“Il figlio”, di Philpp Meyer: un’epopea western

Questa è la storia di una famiglia americana del Texas: i McCollough. Una saga lunga sei generazioni raccontata attraverso i diari di tre narratori che rappresentano ognuno un momento temporale differente, così come molto differente sarà la loro voce narrativa. Con l’alternarsi dei racconti di Eli, il capostipite ormai centenario chiamato da tutti “colonnello”, di suo figlio Peter e della pronipote Jeanne Anne percorriamo due secoli di storia di questo paese. Dai primi coloni allevatori di bestiame fino ad arrivare agli eredi di un grande impero petrolifero, i McCollough incarnano la sete di potere e la mancanza di scrupoli morali che in duecento anni di storia hanno distrutto il cuore del Texas. Quella terra un tempo magnifica, popolata da immense mandrie di bisonti, poco alla volta si è trasformata in un paesaggio brullo e lunare, depredato di tutto, anche del suo midollo. Quello che resta delle sterminate praterie in cui i nativi americani cacciavano liberi e fieri non è altro che una terra punteggiata ovunque di torri petrolifere. Un paese costruito con il sangue, conquistato più volte attraverso terribili massacri.

Eli giunse in Texas con la sua famiglia quando ancora quelle terre erano uno spazio vuoto sulle cartine geografiche e rappresentavano l’idea di un’agognata ricchezza ,  una promessa di conquista come un tempo lo fu tutto il West. Viene rapito dalla tribù indiana dei Comanche quando era ancora un bambino: nonostante i principi assunti di una vita integra e pura, spesa nel rispetto della natura e nel senso di appartenenza nei confronti della propria tribù, una volta tornato tra i bianchi non riuscirà a fare altro che adattarsi ai tempi nuovi. Diventerà uno schiavista rigido e un implacabile sterminatore di messicani, anche in cuor suo continuerà a sognare la libertà perduta. Approfittando del caos generatosi con la Guerra civile e delle sua abilità con le armi riuscirà ad arricchirsi in modi non proprio leciti, diventando così il potente e ricchissimo capostipite della dinastia. Le pagine in cui Eli racconta la sua vita tra gli indiani Comanche sono tra le più belle del romanzo, molto suggestive e ricche di fascino. L’educazione indiana si radica così profondamente nel giovane Eli al punto che fino alla fine egli si considererà nonostante tutto un comanche. Ha cacciato con loro, condiviso il loro cibo, ha amato le loro donne, ha vissuto nelle loro terre e lì ha conosciuto gli unici esseri umani di cui gli sia mai  realmente importato nel corso della sua centenaria esistenza.

L’altro narratore è uno dei figli del colonnello, Peter. Peter suo malgrado appartiene alla nuova generazione di petrolieri, ma è molto diverso da tutti gli altri: ha una spiccata integrità morale, mostra insofferenza verso le azioni distruttive e violente della sua famiglia e rinnega ogni forma di ingiustizia . Considera immondo il petrolio, un elemento che a suo avviso ha insudiciato la purezza di un tempo ormai perduto portando con se avidità e brama di potere. Per questi motivi viene considerato un inetto e un debole dalla sua famiglia, viene disprezzato dal padre e dalla moglie che con ogni mezzo ostacoleranno le sue propensioni altruistiche. La famiglia messicana a cui i McCollough hanno sottratto le terre, commettendo un terribile genocidio, sarà fonte di autentico struggimento per lui, che finirà addirittura per innamorarsi dell’ unica giovane sopravvissuta al massacro.
L’ultima voce narrante è quella della pronipote di Eli, J.Anne, erede di un impero petrolifero ormai in declino. Il mondo ancora una volta sta cambiando, è finita l’epoca delle grandi dinastie e la modernità ha preso strade in cui non c’è più posto per l’oligarchia dei magnati. L’oro nero del Kuwait fa una concorrenza spietata al paese e l’impero per cui Jeanne Anne ha sacrificato tutta la sua vita si sta sgretolando. E’ consapevole che con la sua morte finirà la dinastia dei Mc Collough, una fine che simboleggia anche quello che sarà il destino di tutto il Texas . Quella terra, considerata da sempre  una fortezza contro i selvaggi e un baluardo di civiltà in mezzo alle lande deserte regno di scorribande indiane, ora viene percepita come un ostacolo al progresso, perché custode di un ordine vecchio stampo ormai sorpassato e giudicato negativo.


In questa epopea western Meyer punta il dito contro chi “ha fatto l’America” e condanna profondamente i suoi antenati. Non c’è nessuna benevolenza nei confronti di chi ha costruito dal nulla il Texas: vengono raccontate senza filtri tutte le oscenità commesse in nome della brama di conquista. Omicidi, stupri, violenze di ogni genere, ogni cosa si è ottenuta strappandola ad altri in una spirale infinita di sangue e odio. Probabilmente la natura selvaggia che i primi coloni dovettero plasmare per poter sopravvivere ha creato una generazione di uomini in cui la necessità di difendersi è degenerata in una propensione al sopruso.

Non siamo stupidi, sappiamo che la terra non è sempre appartenuta ai Comanche, tanti anni fa era dei Tonkawa, ma siccome ci piaceva, abbiamo ucciso i Tonkawa e ce la siamo presa… e adesso loro sono tawohho e cercano di ucciderci appena ci vedono. Ma i bianchi non ragionano così, preferiscono dimenticare che tutto quello che vogliono appartiene già ad altri. Pensano: Oh, sono bianco, deve essere mio. E ne sono convinti, Tiehteti. Mai visto un bianco che non ti guarda stupito quando lo ammazzi.- Scrollò le spalle. – Se io derubo un altro, so che quella persona cercherà di uccidermi, e so quale canto intonerò quando muoio.
Feci di sì con la testa.
– Sono pazzo a pensarla così?
– No sé nada.
Scosse la testa. – Non sono per niente pazzo. Pazzi sono i bianchi. Vogliono essere ricchi, proprio come noi, ma non ammettono a se stessi che ti arricchisci solo a spese degli altri. Pensano che quando non vedi le persone che stai derubando, o non le conosci o non ti somigliano, non è proprio come rubare.”

 

Philipp Meyer, giudicato in patria tra i migliori scrittori emergenti, è senza dubbio uno straordinario narratore, e “IL FIGLIO” è considerato un capolavoro: il miglior romanzo americano di questo secolo. Non posso che essere d’accordo.

Il figlio – Philipp Meyer (Einaudi)

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La notte di Santa Lucia

Mia nonna Maria, dopo che mia madre e i suoi fratelli si erano finalmente addormentati aspettando invano Santa Lucia fino a tardi, tracciava con un bastone dei solchi nella neve davanti alla porta di casa, che andavano fin dentro al granaio; dopo di che portava via dalla finestra le carote e i biscotti che i suoi figli avevano lasciato per ringraziare Lucia e il suo asinello di essersi ricordati anche della loro umile casa. L’indomani mattina, tre paia d’occhi colmi di stupore e di gioia infantile trovavano sempre fuori dalla porta un giocattolo di legno ciascuno; i segni del carretto che spiccavano nella neve fresca erano la prova tangibile che Santa Lucia era passata davvero con l’asinello di San Pietro, e che si erano rifocillati con il loro cibo.

La felicità, nel 1945, in una casa di mezzadri della Bassa Padana, esisteva davvero.
Come Santa Lucia.

“Un favoloso appartamento a Parigi”, di Michelle Gable: la straordinaria vita di una “demie mondaine”

Quando ho acquistato questo libro ero perfettamente consapevole che non sarebbe stata la lettura della vita. Ci sono una quantità indescrivibile di romanzi che sono ambientati a Parigi: dagli autori all’ ufficio marketing delle case editrici, tutti nell’ ambiente sanno che non esiste lettore al mondo in grado di resistere a qualcosa che richiami alla mente la Ville Lumière, il lungo Senna, una bicicletta con il cestino pieno di baguette e pain au chocolat… Bastano pochi dettagli per vendere l’illusione che la storia, se ambientata a Parigi, acquisti più magia o frivolezza, e che qualsiasi banalità amorosa possa diventare a suo modo più interessante. Il titolo e la copertina civetta hanno gabbato anche me: sono caduta nella trappola con tutte le scarpe, perchè purtroppo all’autrice non è bastato infilare Parigi nel suo romanzo per farmelo apprezzare. Per scrivere di Parigi in modo credibile bisogna averla molto vissuta e amata, bisogna spogliarla dei suoi orpelli e scoprirne i segreti. Perché non è soltanto una città, è uno stile di vita, è una signora vistosa e pretenziosa, chic e decadente al tempo stesso. Michelle Gable, al suo esordio narrativo, cade in diversi clichè che personalmente ritengo banali e noiosi. Quando sembra che finalmente si sia tuffata a capofitto nell’ originalità che può salvarla, ecco che riemerge per poi perdersi nuovamente in qualche stereotipo da romanzo rosa.
L’idea di fondo è buona, motivo per cui non riesco a capire perchè l’autrice non abbia cercato di svilupparla meglio piuttosto che andare avanti con pane amore e fantasia.
Tutto comincia quando April, trentacinquenne antiquaria di New York, viene contattata dalla divisione europea del suo ufficio per fare una stima del mobilio ritrovato in un magnifico appartamento risalente alla Belle Epoque, rimasto chiuso e disabitato per molti anni. April è appena stata tradita dal marito, e dentro di lei regna la confusione e la paura: questa sembrerebbe proprio l’occasione giusta per prendere le distanze dalla sua imperfetta vita newyorkese e cercare di riflettere sull’ accaduto. E così accetta, senza pensarci su due volte. Si catapulta a Parigi e viene letteralmente travolta da ciò che le si paventa davanti agli occhi: il tesoro che quell’ appartamento contiene è di un valore inestimabile, un tripudio di raffinati oggetti dei primi del novecento, un’autentica visone.
In particolare April rimane colpita da un ritratto di Giovanni Boldini, uno degli artisti più importanti del periodo, che rappresenta una donna bellissima ed intrigante, molto probabilmente l’originaria proprietaria dell’immobile. Scoprirà presto che la donna del dipinto è Marthe de Florian, figlia illegittima di Victor Hugo e amante di Boldini, che all’epoca del ritratto era nel pieno fulgore della sua vita di cortigiana, o come si diceva allora “demie mondaine”. Insieme ai suoi oggetti April ritroverà anche i diari della donna, grazie ai quali intraprenderà un’appassionante viaggio nel tempo che le farà dimenticare per un po’ i suoi problemi personali. La vita di Marthe è un guazzabuglio di amori e di ricerca spasmodica di una felicità che fin da bambina le è mancata. Una volta scappata dalla casa di accoglienza in cui ha sempre vissuto, per sfamarsi comincerà a lavorare come barista a Les Folies Bergeres.
Grazie alla sua indiscutibile bellezza riuscirà ad attirare i favori di molti uomini, riccastri dell’alta borghesia che la mantengono in cambio di qualche ora d’amore spensierato. Una situazione questa piuttosto comune negli ambienti modaioli di quegli anni. Il termine “demi mondaine” fu coniato da A. Dumas figlio, che intitolò in questo modo una sua commedia (Le demi-monde) in cui rappresentò per l’appunto un certo tipo di società parigina, della quale facevano parte le donne di bassa estrazione sociale come Marthe. Grazie al loro modo di vivere spregiudicato e impudico queste donne riuscivano ad insinuarsi negli ambienti più raffinati, dove però i loro facili costumi suscitavano scandalo e vergogna tra i benpensanti. Un ambiente corrotto e pieno di amorazzi, che non era né borghesia né vero “gran mondo”: questo, secondo me, era l’argomento cardine su cui doveva svilupparsi il romanzo. Sarebbe stato molto più interessante scoprire qualcosa in più sulla vita parigina di quel periodo anziché condannare il lettore a continui balzi temporali tra i primi del 900 e i giorni nostri, tra gli amori di Marthe e quelli di April.
Le vicende amorose di April ve le risparmio, è scontatissimo il suo fatale incontro con un parigino DOC, un moderno dandy in cui si imbatte per motivi di lavoro, come altrettanto scontato è lo sviluppo della storia tra i due. April ha anche molti problemi irrisolti con la sua famiglia di origine, soprattutto con la madre, per cui la sua fuga da New York diventa un rifugio in cui vorrebbe restare per sempre. La Parigi attuale che viene raccontata è tutta un susseguirsi di cliché e di banalità da turista cui accennavo all’ inizio, alla quale i guai di April fanno da contorno. E la Parigi della Belle Epoque, invece? Perché lasciarla nell’ ombra? L’autrice avrebbe  almeno potuto provare a compiere un bel viaggio nel tempo senza limitarsi a farci intravedere la Ville Lumière a pizzichi e bocconi, come se leggessimo un qualunque libro di storia. E la povera Marthe poi, ne esce davvero male. Attraverso i suoi diari, che all’ interno del libro sono pubblicati come intermezzo tra le vicende contemporanee, impariamo a conoscere la vita di questa ragazza spregiudicata, ma il ritratto che ne esce fuori è quasi ridicolo. I diari così come sono trascritti sono pieni di punti di sospensione, punti esclamativi, frasi come “Oooooh Gesù! Non è fantastico?? Che emozioneeee!!” (e via dicendo…) Quello che ho intuito è che l’autrice avrebbe voluto, attraverso una scrittura frizzante, far emergere la gioia di vivere e la spensierata gioventù di una ragazza che cerca disperatamente di farsi strada in un mondo che sembra non avere  posto per lei, ma non ci riesce granché. Marthe alcune volte risulta di un’ antipatia e di un’ idiozia tale che verrebbe voglia di gettare il libro fuori dalla finestra. Anche quando soffre, è tutto uno sdilinquimento. Insopportabile. Una “Zia Mame” di quart’ ordine, per intenderci.

Immagino che sia ora di accettare la verità: questa è la fine, per noi. Niente più Boldini. Niente più pigre mattinate nel suo studio. Niente più passeggiate serali nel suo cortile o ai Giardini del Lussemburgo. Perlomeno, anche i mal di testa dovuti ai fumi della pittura e gli scoppi di collera artistici smetteranno di far parte della mia routine giornaliera. Un risultato dolce amaro, di sicuro. L’amore che abbiamo costruito nel corso dei mesi è svanito, come se non ci fosse mai stato.”

Personalmente  avrei voluto leggere qualcosa di più riguardo quest’epoca favolosa in cui il nuovo secolo appena iniziato rappresentava una promessa di felicità e di benessere, avrei voluto assaporare attraverso le pagine quell’ottimismo diffuso che ha reso possibile invenzioni straordinarie come la radio, l’automobile, il cinema, l’illuminazione elettrica. Un periodo storico felice in cui l’ Europa era in pace da trent’ anni, e la vita veniva celebrata in ogni sua espressione: caffè gremiti di avventori, locali notturni, spettacoli teatrali, manifesti pubblicitari, negozi eleganti. Le persone avevano voglia di stare bene, di uscire la sera, di divertirsi. Sarebbe stato affascinante compiere questo viaggio nel passato attraverso gli occhi di Marthe, se solo l’autrice fosse riuscita a renderle giustizia
Come avrebbe scritto la mia professoressa di italiano alla fine di un tema:
“Buona l’idea, insufficiente lo svolgimento.”
Riprovaci Michelle!

Un favoloso appartamento a Parigi – Michelle Gable (Newton Compton)

Le librerie NewYorkesi che hanno fatto la storia del cinema

Le librerie sono luoghi che hanno un fascino irresistibile, noi lo sappiamo bene. Quando il sabato pomeriggio varco la soglia delle mia libreria preferita sono in grado di trascorrere  un’ora intera a curiosare tra i suoi scaffali: perdo letteralmente  la cognizione del tempo, come se fossi sospesa dalla realtà; la mente si svuota, mi rilasso, e provo un sottile piacere difficile da spiegare. Sono sicura di rilasciare endorfine in quel momento, proprio come dopo una lunga corsa. Vi ricordate del film “Colazione da Tiffany”, con Audrey Hepburn e George Peppard? Holly Golightly adorava  aggirarsi con caffè e brioche, alle primi luci del mattino, davanti alla vetrina di Tiffany:  fissava  imbambolata quella magnifica esposizione di gioielli convinta che in quel posto, avvolto da tanta magica bellezza, nulla di brutto le sarebbe potuto accadere. Era il suo antidoto contro la malinconia.

Io vado pazza per Tiffany: specie in quei giorni in cui mi prendono le paturnie. Le paturnie sono orribili: è come un’improvvisa paura di non si sa che cosa”.

Ecco. Le librerie sono la nostra vetrina di Tiffany. Passeggiare su e giù tra le ultime novità, i bestsellers e quell’angolo dimenticato in cui finiscono i libri che nessuno compra mai, è un antidepressivo naturale per quelle giornate un po’ storte e il regalo giusto da farci quando sentiamo che abbiamo assolutamente bisogno di prenderci un po’ di tempo tutto per noi. Siamo noi quelle strani? Io penso di no. Penso invece che sia una terapia largamente riconosciuta: si da  il caso infatti che il cinema spesso abbia preso in prestito questi luoghi al nostro mondo trasformandole nelle locations  ideali per incontri inaspettati e romantici, o per ambientarvi le scene “clou” della storia. I libri sono magia. Chi legge lo sa.

Questo articolo di Cristina Prasso è comparso diverso tempo fa sul magazine on line “IL LIBRAIO”: è un elenco delle librerie newyorkesi che hanno fatto la storia del cinema, rimanendo impresse nella memoria collettiva di ognuno di noi. Dai film di Woody Allen a quelli di Roman Polansky, da “C’è Posta per te” a “Harry ti presento Sally”, ecco le  indimenticabili cine-librerie, con una serie di curiosità in proposito tutte da scoprire:


1) Embryo Concepts

 Appare in: Cenerentola a Parigi (Funny Face, 1957) di Stanley Donen

Commessa: Jo Stockton (Audrey Hepburn)

Frequentata da: Dick Avery (Fred Astaire)

Esiste davvero? No. La libreria fu interamente ricostruita nei Paramount Studios a Los Angeles. Le sequenze parigine furono invece girate nella capitale francese e la troupe dovette affrontare non poche difficoltà: dalla pioggia continua (e infatti la sceneggiatura venne modificata in questo senso), al fatto che Hepburn avesse imposto di girare lì esclusivamente nel periodo in cui anche suo marito Mel Ferrer si trovava a Parigi (come interprete del film di Jean Renoir Eliana e gli uomini).



2) Gotham Book Mart

Appare in: Rosemary’s Baby (1957) di Roman Polanski

Frequentata da: Rosemary Woodhouse (Mia Farrow)

È il luogo in cui: Rosemary va a cercare qualche libro sulla stregoneria e si convince che il marito(Guy, interpretato da John Cassavetes) sia coinvolto nella cospirazione “diabolica” dei loro vicini di casa, i coniugi Minnie e Roman Castevet (Ruth Gordon e Sidney Blackmer).

Esiste davvero? Sì, anche se è stata chiusa nel 2007. Attiva dal1920 e scelta da Polanski perché meravigliosamente caotica e sottilmente inquietante, questa libreria ‒ su tre piani ‒ è stata frequentata da quasi tutti i più grandi scrittori americani, da John Dos Passos ad Arthur Miller, da Saul Bellow a J. D. Salingere ad Allen Ginsberg. I duecentomila oggetti che ospitava – non solo libri ma anche stampe, disegni e fotografie – sono stati donati all’ University of Pennsylvania dall’anonimo acquirente che li aveva comprati all’asta dopo la chiusura.



3) The shop around the corner / Fox and Sons Book 

Appaiono in: C’è posta per te (You’ve Got Mail,1998) di Nora Ephron

Proprietari: Kathleen Kelly (Meg Ryan)/ Joe Fox (Tom Hanks)

Sono i luoghi in cui: si scontrano, idealmente, due diversi modi di pensare la libreria e i libri. Mentre Kathleen punta tutto sul calore e sulla competenza, Joe agisce in modo sfacciatamente “industriale”. Ignari delle loro rispettive identità, i due cominciano una fitta (e tenera) corrispondenza per e-mail e scopriranno di essere acerrimi nemici quando (forse) è troppo tardi…

Esistono davvero? No. Il negozio di Kathleen, The Shop Around The Corner (in omaggio al bellissimo film di Ernst Lubitsch di cui C’è posta per te è il remake), era il Maya Schaper’s Cheese and Antiques Shop, un negozio così amato da Nora Ephron da spingerla a trasformarlo nella libreria del film. Così Ephron mandò la proprietaria in vacanza (pagata), lo modificò e, a riprese concluse, lo riallestì esattamente come prima. Oggi è una lavanderia, La Mode Cleaners. Il palazzo che ospita “Fox and Sons Books” esiste ancora, ma ovviamente non ha più nulla della mega libreria di Joe.


4) Shakespeare & Co.

Appaiono in: Harry ti presento Sally (When Harry Met Sally, 1989) di Rob Reiner

È il luogo in cui: «C’è uno che ti guarda dagli scaffali di psicologia», sussurra Marie (Carrie Fisher) a Sally, riferendosi a Harry che sta sbirciando da sopra un libro. Così, dopo cinque anni, Harry e Sally si ritrovano. Entrambi single, entrambi non ancora pronti ad ammettere…la verità.

Esiste davvero? Sì, sebbene sia stata chiusa nel 1996, dopo una strenua lotta durata tre anni contro il “colosso” Barnes & Noble, che aveva aperto una sua libreria a un isolato di distanza (e fu proprio questa lotta che ispirò la sceneggiatrice del film, Nora Ephron, a scrivere C’è posta per te). A New York rimane comunque ancora attiva la Shakespeare and Co. di Lexington Avenue.



5) Pageant Book & Print Shop

Appaiono in: Hannah e le sue sorelle (Hannah and her Sisters, 1986) di Woody Allen

Frequentato da: Lee (Barbara Hershey), Elliot (Michael Caine)

È il luogo in cui: s’incontrano “per caso” Lee ed Elliot, maritodi Hannah (Mia Farrow) e sorella di Lee; grazie anche a un librodi poesie di E.E. Cummings, diventano amanti.

Esiste davvero? Sì, ma nel 1999 ha dovuto chiudere per via dell’impennata degli affitti nella zona. È diventato quindi il Pageant Bar and Grill e adesso è il Central Bar. Però la libreria continua la sua attività online.


Non me ne voglia la brava giornalista, però nell’articolo c’è una grave dimenticanza… E la Libreria Rizzoli? Quella dove si incontrano Molly e Frank, ovvero Robert de Niro e Meryl Streep nel film “Innamorarsi”? Avevo trovato un articolo in proposito tempo addietro, perché questa libreria ha fatto davvero la storia non solo del cinema, ma anche di New York stessa (oltre ad essere un importante simbolo dell’eccellenza italiana). Aggiungo subito due appunti!

 Appare in : Innamorarsi (Falling in love, 1984) diretto da Ulu Grosbard

Frequentata da : Molly (Meryl Streep) e Frank (Robert de Niro)

E’ il luogo in cui: accidentalmente, scontrandosi, Molly e Frank si scambiano i libri che avrebbero dovuto regalare ai rispettivi coniugi. A distanza di tre mesi si incontrano nuovamente in treno. Finiscono col darsi appuntamento sempre più spesso, e durante i loro incontri, nei quali si raccontano le rispettive vite, scoprono di stare bene l’uno in compagnia dell’altro.

Mai sottovalutare il potere della cultura e delle tradizioni. E dei libri!

 

 

“Un raggio di sole tra le nuvole”, di Sarah McCoy: il coraggio di cambiare ( e di vivere)

Questa è una storia semplice, una storia d’amore. Un amore  in senso lato, non l’amore che siamo abituate a trovare nei tipici romanzi “al femminile”. E’ esattamente quel tipo di storia che cerco quando ho voglia di svagare un po’ la mente da cose più impegnative: qualcosa di piacevole, di caldo e avvolgente come una coperta, ma che non abbia nulla che fare con i sospiri tra amanti. Avevo sentito parlare bene dell’ultimo lavoro di Sarah McCoy, poi quando sono andata in libreria l’ho trovato in quell’angolo dove finiscono i cosiddetti “remainders” e così ho capito che era la scelta giusta. Era lì che mi aspettava, unica copia presente. Questa volta il mio fiuto di lettrice non mi ha tradita: è stata una lettura molto piacevole, una compagnia davvero perfetta per quest’inizio d’inverno. Non che il tema affrontato sia allegro, anzi tutt’altro. Però, come dice il titolo, un filo rosso di speranza lega tutti gli accadimenti, ed è quello che tira su il cuore, il buono che viene fuori dalla malinconia. Il romanzo scorre su due binari che viaggiano paralleli, ma sue due linee temporali differenti: un binario attraversa la vita di Eden, nel 2014, e l’altro attraversa la vita di Sarah, durante la guerra di secessione americana ( e quindi tra il 1861 e il 1865). Ho usato questa similitudine dei binari paralleli perché, pur vivendo in due epoche così distanti, le due donne sono costrette a vivere lo stesso identico dolore, un dolore che per una donna sarà sempre il più crudele: l’impossibilità di avere figli. Non importa che età si abbia, se si vive in un’epoca in cui le donne possono scegliere liberamente come realizzarsi o in una in cui invece essere sposa e madre è l’unica prospettiva possibile: la consapevolezza del proprio grembo freddo, incapace di ospitare la vita, è lacerante per chiunque desideri una famiglia. E’ così per Eden, una giovane donna che si è da poco trasferita con il marito a New Charlestown, West Virginia. Ormai, dopo innumerevoli tentativi falliti, Eden è certa che la loro bella casa rimarrà per sempre un nido vuoto. Un’ossessione struggente che allarga giorno dopo giorno una voragine dentro di lei, un buco nero che sta risucchiando nell’oscurità tutto ciò che di bello era riuscita a costruire con suo marito.
Jack era seduto per terra, con la testa appoggiata al muro e la bocca aperta. Lei gli aveva posato una mano sul mento per svegliarlo, e lui si era rialzato con movimenti assonnati. «Il bambino non c’è più. Non parliamone.»
Lui aveva annuito e aveva teso le braccia per stringerla a sé, ma lei era arretrata di due passi calpestando coi piedi nudi le goccioline sul pavimento. Il dolore era troppo acuto, la compassione di Jack era come acqua ossigenata su una ferita aperta: per quanto potesse favorire la guarigione, Eden non avrebbe retto.
Il suo matrimonio, un tempo fonte di sicurezza, di protezione ed anche di orgoglio, ora è una zattera galleggiante lasciata andare alla deriva. Il simbolo di un terribile naufragio. Lei e suo marito Jack erano l’emblema della perfetta felicità, una coppia nel suo significato più pieno, al tempo stesso amici, complici, amanti. Una squadra affiatata nel lavoro così come tra le mura di casa .Noi facciamo la conoscenza di Eden e Jack quando sono già diventati l’ombra di quelli che erano, schiacciati da questo fardello silenzioso, da questa assenza tremenda, sempre più soli nella loro incomunicabilità. Una sera Jack rientra a casa con in braccio un bassotto, convinto che l’accudimento di un animale avrebbe risvegliato la moglie dal suo torpore: un momento di festa che si trasforma immediatamente in un disastro. Eden lo prende come un insulto: dato che non puoi fare la madre, occupati di un cane! Ormai il baratro in cui lei stessa si è gettata è sempre più profondo. Nel pozzo nero in cui si è imprigionata anche un innocente gesto di amore del marito diventa l’ennesimo coltello che squarcia ferite mai rimarginate.
Quello che Eden non sa è che il cagnolino rappresenterà invece l’inizio della sua risalita, della sua apertura verso una vita contro cui non aveva fatto altro che ergere barricate di silenzi e di rifiuti. Non si sottrae alla richieste di attenzione del cucciolo, ma comincia ad interessarsi a lui ed ai suoi bisogni. “Cricket” è il primo raggio di sole che fa capolino tra le nuvole, a cui ne seguiranno piano piano tanti altri. Dapprima impercettibili, poi sempre più chiari e accolti con un crescente entusiasmo. Di lì a poco infatti, proprio grazie alla presenza del bassotto, entrerà nella sua vita anche una ragazzina esuberante e molto sveglia, Cleo: sarà la dog sitter di Cricket e diventerà per Eden un’amica speciale. Cleo, con la sua allegria e la sua vitalità ( nonostante viva una condizione tutt’ altro che felice) le farà ricordare quanto lei possa ancora avere il suo posto nel mondo, anche se sarà diverso da quello che si era immaginata.

Ritroverà la voglia di mettersi in gioco buttandosi a capofitto in progetti mai realizzati prima, diventando la miglior espressione di se stessa. Nessuna donna nasce con un’etichetta appiccicata sulla schiena, MADRE – MOGLIE – DONNA IN CARRIERA – IMPIEGATA ALLE POSTE: abbiamo tutte personalità brillanti e un bagaglio di possibilità infinite. Basterebbe ricordarselo di tanto in tanto, anziché condannarci senza appello perché non siamo state abbastanza brave da incasellarci in qualche categoria sociale. Basterebbe alzare le chiappe, smettere di lamentarci e provare a guardare oltre.

Ma non sono solo Cricket e Cleo a fendere le spesse nubi della vita di Eden, ma anche un’altra donna, la cui storia viene alla luce grazie ad uno strano ritrovamento. Un giorno, mentre sistema il ripostiglio di casa, Eden trova un oggetto molto particolare: la testa di una bambola di porcellana. E’ questo il legame con il passato, il punto in cui i due binari si incrociano. Quella bambola risale alla guerra di secessione americana, e scoprire il motivo per cui si trova proprio lì, nella sua casa, sarà fonte di eccitazione per tutti e sarà l’inizio di un viaggio appassionante attraverso i secoli. Cleo sarà determinante per le indagini: oltre all’ aiuto che darà ad Eden con le sue spiccate intuizioni, riuscirà a coinvolgere anche la sua amica libraia, antiquaria del posto, e proprio grazie alla preziosa collaborazione di questa donna verrà a galla una storia sconosciuta, che giaceva sepolta da oltre 150 anni nella cantina di quella dimora.
Noi lettori incontriamo Sarah fin dalle prime righe, perché l’autrice alterna i capitoli saltando da un’epoca all’ altra. La parte di romanzo dedicata a Sarah è molto ben fatta, la ricostruzione storica è precisa ed accurata, e si basa su fatti tristemente noti. Sarah E’ una delle figlie del capitano John Brown, il più famoso bianco dedito alla causa dell’antischiavismo, in favore della quale non si fece scrupoli ad usare anche le armi.
Il capitano Brown venne infatti catturato dopo un assalto fallito ad un’armeria federale con cui intendeva innescare una rivolta, ed in seguito condannato a morte per alto tradimento ed impiccato. Sarah, coraggiosa e indomita come il padre, si dedicherà anima e corpo alla causa abolizionista, ma non prima di aver superato un grande dolore. Lo stesso di Eden, lo stesso di migliaia di donne. Dovrà compiere una scelta forte, lucida, ma piena di sentimento e di passione. Ma anche, purtroppo, figlia del suo tempo. Tutto il suo amore inespresso verrà riversato con fervore nella lotta per ridare la libertà agli schiavi: una donna non poteva arruolarsi e combattere, certo, ma grazie alle sue abilità artistiche riuscì a ritagliarsi l’importante ruolo di disegnatrice di mappe in codice. Sicuramente un fatto inusuale per un’epoca in cui le donne non avevano posizioni di nessun genere all’ interno della società, ma la caparbietà e lo spirito battagliero di Sarah non erano facilmente relegabili in un ruolo che qualcuno aveva già deciso per lei.

Eden e Sarah, due donne separate da quasi due secoli di storia americana ma unite dallo stesso destino, compiono le stesse scelte, calcano lo stesso percorso: la rabbia, l’accettazione , la rinuncia ad una parte di sé, ed infine la scoperta che esiste sempre una strada percorribile per dare un significato alla propria vita, basta avere coraggio ed osare. Basta alzare la testa e non credere a chi ci ricorda che abbiamo già tirato i nostri dadi, e abbiamo perso.

In chiusura del libro vi sono alcune interessanti note dell’autrice che ha raccontato come e dove ha trovato le fonti storiche per ricostruire la vicenda di Sarah Brown, una donna che è stata una specie di eroina e che invece è finita silenziosamente nel dimenticatoio. Leggere sarà anche un passatempo banale, però è molto gratificante quando grazie ad esso si scoprono cose totalmente nuove e sconosciute, che nessun libro di storia ci racconterà mai.

Un raggio di sole tra le nuvole – Sarah McCoy (Nord)

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