa paurosa gioia. La facilità con la quale anche la donna più timida prende a volte gusto al terribile, quando è amalgamato con un piccolo trionfo, è stupefacente.
Bathsheba è una donna straordinariamente moderna per i suoi tempi ed ha ben poche cose in comune con la maggior parte delle ragazze dell’epoca: non le interessa il matrimonio, perché  sposarsi e diventare moglie di qualcuno soffocherebbe la sua libertà e la sua indipendenza. Scegliere di condurre da sola una fattoria  diventando il capo di contadini, pastori ed operai è una presa di posizione forte e assolutamente fuori dal comune per l’epoca, che Bathsheba compie con un grande senso di responsabilità. Tuttavia è pur sempre una donna, bella e volitiva, che ispira amore e  desiderio negli uomini. E’ indipendente e testarda, ma questo non le impedisce di essere  immune alle lusinghe amorose  e all’attrazione nei confronti dell’altro sesso. Oltre a Gabriel, altri due uomini si contendono l’amore di Bathsheba: Francis William Troy, ufficiale dell’esercito affascinante ed inaffidabile, e Bolwood, il fattore delle confinanti proprietà, che conduce una vita riservata e severa. Alla fine di una lunga attesa arriverà per Gabriel il momento della ricompensa, perchè nella visione di Thomas Hardy la vita premia sempre chi sa attendere. Le vicende amorose di Bathsheba, al centro di un intreccio che ci riserverà numerosi colpi di scena, è comunque solo un delizioso contorno. Come affermavo all’ inizio il vero protagonista di questo romanzo è la campagna inglese di fine ottocento, con i suoi antichi rituali: la tosatura delle pecore, la festa della mietitura del grano, il lavoro nella malteria.
Ogni momento di vita pastorale viene descritto con una tale bellezza che è impossibile resistere alle suggestioni della scrittura di Hardy, veniamo letteralmente trascinati dalla sua  forza espressiva e ci sentiamo parte di quelle scene di vita semplice ed agreste, completamente appagati. Mentre leggiamo veniamo pervasi dal desiderio di appartenere ad uno stile di vita più semplice ed integro, in cui la natura detta i suoi tempi all’essere umano. In questo Thomas Hardy dimostra tutta la sua grandezza di scrittore, perché a fare da spartiacque tra un autore ed un grande autore è proprio la capacità di immedesimazione che si offre al lettore, ed alle sensazioni che si è in grado di far affiorare durante la lettura. Lo stile narrativo non è semplice, tutt’altro. Spesso i pensieri sono esposti in modo tortuoso ed il lirismo raggiunge vette altissime, soprattutto quando siamo di fronte alle scene di vita agreste. E’ però qualcosa di naturale, non c’è nessuna forzatura nello stile e questo ci consente  di assimilare certe “fioriture” senza  difficoltà, se non forse all’inizio: è necessario un piccolo sforzo per adattarsi alla prosa di Hardy, perché non è lineare nè immediata. Ma se non vi lasciate scoraggiare dall’impatto, se vi lasciate trasportare dal vortice emozionale delle sue parole, allora leggere Via dalla pazza folla vi procurerà un piacere raro, una gioia che solo noi lettori abbiamo la fortuna di poter conoscere.

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“Dentro l’acqua”, di Paula Hawkins: le streghe sono tornate

Paula Hawkins è tornata. Il suo nuovo thriller è balzato  in testa alle classifiche con l’agilità di un ghepardo, e noi lettori cosa ci dobbiamo aspettare? Quest’autrice da un milione di dollari è sbucata fuori dal nulla in un giorno qualunque di qualche anno fa e non è mai più scesa dall’olimpo delle vendite. Pensavo che sarebbe stato impossibile per la Hawkins bissare il successo precedente,  anche perché  per quanto La ragazza del treno mi sia piaciuto parecchio , è ben lontano dall’essere un capolavoro di genere. Comunque sia io ho acquistato e letto “Dentro l’acqua”, certa che nella peggiore delle ipotesi mi avrebbe regalato qualche giornata di suspence e divertimento.
L’autrice, come è logico, ricalca i passi che l’hanno resa celebre confezionando un thriller psicologico angosciante, in cui dominano le sensazioni negative: la paura, i ricordi dolorosi, le verità taciute, i segreti inconffessabili. Ancora una volta il protagonista assoluto non  è  un individuo in carne ed ossa:  come a suo tempo il treno fu l’elemento cardine su cui ruotò tutta la storia, un corpo mobile che traghettava le  angosce quotidiane della protagonista, così in quest’ultimo thriller è il fiume della piccola cittadina di Beckford, nel nord dell’Inghilterra, a trascinare nell’oblio vite disgraziate. Un rituale ancora una volta dannato ed al tempo stesso liberatorio in cui l’acqua, simbolo per antonomasia di vita e prosperità, assume qui il significato opposto e diventa l’ultimo rifugio di donne disperate.
A Beckford, diversi secoli fa, c’erano le streghe. Le donne del paese che erano in grado di preparare intrugli curativi, oppure quelle dotate di una  conturbante bellezza, venivano additate come concubine del demonio e per questo perseguitate ed imprigionate. Uomini pusillanimi e spaventati le torturavano senza pietà, sperando che questo bastasse a scacciare dai loro lombi istinti peccaminosi. Le streghe di Beckford venivano immerse nell’acqua del fiume che attraversava il paese, perché se  i loro corpi galleggiavano anzichè andare a fondo come quelli dei comuni mortali significava che operavano tramite il maligno. Quella placida conca sovrastata da un alto promontorio diventava la loro tomba: lo Stagno delle Annegate.
Storie antiche, crudi racconti che il tempo ha ormai trasformato in leggenda. Solo il fiume è  sopravvissuto, monito di punizione ed orrore, e quell’avallamento profondo in cui moltissime donne hanno perso la vita. Dalla piccola Libby, affogata dalla brava gente del paese nel 1679 perchè aveva sedotto un uomo molto più grande di lei, fino alla studentessa suicida Katie, sembra che il fiume chiami a sè tutte le donne infelici di Beckford per avvolgerle nella pace  delle sue acque scure. L’ultimo anello di questa spirale di morte è Nel Abbott, che pare essersi suicidata anche lei tuffandosi nello Stagno delle Annegate. Sua sorella Jules, arrivata in paese in seguito al tragico ritrovamento del corpo di Nel, non crede però all’ipotesi del suicidio. Conosce sua sorella, e  nonostante non si parlino da anni  sa perfettamente che non avrebbe mai compiuto un gesto del genere. Nel fin da ragazzina era ossessionata dalle storie di quelle donne suicide, voleva capire cosa le avesse spinte ad ascoltare il richiamo del fiume di Beckfort, scegliendo l’ottenebramento: c’era qualcosa di ancestrale in quel luogo, qualcosa che le abbracciava in modo intimo, donando loro quel conforto che in vita non avevano mai ricevuto? Probabilmente sì. Nel sa che esiste un istante perfetto, poco prima dell’annegamento, in cui i disperati ritornano allo stadio primordiale, quando galleggiano nell’utero materno: un attimo eterno in cui desiderano soltanto lasciarsi andare, cullati da quelle acque morbide.  Ma Nel sapeva anche un’altra cosa: sapeva cheBeckford non è un luogo di suicidi. Beckford è il luogo in cui liberarsi delle donne che portano guai. Come le streghe, come Libby, come Lauren, Anna e Katie. Ed infine come lei stessa.
In paese tutti erano a conoscenza delle indagini che  Nel stava compiendo a proposito delle  donne suicide. Ha raccolto materiale, ha chiesto, ha ascoltato le storie di ogni famiglia coinvolta perchè voleva dare  voce alle loro sofferenze, voleva capire. Era come ossessionata. Il libro che voleva scrivere però ora giace incompiuto nella sua camera da letto, destinato a restare inedito. La disperazione delle donne di Beckford ancora una volta resterà inascoltata, sepolta negli abissi de Lo Stagno delle Annegate.
“Alcuni dicono che quelle donne hanno lasciato qualcosa di sé nell’acqua, che il fiume ha trattenuto un po’ del loro potere, perché da allora le sue sponde attraggono le donne infelici, disperate, perdute. Vengono qui e nuotano con le loro sorelle.”
Jules è decisa a  scoprire la verità su sua sorella, per riscattarsi dalle proprie colpe e per aiutare Lena, la figlia di Nel, un’adolescente difficile ed arrabbiata con il mondo con cui è impossibile comunicare. Dovrà scontrarsi con la riottosità di quel  piccolo paesino di campagna, una sorta di Twin Peaks   inglese che dietro alla sua facciata da cartolina nasconde orrorifici segreti,  in cui ogni abitante protegge sè stesso da scomode verità. Anche a costo di compiere gesti estremi.
La narrazione non è fluida, anzi. Le voci che compongono questa storia sono molte, ognuna con  la propria  parte di  verità da mostrare e quella da nascondere con cura. Spesso mi sono ritrovata in difficoltà, ingarbugliata in una matassa polifonica di nomi, situazioni, ricordi;  pagina dopo pagina l’autrice compone una sinfonia di morte e di dolore, di sofferenza e solitudine che culmina nello spiazzante finale, quando tutti i frammenti convergeranno nella stessa direzione ed i  narratori si riuniranno in un’unica  voce: quella della verità.
Paula Hawkins è brava, ed in quest’ultimo thriller non fa che  riconfermare  un innato talento per la costruzione  di storie contorte ed oniriche, proprio come la psiche umana quando traballa tra realtà e ricordi dolorosi. Ancora una volta siamo di fronte ad una narrazione dominata dall’elemento psicologico più che dalla trama in sè, in cui non esistono paladini delle giustizia,  ma solo perdenti. Ed è questo a mio avviso l’elemento vincente che l’autrice sfrutta così bene: quella di dare voce agli sconfitti, agli anti eroi, a  vite spezzate in cui non c’è più spazio per la redenzione.

Dentro l’acqua, Paula Hawkins (Piemme)

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“Il piccolo naviglio”, di Antonio Tabucchi: una storia senza maiuscole.

L’autore di questo romanzo non ha certo bisogno di presentazioni, trattandosi di Antonio Tabucchi. Uno dei più grandi scrittori italiani dell’epoca moderna, appassionato studioso della poetica di Fernando Pessoa e docente universitario. Nel 1994 pubblica il suo romanzo più famoso, quello che gli fa ottenere la fama definitiva e popolare: “Sostiene Pereira”. Ambientato a Lisbona, diventerà  un simbolo per gli oppositori politici dei regimi anti democratici, emblema della libertà di cronaca, espressione ed informazione. “Il piccolo Naviglio” è il secondo romanzo scritto da Tabucchi, pubblicato dalla Mondadori nel 1978 e rieditato dalla Feltrinelli nel 2013: non serve essere profondi conoscitori della sua opera per apprezzarlo, ma se vogliamo affrontare questa lettura dobbiamo sapere che si tratterà di un viaggio particolare, intriso di poesia e di favola. All’epoca Tabucchi era un autore ancora acerbo in cerca della sua identità, ma già possiamo intravedere i germogli della sua prosa, così simile a quella dei grandi autori sudamericani e portoghesi come Garcìa Marquez e l’amato Pessoa, una prosa carica di relazioni umane fatte di sogni e di tragedia, di solitudine interiore e di struggimento. Le metafore sono il motore della narrazione,  che spesso fa perdere a noi lettori il senso dell’orientamento, per poi farcelo ritrovare un attimo dopo. Per questo motivo il parallelismo con “Cent’anni di solitudine” appare così naturale ed evidente, perchè anche qui incontriamo personaggi fuori dagli schemi, quasi surreali, che hanno contraddistinto l’opera di Garcia Marquez: uomini in cerca della libertà, sognatori solitari, anime tormentate che  non si chiamano Aureliano bensì Sesto, e che non vivono nell’immaginaria Macondo ma in un piccolo paesino fatto di sassi ai piedi di una cava di marmo in Toscana, che all’inizio di questa storia era ancora un Granducato. Siamo infatti nella metà del XIX secolo quando fa la sua comparsa il capostipite della dinastia dei Sesto,  un giovane ossuto dai grandi baffi rossicci chiamato Leonida (o Leonido). Capitano Sesto, l’ultimo della dinastia, cerca di rimettere ordine tra i ricordi di sè stesso bambino e quello che grazie alle testimonianze più disparate riesce ad apprendere sulla storia della sua famiglia. Ripercorrerà a ritroso tutta la sua rotta, navigando al contrario su un  naviglio immaginario, che è ben poca cosa ma appartiene solo e soltanto a lui. E’ un naviglio popolato  da strani oggetti che con la loro esistenza testimoniano antichi legami, che raccontano avventure tanto improbabili quanto reali, perchè gli appartengono e  sono parte di lui. C’è, per esempio, un quaderno di ricette e rimedi scritto a mano e tenuto insieme da un fiocco rosso, come rossi furono i capelli di Sesto, di primo Sesto ed infine i suoi. Erosa dal tempo c’è anche una vecchia tromba per auto, rubata per scommessa e nascosta in un luogo segreto dove rimmarrà a giacere fino a quando Capitano Sesto non attraccherà con la sua nave carica di ricordi recuperati in quel paese di pietra, nei pressi di una casa a cui fa da guardia un cane giallo. C’è un temperino con sopra inciso in nome di un hotel, in cui due sorelle gemelle identiche e bellissime diedero alla luce un figlio dai capelli rossi, che non conobbe mai suo padre perché quell’uomo, capostipite di una dinastia di affaristi, per timore di non riconoscere chi fosse la vera madre preferì sparire nel nulla. Mentre Capitano Sesto compie il suo viaggio alla ricerca della proprie origini, sullo sfondo osserviamo impotenti la macchina del progresso che compie il suo inarrestabile percorso, così come fecero a suo tempo tutti i Sesto di questo mondo. Capitano Sesto e tutti i suoi ascendenti sono consapevoli di essere minuscoli granelli all’interno di un ingranaggio molto più ampio, ma nonostante questo sembrano essere estranei ai cambiamenti perché la loro natura di sognatori non ha mai permesso a nessuno di loro di aderire alla realtà così come la intendiamo noi.
L’intreccio narrativo è complesso ma Tabucchi non eccede mai adoperando uno stile semplice,  fortemente poetico ma “terreno”, con il quale riesce a raccontare insieme alle vicende dei Sesto anche la storia di un paese intero. Sullo sfondo di questa saga familiare scorgiamo il ritratto dei primi settantanni d’Italia: l’unità nazionale, il socialismo, l’avvento del fascismo, la seconda guerra mondiale, la ricostruzione post bellica, le elezioni del 1948, la corsa al mattone e le lotte comuniste dei primi anni settanta. Tutto passa attraverso questa famiglia toscana, capitolo dopo capitolo, generazione dopo generazione.

 “C’è la Storia con la maiuscola, scriteriata fanciulla che reca festosa lutti e iatture; la storia senza maiuscole del nostro paese, per il quale continuo a nutrire la nostalgia di ciò che avrebbe potuto essere e non è, mischiata a un senso di colpa per una colpa che non mi appartiene; la nostra lingua, che ho cercato di difendere scrivendola. E soprattutto c’è il fenotipo di molti miei personaggi a venire: un personaggio sconfitto ma non rassegnato, ostinato, tenace. Fedele, come ha detto un poeta, “alla parola data all’idea avuta”. L’idea che noi siamo perché ci raccontiamo e che lui potrà esistere soltanto se riuscirà a raccontare la propria storia. “.

Così scrive Tabucchi nella prefazione del romanzo, per spiegarci come mai, giunto ad un certo punto della sua vita, l’ultimo Sesto decide di autoproclamarsi Capitano di sè stesso e di ripercorre a ritroso la rotta del suo piccolo Naviglio, per scrivere quello che è stato, per ricordarlo, per dare un senso compiuto alla propria vita. Poi, finalmente, quando di fronte alla casa paterna riuscirà a sciogliere tutti i nodi della sua esistenza, potrà  spiegare le vele e continuare il suo cammino.

Il piccolo Naviglio, Antonio Tabucchi (Feltrinelli)

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“Stagioni diverse”, di Stephen King: il meglio del Re

  • L’eterna primavera della speranza – Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank, da cui è stato tratto il film “Le Ali della libertà” (Frank Darabont, 1994)
  • L’estate della corruzione – Un ragazzo sveglio, da cui è stato tratto il film “L’Allievo” (Bryan Singer, 1998)
  • L’autunno dell’innocenza – Il corpo (stand by me), da cui è stato tratto il film “Stand by me – Ricordo di un’estate (Rob Reiner, 1986)
  • Una storia d’inverno – Il modo di respirazione

Una volta terminato Stagioni diverse  avevo detto a me stessa che non me la sentivo di scrivere nulla a riguardo, perché avevo la sensazione di essermi completamente svuotata dopo aver letto l’ultima riga del terzo racconto (Stand by me). Mi sembrava che non potessi dire nulla, perché ogni commento sarebbe stato superfluo. In effetti, da questi quattro racconti hanno già tirato fuori tre film di cui due assolutamente straordinari. Cosa posso aggiungere io a tanta magnificenza? Poco. Però qualcosa, alla fine, vorrei dirla. Ci sono libri che possiamo divorare in un giorno intero, ma che dopo poco dimentichiamo perfino di aver letto. Sono fatti per il consumo, per il piacere, per oziare. E poi ci sono “QUEI libri”, quelli che riempi di orecchie per segnare un passo o un pensiero, quelli che una volta terminati ti restano dentro anche se non vuoi, quelli che entrano a far parte di un posto speciale, un “per sempre” tutto tuo che con condivideresti mai con nessuno, nemmeno sotto tortura. L’estate scorsa, sdraiata su uno scoglio, quando ho finito Stand by me fortunatamente avevo gli occhiali da sole, se capite cosa intendo. Il desiderio di diventare grandi e al tempo stesso la paura di crescere, quell’ amicizia così unica e pura come solo a dodici anni puoi sperare di trovare, perché poi puff! sparisce. E se ne va così, senza un reale motivo. Se ci pensiamo bene è vero quanto dice King : “quando si diventa adulti gli amici entrano ed escono dalle nostre vite come camerieri in una sala da pranzo, ma quando hai dodici anni per difendere i tuoi amici faresti a pugni con chiunque.” Anche se sei una femmina.

Le cose più importanti sono le più difficili da dire.
Sono quelle di cui ci si vergogna, perchè le parole le immiseriscono, le parole rimpiccioliscono cose che finchè erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori.
Ma è più che questo, vero?
Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov’è sepolto il vostro cuore segreto, come segnali lasciati per ritrovare un tesoro che i vostri nemici sarebbero felicissimi di portar via.
E potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire perchè vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate.”

Chi non si è rivisto dodicenne insieme a quel gruppo di ragazzini scalcagnati? Non vi viene un po’ di magone, dopo? Io sono stata inghiottita da un’ immensa voragine di nostalgia.

E poi c’è la meravigliosa storia di Andy ed il suo sogno di libertà, un racconto che da solo potrebbe racchiudere tutte le metafore sulla condizione umana, che contiene tutte le domande e le risposte che vi sono mai venute in mente quelle sere un po’ storte in cui, sdraiati sul letto e fissando il soffitto, vi siete chiesti cosa siete venuti a fare in questo mondo. La paura e l’orrore? Mi spiace, qui non c’è nulla di tutto questo. Che poi, finiamola una volta per tutte: dove è l’orrore in King? E’ vero, a volte scrive storie che  fanno tremare le budella, ma non è perché sa descrivere dannatamente bene la paura. O meglio: è molto più di questo. Lui tira fuori la paura che è in noi e ce la sbatte in faccia. E’  quella che ci spaventa a morte, non certo i banali clichè da horror spiccio che spesso utlizza. L’immedesimazione con i suoi personaggi, quasi sempre uomini e donne come tanti, che fanno quotidianamente a cazzotti con un’esitenza amara, ci trascina in una sorta di catarsi emotiva che ci lega indissolubilmente alle pagine.  E questo spiega perché noi che lo leggiamo da sempre  abbiamo paura dei pagliacci anche se abbiamo quarantanni suonati, degli hotel isolati non ne parliamo nemmeno, ed in genere siamo terrorizzati dalle tranquille cittadine della provincia americana…

Stagioni diverse, Stephen King (Sperling & Kupfer)

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E book? NO, grazie!

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Forse è perchè in fondo sono un po’ retrò. Forse è perché se un libro non lo vedo posizionato in casa da qualche parte, mi sembra di non possederlo veramente. Non è solo un fatto sentimentale, una mania  o  il semplice desiderio a farmi sempre optare per questa soluzione. Ho analizzato la questione obiettivamente e sono giunta alla conclusione che le mie motivazioni sono reali, e  fanno tutte assolutamente parte della mia natura. Quindi non c’è modo di farmi cambiare idea. Ma quali sono questi motivi?

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1) Lavoro tutto il giorno al PC. Otto ore (spesso anche di più) allo schermo sono tante, sono troppe, mi stancano incredibilmente gli occhi e la mente al punto che spesso quando torno a casa la sera anche guardare un po’ di TV per me è un supplizio. Non ne posso più di schermi illuminati, voglio la quiete domestica con le sue luci naturali. Quando sono sola  spesso cucino con lo stereo acceso, mentre la minestra sobbolle sfoglio qualche pagina di libro, oppure una rivista. Ma la tv spesso resta spenta, ed ogni giorno che passa diventa sempre di più un oggetto d’arredamento e sempre meno un piacevole passatempo. In queste condizioni psico-fisiche leggere con un supporto digitale è fuori discussione, anche se lo schermo degli e-reader è retro-illuminato e quindi riposante per gli occhi e bla bla bla non mi interessa: mi disturba solo per il fatto che è un aggeggio  che necessita di una presa USB per sopravvivere.
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2) Credo che dopo aver letto il punto precedente si capisca molto bene una cosa: non sono un’appassionata di tecnologia. Diciamo che la utilizzo, la conosco, e soprattutto ne riconosco l’indubbia utilità e i grandi vantaggi, ma ho un pessimo rapporto con tutto quello che diminuisce l’elasticità mentale ed i contatti umani….fosse per me si potrebbe ancora comunicare tranquillamente con il Nokia 6630 e trastullarsi con il Commodore 64, ché tanto a caricare un gioco ci mettevi 57 minuti e nel mentre si potevano fare due chiacchiere con gli amici (i quali grazie a dio erano seduti lì con te sul divano, non erano ectoplasmi fluttuanti in una connessione wifi). Tutto questo smanettamento e  questa smania di essere sempre e comunque connessi con un mondo virtuale che  non esiste (rendiamocene conto per favore) la considero un’involuzione della specie umana. Siamo sempre più tecnologici, e sempre più soli. Le emozioni che proviamo ancora prima di essere elaborate dal nostro cervello vengono fotografate, opportunatamente filtrate e instagrammate. Diamo in pasto la nostra vita intima a internet, come se fosse una medaglia da esibire, e misuriamo la felicità contando i “like”.
Non rifiuto il secolo in cui vivo, non sono una Amish. La verità è che la tecnologia mi annoia a morte. Non capisco cosa ci sia di entusiasmante in un telefono che fa tutto il possibile immaginabile tranne quello per cui è stato progettato, ovvero telefonare. Millemila applicazioni diverse per fare quello che in teoria dovrebbe essere un istinto naturale degli esseri umani: socializzare. Sì, sono retrò. Ed in questo caso lo considero un pregio.

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3) Da qualche tempo colleziono segnalibri. Ogni volta che viaggio o che giro  per la città  e noto in libreria o in qualsiasi altro negozio segnalibri particolari, li compro. Meglio ancora quando mi aggiro tra  bancarelle, mercatini dell’usato e similari: lì si trovano delle vere chicche, spesso riesco a scovare segnalibri fatti a mano davvero originali e leziosissimi. Non si tratta certamente di un collezionismo di valore, ma è quel tipo di chincaglieria che riesce a donare un’aria festosa al  mio angolo dei libri  e che mi piace vedere ogni volta che lo spolvero, che cambio la disposizione degli oggetti, o che semplicemente lo osservo compiaciuta. Ma il momento che mi da più soddisfazione in assoluto è quando mi avvicino al portapenne che li contiene per scegliere quello  che segnerà le pagine della mia nuova lettura. Prima decido  il nuovo romanzo da leggere (altro momento topico, rulli di tamburi, momenti di tensione) e poi scelgo l’oggetto che mi accompagnerà per tutta la lettura. Mi dite come faccio, se leggo un ebook? Come posso utilizzare un anonimo segnalibro elettronico, che nemmeno vedo?
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4) Sono una di quelle lettrici che segnano le frasi, i pensieri, addirittura brani interi del libro che sta leggendo. Una pratica molto diffusa tra i bibliofili, a quanto ne so. Una volta, quando ero una sconsiderata che leggeva prevalentemente edizioni tascabili ed economiche, li segnavo facendo antipatiche orecchie alle pagine, o addirittura sottolineavo a matita i passi che mi interessavano. Poi mi sono evoluta, ho cominciato ad acquistare le prime edizioni e non volendo rovinare nulla del loro contenuto ho iniziato ad utilizzare post it colorati per sottolineare ciò che mi  colpiva di più. Ogni tanto prendo tutti questi post it, trascrivo le righe segnate su un blocco per appunti o sul pc, et voilà. Ho la mia piccola enciclopedia delle frasi. A pensarci bene, è tantissimo tempo che non ricopio più le frasi dai post it, quando mi deciderò a farlo dovrò scrivere per ore. Magnifico!

5) Tornando all’inizio del post: se una cosa non la vedo, non la tocco e non occupa uno spazio fisico  è come se non mi appartenesse. Non la sento mia. La percepisco come effimera, inconsistente, inesistente. E’ lo stesso motivo per cui compro anche la musica che mi piace davvero, spendendo cifre e cifre che non vi dico in cd e vinili: gli mp3 mi servono solo da riempitivo o da sottofondo mentre faccio le pulizie.  I libri e la musica per me non esistono in formato virtuale. Sono come i vestiti: devo aprire l’armadio e godere di quella vista, provare piacere e soddisfazione realizzando che, seppur tra mille difficoltà,  sono riuscita a crearmi una zona di comfort che mi rappresenta in pieno, che mi contraddistingue, e che segna il mio passo in questo mondo. Come direbbe Carrie in Sex and the City :” I miei soldi li voglio là dove posso vederli: tutti appesi nel mio armadio”. Libreria o armadio , che differenza fa?