La sanguinaria caccia alle streghe di Triora, tra storia e leggenda.

Oggi Triora è un borgo medievale molto caratteristico, dal fascino indiscutibile. Arroccato su una collina, come la maggior parte dei paesi dell’entroterra ligure, è un susseguirsi di stradine acciottolate che si perdono tra le costruzioni medievali, si avvitano su se stesse per ricongiungersi infine alla piazza principale del paese: un crocevia antico sospeso tra realtà e leggenda. Ci sono stata molte volte, affascinata da questi luoghi così ricchi di storia. Una storia purtroppo macchiata di sangue, che ha visto il paese protagonista di uno dei più terribili e crudeli episodi della vicenda  tristemente nota come  “caccia alle streghe”. La profonda ignoranza in cui l’umanità intera era sprofondata nei secoli bui del medioevo aveva piantato radici talmente profonde che la paura si era tramutata in immotivata ferocia nei confronti di chi, con la propria personalità o peggio ancora con il proprio mestiere, appariva diverso dalla gente comune. Le levatrici ad esempio, che sapevano utilizzare molto bene le erbe curative, ero guardate  con sospetto.

Le donne diventarono il primo bersaglio contro cui si scagliò l’ ignoranza delle masse: avere i capelli rossi, splendido dono di madre natura, bastava per essere considerate concubine del maligno. La sensualità, la procacità, la bellezza esuberante destavano terrore perché capaci di stordire; un uomo che subiva la malìa di una donna era senza ombra di dubbio vittima di un maleficio,   l’idea che potesse essere  una semplice conseguenza dell’ attrazione sessuale non era accettabile. Il ciclo mestruale era visto come qualcosa di orribile e disgustoso di cui vergognarsi profondamente, da cui bisognava purificarsi. Coincidente con quello lunare, anch’esso di 28 giorni, portava con sé mistero e diffidenza. La capacità di dare la vita era una prerogativa che poteva mettere in discussione la predominanza del genere maschile ed  inoltre,   proprio in virtù di questa possibilità, le donne erano le uniche creature in grado di generare il figlio di Satana. Tutto questo generò negli uomini un terrore persecutorio, che sfociò  in una serie abominevole di arresti, torture e condanne al rogo. Le donne di Triora, così dice la leggenda, si incontravano con il demonio in un posto chiamato “La Cabotina”,un piccolo quartiere con uno spiazzo che si affaccia a precipizio sulla vallata, fuori dalle mura del paese. Si narra che durante le notti di plenilunio le amanti di Satana si scatenavano in balli osceni e si accoppiavano con il loro signore dando vita ad orge sfrenate.

Oggi tutto questo sembra una storiella da quattro soldi, che non spaventa più nemmeno i bambini. Il paese stesso gioca molto sul mito delle Streghe, organizzando veglie di Halloween in tema e festival vari della stregoneria per richiamare turisti curiosi, come è normale che sia. Resta il fatto che la “caccia alle streghe” a Triora sia realmente esistita, e sia diventata famosa per l’estrema crudeltà dei fatti.


Molti storici hanno studiato le vicende di Triora, mettendo insieme i pezzi di una storia che a distanza di secoli mette ancora i brividi, ma non per la paura di qualcosa di sconosciuto che sconfina nella leggenda, come le storie di fantasmi e lupi mannari. Ma perché è stato un massacro spietato, reale, terribile. Perché erano, in fondo, solo donne.


Donne che, magari, con la loro conoscenza o la loro bellezza potevano minacciare la piccolezza di uomini codardi. Donne che sono diventate il capro espiatorio di un potere corrotto. Saranno anche passati i secoli, la pubblica gogna non esiste più, l’Inquisizione e le torture sono solo un brutto capitolo della storia dell’uomo… ma possiamo affermare con serenità che oggi noi donne non ne paghiamo più lo scotto? L’intelligenza, la cultura, l’indipendenza economica e la bellezza di un donna purtroppo sono ancora in grado di scatenare la furia omicida. Basta guardare ogni giorno il telegiornale per rendersi conto che facciamo ancora tanta, troppa paura. Una paura che genera follia negli animi più miserabili. Ma questa è un’altra storia. Questa invece è la storia delle streghe di Triora, che stasera danzeranno alla Cabotina facendosi beffe degli uomini che hanno creduto di sconfiggerle, perché non ci sono mai riusciti davvero. E la pioggia non disturberà la loro festa notturna.

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Curiosità e misteri

Il nome Triora deriverebbe dal latino “tria ora”, cioè “tre bocche”, esattamente come le tre bocche di cerbero, il cane infernale posto a guardia degli inferi e raffigurato sullo stemma comunale di Triora.
Secondo la tradizione la chiesa della Collegiata sorgerebbe su un precedente “fanum” pagano.
Nei pressi di Triora, al passo della Mezzaluna, si erge un antichissimo “menhir”, testimonianza di precedenti culti pagani.
Nella chiesa romanica di S. Bernardino è visibile un affresco di Giovanni Canavesio raffigurante un Giudizio Universale con tanto di streghe ed eretici fatti a pezzi e bambini, morti senza ricevere il battesimo, posti sotto le gigantesche ali da pipistrello di un demone.

PER APPROFONDIRE:
IPPOLITO EDMONDO FERRARIO, giornalista e scrittore da sempre interessanto al borgo di Triora (numerose ed accurate le sue pubblicazioni in merito, al punto da ricevere la cittadinanza onoararia del pese),  così ci racconta:

“Sul finire dell’estate del 1587 a Triora, millenario borgo di montagna del Ponente ligure, tirava una brutta aria; da circa due anni la gente non aveva più di che sfamarsi e nel giro di pochi giorni alcune donne che abitavano alla periferia del paese furono ritenute responsabili di questa presunta carestia. L’accusa? Essere streghe, o meglio bagiué, secondo il dialetto locale. Queste sono le premesse con le quali ha inizio uno dei più feroci processi alle streghe in Italia, per nulla inferiore in quanto a drammaticità a quelli di Loudun e di Salem, rispettivamente in Francia e in America. All’epoca dei fatti, Triora era un borgo fortificato al centro di intensi traffici commerciali tra il Piemonte, la costa e la vicinissima Francia. Politicamente dipendeva da Genova, di cui era podesteria, difesa da ben cinque fortezze al cui interno era di stanza una guarnigione di soldati della Repubblica.
Nell’ottobre del 1587 il Parlamento locale, composto per lo più da persone rozze e ignoranti, con il beneplacito del Consiglio degli Anziani e del Podestà, stanziò cinquecento scudi per imbastire un processo; una cifra enorme in relazione alla condizione economica del borgo stesso. L’autorità ecclesiastica non tardò a intervenire; giunsero infatti il vicario dell’Inquisitore di Genova e il vicario dell’Inquisitore di Albenga, Gerolamo Del Pozzo. La prassi del tempo consisteva nel celebrare messa nella chiesa parrocchiale, invitando il popolo alla delazione.
Il processo di Triora non stupisce inizialmente per il suo corso che ricalca nella sostanza molti altri con tutte le ripercussioni del caso. Si confiscarono alcune abitazioni private da adibire a prigione e non tardarono ad arrivare le prime vittime della giustizia: tra le prime venti donne incarcerate morirono la sessantenne Isotta Stella e un’altra donna, quest’ultima nel tentativo di calarsi da una delle finestre del carcere. Di streghe morte la storia ne è piena, ma ciò che lascia perplessi è l’evolversi della situazione.
Il Consiglio degli Anziani, essenzialmente composto dai proprietari terrieri, mostrò le sue perplessità verso il processo quando le prime “matrone” di Triora furono incarcerate. La delazione, gli odi e le invidie personali stavano dilagando a tal punto da mettere sullo stesso piano, di fronte alla macchina della giustizia, le nobildonne come le prostitute e le emarginate che “sopravvivevano” alla Cabotina, un quartiere composto da misere abitazioni, vista precipizio, che si ergeva all’esterno delle mura del paese.
I due inquisitori non riuscirono a concludere il processo causa il repentino allargamento delle accuse a tutto il tessuto sociale.
Il dramma di Triora era solo all’inizio. Il governo di Genova intervenne personalmente nella questione. Il vescovo di Albenga, Mons. Luca Fieschi chiese spiegazioni al Del Pozzo sul suo operato attraverso una missiva. Tra i due iniziò un breve rapporto epistolare che non cambiò la sorte delle donne incarcerate ancora in attesa di giudizio.
Il Del Pozzo sosteneva la presenza del Maligno come elemento portante della sua difesa; contemporaneamente anche il Consiglio degli Anziani ritirò le proprie perplessità precedentemente espresse riaffermando il proprio appoggio all’operato degli inquisitori. Nel frattempo però il processo subì un rallentamento; nel gennaio del 1588 i due inquisitori partirono da Triora, lasciando dietro di sé una situazione drammatica. Da qui in poi è un susseguirsi di lettere al governo genovese e richieste di aiuto che cadono inascoltate.Il Parlamento locale, iniziale fautore del processo, mutò rapidamente opinione, incaricando il notaio triorese Basadonne di scrivere a Genova per chiedere una rapida revisione del processo. Si attese fino a maggio per ottenere la visita inconcludente del padre inquisitore Alberto Fragarolo che dopo qualche interrogatorio lasciò Triora senza risolvere la situazione, esattamente come i suoi predecessori.
Nel mese di giugno arrivò l’autentica svolta della vicenda, quella che nessuno però si sarebbe augurato. Il giorno 8 giunse a Triora, mandato da Genova, il commissario speciale Giulio Scribani, già Pretore a San Romolo, paese dell’entroterra di Sanremo. Un mese dopo, in una sua lettera a Genova, lo Scribani affermava in maniera inquietante di essere giunto a Triora “per smorbar di quella diabolica setta questo paese che resta quasi per tal conto tutto desolato”. Nel frattempo avvenne un avvicendamento di podestà; Stefano Carrega lasciò il posto a Gio Batta Lerice. Lo Scribani per prima cosa inviò nelle carceri genovesi tredici donne e il solo uomo che giacevano nelle prigioni trioresi al suo arrivo. Da qui in poi sarà un escalation di arresti e torture.
Nei mesi successivi lo Scribani imperversò in tutta la zona aprendo nuovi casi e facendo morire donne innocenti. Per l’ennesima volta si verificò un colpo di scena: di fronte alla richiesta del via libera per decine di condanne a morte, il Doge iniziò a nutrire i primi dubbi sull’operato del commissario. Perplessità che sfociarono in una richiesta allo Scribani di attenersi alle confessioni e soprattutto di provarne la veridicità con riscontri reali e plausibili. Il richiamo cadde nel vuoto.
Lo Scribani era ormai un cane sciolto. Genova affidò la revisione del processo all’uditore e consultore Serafino Petrozzi che sottolineò come lo Scribani si fosse interessato a reati connessi alla stregoneria, materia di esclusiva competenza dell’Inquisizione. Ma anche il Petrozzi concluse la sua relazione dicendo che la questione era troppo delicata e la possibilità di commettere errori elevata. In pratica se ne lavò le mani. Lo Scribani nel frattempo continuava a incarcerare donne e a difendersi dalla critiche con numerose lettere: a Triora e nei borghi confinanti come Andagna, Bajardo, Montalto Ligure si registrarono le morti di tante innocenti. Prima di vedere uno spiraglio si dovranno attendere mesi. Lo Scribani per il suo scellerato operato subì la scomunica da parte dell’Inquisizione stessa, rimessagli poi, per intervento del Doge, il 15 agosto 1589.
Il 28 aprile 1589 fu la Chiesa a dare un segnale di speranza concreto: i cardinale Sauli e quello di Santa Severina, fecero giungere l’ordine di chiudere i processi e per la prima volta, come si legge nella loro missiva, le streghe di Triora vennero chiamate “sudditi della Signoria” restituendo, almeno a parole, dignità alle innocenti. Nel frattempo altre due donne passarono a miglior vita; il 27 maggio toccò al Doge lamentarsi con il Cardinale Sauli del fatto che ancora non si fosse fatto niente. Solo il 28 agosto il Cardinale di Santa Caterina confermò la volontà dell’Inquisizione di chiudere i processi. E così la parola fine fu posta a sigillo dell’intera vicenda.
Che fine fecero le streghe di Triora? Morirono in carcere o furono liberate? Da qui in poi il loro triste destino sprofonda nell’oblio del tempo per la mancanza di documenti. Alcuni storici sostengono che le donne rinchiuse a Genova furono liberate: la prova sarebbe leggibile nei registri parrocchiali di San Martino di Struppa, paese della Val Bisagno, a quel tempo colonia penale di Genova. Dal 1600 in poi compare il cognome Bazoro e Bazura che richiama inequivocabilmente bagiua, termine con il quale sono chiamate le streghe a Triora. Su quelle incarcerate nel piccolo paese ligure si sa ben poco.
Al di là della drammaticità della vicenda le ipotesi più recenti sul processo hanno portato all’esame di alcune grandi anomalie che farebbero pensare che dietro all’accusa di stregoneria, il grande processo servì a nascondere situazioni al limite della legalità che vedevano il coinvolgimento delle stesse famiglie nobili di Triora. Un’oscura trama di rapporti politici, economici e interessi personali fa da sfondo ad una delle pagine più nere della nostra storia.”

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“L’incubo di Hill House”, di Shirley Jackson: una storia da brivido

Shirley Jackson, scrittrice  e giornalista statunitense del secolo scorso, da qualche anno sta vivendo una nuova popolarità. La sua produzione letteraria si concentra prevalentemente in racconti brevi, per i quali ottenne  diversi riconoscimenti tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta. I suoi romanzi di maggior successo, Abbiamo sempre vissuto nel castello (1962) e L’incubo di Hill House (1959), la consacrarono alla fama definitiva in patria. Rimase però sempre una scrittrice d’èlite, riservata ad un pubblico raffinato, fino a quando nel 2007 viene istituito a suo nome un prestigioso premio letterario che diffonde la sua fama a macchia d’olio. Il Shirley Jackson Award” è il  premio annuale per la letteratura horror, dark e di suspense psicologico che negli Stati Uniti è diventata negli anni una vera e propria istituzione. Ma è il contributo di Stephen King, suo profondo estimatore, ad essere decisivo per l’incremento della  popolarità della scrittrice.  Quello che negli anni sessanta rimase un fenomeno di nicchia, riservato ai connazionali appassionati del genere gotico/psicologico, grazie alle dichiarazioni di King travalica l’oceano accendendo la curiosità dei suoi innumerevoli lettori. L’autorevolezza di uno scrittore di culto come Stephen King segna inevitabilmente un punto di svolta nella fama postuma della Jackson:  in Italia la casa editrice Adelphi comincia nel 2012 a dare alle stampe le sue opere più celebri, le quali ottengono rapidamente  un ampio consenso. Stephen King  ha dichiarato di essere stato ispirato dai racconti della Jackson in più di un’occasione,   affermazione che trova facile riscontro in molti dei suoi romanzi più famosi. Mi viene in mente, uno su tutti, “Shining” : claustrofobico ed angosciante, ha molti tratti in comune con “L’incubo di Hill House”.

Prima di leggere il romanzo è bene conoscere almeno sommariamente la vita dell’autrice, perché le sue vicende personali influenzarono enormemente i suoi scritti. Shirley Jackson fu tragicamente segnata da traumi infantili importanti, che la resero psicologicamente fragile ed inquieta. Finì tra le braccia di un marito sbagliato, al quale si aggrappò in cerca pace e protezione, ottenendo invece in cambio solo altre umiliazioni. La supportò nel suo lavoro di giornalista e scrittrice perché aveva fiducia nelle sue capacità, ma l’infedeltà continua di lui insieme agli irrisolti problemi con la madre la portarono ad abusare di tranquillanti, anfetamine ed  alcol. Un percorso difficile, lastricato di paure e fobie che sfociarono infine in un brutto esaurimento nervoso, dal quale si riprese lentamente. Non fece però in tempo a godersi la ritrovata libertà mentale, perché un infarto la colse nella notte a soli 48 anni. Shirley Jackson fu una donna molto sfortunata, vittima di abusi psicologici che costituirono l’imprinting di tutte le sue opere: il rifiuto della madre, il maschilismo retrogrado del marito, un ruolo di moglie e di madre dal quale si sentiva schiacciata crearono dentro di lei una prigione mentale ed una condizione di sudditanza psicologica che non le permise mai di sentirsi realizzata ed appagata,  nemmeno dal proprio lavoro.

La protagonista di questo romanzo è Eleanor Vance, una ragazza  con alle spalle un passato infelice, permeato di solitudine e dolore. Per anni costretta ad accudire la madre malata, una volta morta la genitrice decide di dare una svolta alla sua esistenza rispondendo all’annuncio del professor John Montague. Il professore, laureato in antropologia e appassionato studioso di fenomeni paranormali, decide di prendere in affitto l’antica ed isolata dimora di Hill House perché infestata da strane presenze. Il suo progetto di ricerca prevede l’ausilio di alcuni volontari dotati di particolari abilità psichiche, ma il gruppo iniziale composto da  cinque prescelti si riduce a tre: Luke Sanderson, nipote dell’attuale proprietaria della villa, l’artista Theodora ed infine Eleonor, entrambe con  esperienze paranormali alle spalle. Eleonor infatti è convinta di aver sentito sua madre chiamarla durante la notte, invocando il suo aiuto, quando oramai era morta da giorni. Theodora è esuberante ed eccentrica, mentre Eleanor è timida ed insicura ed ancora profondamente turbata dalla morte della madre, della quale si sente in qualche modo responsabile. Comincia così questa storia, una storia di fantasmi ricca di elementi gotici che è considerata giustamente un caposaldo della letteratura di genere.

“Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni. hill house, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; si ergeva così da ottant’anni e avrebbe potuto continuare per altri ottanta. dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di hill house, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola.”

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I primi giorni scorrono senza che accada nulla, ma proprio quando l’esperimento ristagna e la permanenza degli ospiti a Hill House sembra essere nulla più che un banale soggiorno in una vecchia dimora di campagna, qualcosa comincia a strisciare all’interno, ad insinuarsi  nei meandri delle antiche mura, qualcosa di vivo e malvagio che lentamente, ora dopo ora, comincia ad intaccare la stabilità mentale degli occupanti. La Jackson è avara di dettagli orrorifici e punta tutto sull’immaginazione, stimolando la paura attraverso ciò che – appositamente – non viene rivelato.


E’ la suggestione a dominare il racconto, un’ inquietudine che viene continuamente alimentata da avvenimenti  scientificamente inspiegabili, quanto meno non del tutto. Attraverso un’abile  prosa ad effetto,  l’autrice fa oscillare pagina dopo pagina i suoi protagonisti tra normale e paranormale, tra l’elemento razionale e quello sovrannaturale confondendo, stordendo, disorientando.


Anche le dinamiche all’interno del gruppo si modificano in continuazione, fino a quando convergeranno in un’unica direzione: l’allontanamento forzato di Eleanor, giudicata da tutti oramai troppo instabile mentalmente per proseguire con l’esperimento. E’ Eleonor infatti la vittima prescelta dalle sinistre presenze che abitano la casa, una dimora antica come antichi sono i demoni che la popolano. Non già creature spaventose con le sembianze dei mostri dell’infanzia, ma un’entità maligna  che riesce ad insinuarsi nelle menti più labili, fino a possederle del tutto. E’ la casa stessa a volere Eleonor, la povera, indifesa, triste e sola Eleonor che lentamente impazzisce, perdendo la percezione di sè stessa e sentendo Hill House come se fosse il suo corpo:  “E’ dentro di me, è nella mia testa, ed ora esce, esce, esce…” 

Cosa differenzia questo romanzo così datato da tutti gli altri capolavori di genere? Prima di tutto il background psicologico della scrittrice  fornisce la base ideale per un’opera gotica: gli stereotipi ci sono tutti, e nonostante attingano a piene mano dal suo vissuto la Jackson riesce a  giocarci con grande abilità. L’eroina infelice, psicologicamente fragile e disturbata non è altro che la proiezione di sè stessa. Secondariamente, ma non per importanza, la Jackson utilizza una prosa pressochè perfetta. Si potrebbe trovare  da ridire sulla trama scarna o sul ritmo poco incalzante, ma è proprio nell’apparente staticità degli accadimenti che Hill House – in realtà – si muove. Le scene di stasi e di descrizione del paesaggio risultano essere perfino più angoscianti di quelle in cui si manifesta il paranormale, grazie ad una tecnica narrativa da dieci e lode che riesce a creare eccezionali suggestioni. Si ha sempre la sensazione che qualcosa di terribile stia per accadere, strisciando intorno ad Eleonor, fuori e dentro di lei, anche quando semplicemente osserva il tramonto o cammina lungo il sentiero che conduce alla casa.

Nonostante sia universalmente riconosciuto come un capolavoro, questo romanzo ancora oggi non è immune da pesanti critiche e c’è perfino chi , appassionato di horror spiccio, lo trova noioso ed inconcludente, prolisso e al tempo stesso pieno di buchi nella trama. Probabilmente non siamo abituati a trovare tanta profondità in una storia di fantasmi e di paura, e la cosa forse può   essere fuorviante.


“L’incubo di Hill House” è prima di tutto una storia di solitudine estrema,  straziante e crudele, raccontata con una raffinatezza ed una eleganza inusuale. Il terrore, la paura e l’angoscia arrivano quando la sofferenza ed i conflitti interiori hanno già spezzato in due la vita dei protagonisti, prendendosi quel che resta. Il messaggio di fondo è uno solo, una verità incontrovertibile: sono i nostri fantasmi interiori quelli che fanno più paura, assai più spaventosi e crudeli di quelli che popolano le case infestate.


L’incubo di Hill House – Shirley Jackson (Gli Adelphi)

“The Quick”, di Lauren Owen: misteri, vampiri e sale da the

The Quick” è stato l’esordio folgorante di una giovane autrice, Lauren Owen. Questa ragazza, poco più che trentenne, è riuscita ad imbastire una storia di vampiri “vecchio stile” che cattura fin dalle prime righe, trasportando il lettore in un mondo antico ed arcaico, in cui la fantasia domina la realtà rendendo molto difficile  distinguere ciò che è  leggenda da ciò che è  storia. I vampiri, figure mitologiche le cui origini si perdono nella notte dei tempi, non smetteranno mai di affascinare i lettori di ogni generazione e di essere la fonte principale di ispirazione per chi di mestiere scrive storie da brivido: a cominciare da Bram Stoker, capostipite del genere e creatore di Dracula, fino a Stephen King, che ci ha condotto per mano lungo le stradine buie di Jerusalem’s Lot  facendoci tremare le viscere.
Le saghe più recenti (Twilght in testa) hanno rivisitato la figura dei Vampiri giocando molto sul loro aspetto fascinoso, umanizzandoli al punto  da instillare in loro il sentimento per antonomasia: l’amore. Per me si tratta di blasfemia e su questa considerazione mi fermo, perché non voglio infierire su ciò che è già triste di suo. I vampiri hanno una loro dignità ed una storia millenaria che li ha sempre resi i protagonisti indiscussi delle nostre paure: Lauren Owen restituisce loro un’immagine di spietatezza,  e di questo le sono davvero grata. I vampiri bellocci che si innamorano di adolescenti non fanno  proprio per me.
Lo sfondo in cui l’autrice colloca i suoi protagonisti è la Londra vittoriana di fine ottocento, un’ambientazione molto suggestiva che aiuta il lettore a calarsi perfettamente nella storia. La capitale inglese alla  fine del XIX secolo rappresentava uno dei maggiori fulcri di stabilità e di benessere economico: rivoluzione industriale, espansione coloniale, assenza di guerre. Ma questa nuova ricchezza portò con se anche molti aspetti negativi, creando lacerazioni profonde nel tessuto sociale.
I risvolti  delle nuove politiche economiche furono devastanti: il divario tra nuova borghesia e nuovi poveri non fu mai così ampio come ai tempi della Regina Vittoria. I contrasti interni erano stridenti, il tasso di delinquenza  elevatissimo,  i sobborghi erano fogne a cielo aperto  impestate di malattie e di prostituzione. L’epoca vittoriana diventò  tristemente nota per la diffusione del lavoro minorile ed il conseguente analfabetismo.
I nobili ed i banchieri arricchiti si trinceravano nei loro club esclusivi a parlare di affari e a sorseggiare tè con superficiale ottimismo, forti di una condizione non sarebbe mai mutata, mentre a due passi dalla City la fame mieteva vittime e cresceva orfani. Questo aspetto storico è una parte fondamentale del libro, perché  i Vampiri, seguendo l’ombra delle vite che hanno strappato, rimangono legati loro malgrado al susseguirsi degli eventi e si conformano alla società del tempo. Sono creature che si adattano ai tempi in cui vivono perché ne sono la macabra prosecuzione, ma disprezzano profondamente gli uomini e rifuggono il contatto con essi. Li considerano esseri inutili, inferiori. Sentono il loro tanfo a diversi passi di distanza e ne sono infastiditi, i loro luoghi di aggregazione li inorridiscono. L’unico istinto che li guida verso l’uomo è il bisogno di sangue, di cui non possono fare a meno. L’uomo comune, stolto e pusillanime, è solo un enorme sacca  da cui trarre alimento e nient’altro. Nessuna emozione potrà mai guidarli verso altre strade.
La nostra storia inizia in una decadente dimora della campagna inglese,  in cui vivono due ragazzini: Charlotte e James. I due fratelli dopo la morte della madre crescono molto uniti ma terribilmente soli, con un padre quasi sempre assente per lavoro e l’anziana governante. Il padre in realtà tornerà da loro, ma solo perché la sua salute non gli consente più alcun tipo di spostamento: morirà poco dopo. L’ambiente isolato ed i pochissimi contatti umani alimentano nei due giovani un forte desiderio di evasione, attratti dalla vitalità e dal fermento culturale di Londra : James si sente particolarmente portato per la scrittura, e decide così di approfittare della rendita paterna per recarsi a studiare nella grande città. A questo punto le vite dei due protagonisti si dividono: lasciamo da parte Charlotte, ancora immersa nei doveri verso la famiglia, per avventurarci insieme a James nella sua nuova esistenza. I primi giorni a Londra sono molto confusi per lui, ingenuo ragazzo di campagna, fino a quando incontrerà Christopher Paige. Christopher, un dandy affascinante dedito un po’ troppo all’alcol e ad altri vizi,  appartiene ad una ricca famiglia della città e stringerà con James una forte amicizia. Andranno a vivere insieme da un’affittuaria e sarà proprio Christopher ad introdurre James nel cuore della vita mondana londinese. Cene eleganti, teatri, club esclusivi… James viene iniziato ai piaceri della vita cittadina e la sua carriera come commediografo stenta sempre di più a decollare. Sono due gli avvenimenti che segneranno inesorabilmente il suo destino: l’incontro con il presidente dell’esclusivo club “AEgolius” e la scoperta dell’amore, laddove non l’avrebbe mai cercato. Dopo poco, James scompare. Charlotte è molto preoccupata perché suo fratello non risponde più da mesi alle sue lettere e così, finalmente libera da impegni domestici, decide di partire alla volta di Londra per cercare di capire cosa sta succedendo a James.
Charlotte scoprirà come tra le vie di Londra si annidi un sottobosco di creature ibride, chiamate gli “Spenti”, in contrapposizione con gli “Animati”, appartenenti invece al genere umano. Dal momento che i vampiri sono costretti a seguire l’evoluzione umana, la stratificazione sociale della Londra vittoriana si rifletterà anche nel loro mondo e darà vita a feroci lotte tra i vari clan presenti nel territorio urbano. Gli esponenti della nobiltà in decadenza e i nuovi ricchi fanno tutti capo al misterioso AEgolius, di cui James ha già scoperto l’esistenza. Il loro scopo, oltre a quello banale della mera sopravvivenza, è  attirare nelle proprie fila i personaggi più in vista della città e giovani promettenti con determinate qualità intellettuali: vogliono cambiare le cose per sempre, instaurando una vera e propria egemonia di Spenti. Questo nuovo ordine  avrebbe dominato da principio  l’intera Londra, per poi espandersi ovunque. La loro sete di potere, unita al desiderio di mantenere intatti i privilegi di cui godono, guida il loro implacabile istinto sanguinario. Dall’altra parte del Tamigi, tra i fumi delle industrie e la puzza di marcio delle vie suburbane, vivono  gli Alia. Gli Alia sono i miserabili, i pezzenti, sono rozzi succhiasangue privi di qualsiasi regola morale. I loro capo è una donna, che offre loro riparo e mezzi di sostentamento in cambio di totale abnegazione.
Fra gli Alia vi sono molti bambini, un tempo orfani, dimenticati o creduti morti dai loro genitori. Scorrazzano per la città in cerca di sangue fresco e obbediscono agli ordini della loro padrona, sono privi di qualsiasi tenerezza infantile   e giocano tra gli Animati sperando di riuscire ad addentarli quando la fame si fa sentire. Perché non è così facile distinguere gli Spenti dagli Animati. Si confondono perfettamente nella folla, ma la loro velocità di spostamento è sovrumana. Hanno ferite impercettibili sul corpo, segno delle loro appartenenza, ed occhi immobili in cui galleggia il vuoto. Hanno fame, e spesso questo li tradisce, ma per il resto sono perfettamente integrati nella società. E soprattutto nessuno di loro accetta di essere chiamato per quello che è veramente: un vampiro.
Chi ha rapito James? Perché i membri dell’AEgolius si avvalgono di uno studioso che usa alcuni di loro come cavie? Cosa hanno scoperto sui vampiri moderni? Cos’è lo “scambio” e perché è una regola così pericolosa da contravvenire?
Charlotte si ritroverà suo malgrado coinvolta in queste lotte di classe per salvare se stessa e  suo fratello da un terribile destino, e nel farlo verrà aiutata da una strana coppia di cacciatori di vampiri e da un sopravvissuto al piano dell’ AEgolius.
C’è forse un sovraccarico di misteri e di inversioni di rotta in questo romanzo, ma il tutto è ampiamente compensato da una scrittura fluida, perfetta, pulita. Ogni descrizione, da quelle della malinconica e dolce  campagna inglese fino a quelle della cupa e fumosa  Londra di fine ottocento,  ci fanno immergere completamente nelle atmosfere gotiche di questa storia.

I vampiri sono un tema ampiamente sfruttato dalla letteratura di tutti i tempi, eppure in questo romanzo non vi stancherete mai di sentir parlare di loro, anzi: ne vorrete sapere sempre di più, incollati a pagine che sfoglierete avidi una dopo l’altra. Troverete comunque qualcosa di nuovo, di appetitoso, di stuzzicante e al tempo stesso di terrificante. Sentirete sempre un sottile senso di angoscia strisciare tra le mura di casa vostra. Scapperete anche voi tra i vicoli fuligginosi di Londra in cerca di un nascondiglio, perché il buio  non riuscirà ad offrirvi abbastanza riparo; e quando leggendo dei bambini vampiri passerete aldilà del Tamigi, sentirete uno sbuffo gelido alitarvi sul collo.

The Quick, Lauren Owen (Fazi)

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“Se fossi una strega”, di Celia Rees: il ritorno di Mary Newbury

In questo secondo capitolo della storia di Mary Newbury, la strega bambina di cui ho parlato nel  post di ieri, l’autrice ci porta nel cuore delle leggende Irochesi, indiani originari del confine tra gli attuali Stati Uniti e Canada. Questa volta il suo viaggio ci viene raccontato attraverso le visioni e i sogni di una ragazza di nome Agnes, una sua discendente che vive nel Massachussets dei giorni nostri.
Agnes è una nativa americana e le sue radici affondano in una storia millenaria, ricca di fascino e di suggestioni, ma anche intrisa di dolore e sofferenza. Le vicende degli indiani d’ america sono una delle pagine peggiori della storia della colonizzazione europea, frutto di una becera ignoranza ed allo stesso tempo di un senso di superiorità assoluto che la nostra razza, bianca e cristiana, si era  arrogata per diritto di nascita. La Rees, con la sua scrittura che incanta, immaginifica e profonda, restituisce dignità e bellezza ad un popolo troppo spesso dimenticato dalla storia, ad oggi confinato nelle riserve. Qualcuno si è conformato alla società bianca, con le sue stratificazioni ed il suo inno al consumismo più sfrenato, mentre altri hanno cercato in tutti i modi  di restare aggrappati alle proprie radici, preservando quello che la civiltà moderna ha cercato per secoli di osteggiare: la tradizione, la storia, il retaggio culturale.

Non c’è nulla di più importante per un nativo americano della propria identità e delle proprie leggende: esse  vengono tramandate attraverso la parola, di racconto in racconto, di bocca in bocca, senza l’ausilio di libri e carta stampata. Per questi uomini la cosa fondamentale  non è trascrivere per lasciare un’eredità ai posteri, ma essere ascoltati dai loro figli e nipoti, perché la parola è viva, è condivisione, è comunione: ogni anziano che racconta trasferisce qualcosa di sè all’altro attraverso l’esperienza dell’ascolto e dell’immedesimazione.

La memoria si conserva con la memoria, è un filo robusto che non può  spezzarsi ma  che deve adattarsi a chi la riceve, avvolgendosi  nelle pieghe dell’esperienza individuale. Anche Agnes è profondamente legata alle sue origini: nonostante sia una studentessa di antropologia perfettamente integrata nell’ambiente universitario, è consapevole e fiera  della sua appartenenza. Ogni aspetto della sua vita le ricorda da dove proviene e di chi è figlia, non solo per la parte spirituale.  I suoi capelli sono neri, folti e lucidi, con un ciuffo bianco che le accarezza la fronte, come tutte le donne della famiglia; gli occhi hanno il colore della tempesta, grigi e profondi, le sopracciglia sono marcate ed i tratti del viso decisi e volitivi. Ma c’è un altro aspetto molto importante che segna l’appartenenza alla sua discendenza indiana per linea femminile: il dono della veggenza, le capacità curative, il potere sciamanico. Agnes è cresciuta con la zia (la madre l’ha abbandonata quando era molto piccola), e conosce perfettamente cosa significa avere “il potere“. La zia le ha sempre detto che, se fosse arrivato a lei in qualche modo, l’avrebbe compreso senza alcun dubbio. E’ così che inizia il romanzo, con la presa di coscienza di Agnes che comincia una sera come tante a mostrare segni di turbamento interiore e ad avere visioni durante il giorno. La notte, attraverso strani sogni, sente sempre più spesso il richiamo degli antenati. Non è un caso se proprio in quei giorni tra le sue mani è finito il libro che un’entusiasta ricercatrice, Alison, ha scritto sulla storia affascinante di Mary Newbury, una giovane donna inglese additata e perseguitata come strega nell’ america puritana dei primi coloni. La vita di questa ragazza è stata ricostruita in seguito al ritrovamento di un’antichissima trapunta, all’interno della quale furono nascosti frammenti del  diario segreto che Mary iniziò a scrivere quando ebbe la certezza che il suo essere così “diversa” le avrebbe riservato la stessa tragica fine di sua nonna,  impiccata con l’accusa di stregoneria. A meno che non fosse fuggita. “Il viaggio della strega bambina” si conclude così, con la fuga incerta e disperata di Mary, lasciandoci orfani di una storia bellissima e terribilmente reale.
Agnes si mette in contatto con Alison, perché è convinta che la Mary di cui parla quel libro sia la stessa della quale ha sentito parlare molte volte fin da quando era piccola, attraverso i racconti della sua tribù. Gli anziani parlano infatti di una donna bianca che fu adottata dagli Irochesi con i suoi due figli (uno dai capelli scuri ed uno dai capelli chiari come ciuffi di grano ) , guaritrice e sciamana. Mentre Alison cerca di collegare i due lembi della storia di Mary, Agnes viene aiutata dalla zia a fare spazio dentro di sè per accogliere il dono che anche lei ha ricevuto. Raggiungono insieme la riserva Iroche ed insieme affrontano il rito della Capanna Sudatoria, necessario alla purificazione fisica e spirituale. Questa usanza, presente da tempo immemore in tutte le tribù native americane, serve ad invocare gli spiriti e ad iniziare riti sciamanici: attraverso il sudore l’anima veniva ripulita dai collegamenti terreni e preparata ad accogliere gli spiriti degli antenati, fluttuando da una dimensione all’altra in uno stato di trance.
Agnes viene così preparata per ospitare dentro di sè Mary, ed iniziata al potere della guarigione – o stregoneria che dir si voglia – come tutte le donne della famiglia.  Attraverso la rievocazione di Agnes apprendiamo che Mary fu salvata in fin di vita dal suo amico Penna Azzurra, con il quale intraprenderà l’avventura che la condurrà da un capo all’altro dell’america coloniale  attraversando  guerre, epidemie di vaiolo e scontri feroci tra coloni e nativi.  La bellezza del romanzo sta tutta  qui, ovvero nello splendido ed evocativo viaggio che l’autrice ci fa intraprendere attraverso la cultura degli indiani d’america del XVII secolo. Celia Rees è riuscita a tratteggiare un personaggio indimenticabile,  quello di una donna che grazie alle sue capacità terapeutiche, telepatiche e sciamaniche riuscì  a costruirsi una vita fiera ed indipendente, seguendo la sua natura senza doverla mai rinnegare.

Mary è straordinaria perché visse a cavallo di due civiltà completamente diverse l’una dall’altra  rimanendo sempre fedele a sè stessa: quella europea appena uscita dagli anni bui del medioevo bigotta, ottusa, ignorante e maschilista, in cui le sue  particolari attitudini erano viste con paura e portavano dritto alla condanna al rogo; la seconda  spirituale e  profonda, che  considera l’uomo parte integrante del cerchio della vita non meno della natura e degli animali, che ascolta i richiami ancestrali della terra e vive in totale simbiosi con essa. Una civiltà, infine, in cui una persona dotata di poteri straordinari era  rispettata e venerata, nonostante il suo essere donna. I contrasti raccontati sono forti e stridenti ma l’autrice lascia sempre al lettore la possibilità di comprendere, dando forza alla ragione attraverso una storia che vale la pena leggere.

Se fossi una strega – Celia Rees (Salani)

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“Il viaggio della strega bambina” di Celia Rees: mi chiamo Mary. Sono una strega.

Mi chiamo Mary. Sono una strega. O meglio, qualcuno mi chiama così. “Figlia del diavolo”, “strega bambina” mi sibilano per strada, anche se non conosco nè mio padre nè mia madre.

Comincia così questo romanzo di Celia Rees, rimasto a lungo a giacere nella mia infinita wish list, che si smaltisce e si rigenera talmente in fretta che spesso ne perdo totalmente il controllo. Sono contenta di averla tirata fuori dal sacco, è stata una lettura molto affascinante e coinvolgente, ad opera di un’autrice che possiede un talento indiscutibile nella narrazione. Uno stile minimale ma profondo, in grado di ricreare attraverso poche pennellate storie particolari e, in un certo senso, dimenticate. La sua scrittura prevede rari dialoghi, ma descrizioni di forte impatto visivo, quasi cinematografiche, che scorrono rapide come se noi lettori stessimo osservando la bobina di un film. Mary Newbury è appena una ragazzina quando sua nonna, l’unica persona che l’ha cresciuta e con cui vive, viene accusata di stregoneria e messa al patibolo. Siamo nell’ Inghilterra del XVII secolo, la guerra e l’instabilità socio politica del paese permisero il diffondersi a macchia d’olio della paura e dell’ignoranza. Come erbe infestanti   attecchirono e misero profonde radici in tutta l’Europa, avvolgendo in una coltre buia  il raziocinio degli uomini. Si cerca sempre un colpevole per il destino avverso, quando non si ha la capacità di comprendere: nel 1600, questa prerogativa era riservata alle streghe.
Mary sta per assistere all’ impiccagione della nonna quando un amorevole abbraccio le copre la visuale, trascinandola lontano dalla folla affamata di sangue. E’ una donna misteriosa, ben vestita e colta, che la conduce al sicuro presso una locanda in cui riceve cure e nutrimento. Poche righe dopo scopriamo insieme a Mary l’identità della donna, che ha molto a cuore la salvezza della ragazzina: il giorno dopo l’ affida ad una piccola comunità di puritani in partenza per l’America, perché solo scappando avrebbe salva la vita. Sono tempi bui, estremamente instabili, e parte del popolo inglese non si sente più rappresentato dai chi sta al potere: sono i puritani, i separatisti. Coloro che seguono alla lettera la parola del Signore data attraverso la Bibbia, non si sentono più accettati in patria nel nuovo ordine delle cose. Alcuni di loro sono partiti anni prima, dando vita ad una comunità puritana nei pressi della città di Salem; ora un altro piccolo gruppo sta per raggiungere quelle terre lontane, in cerca di prosperità e di libertà per il loro credo: Mary si unirà a loro. La donna che l’ha tratta in salvo dalle grinfie dei cacciatori di streghe le ha preparato una storia plausibile da raccontare, che avrebbe dovuto recitare a memoria una volta raggiunto il gruppo. Per il resto, non c’era nulla da aggiungere o da sapere: Mary è intelligente e comprende subito che fingersi una puritana era tutto quello che poteva fare nella sua condizione. Durante la traversata  conosce alcune persone speciali che le si stringeranno attorno come se fosse sempre stata parte della loro famiglia, donandole conforto e calore umano. Stringe un forte legame affettivo soprattutto con Martha, una donna rimasta vedova e senza figli a causa delle guerra.
Una volta raggiunta la città di Salem i coloni appena sbarcati dovranno affrontare un nuovo viaggio prima di potersi insediare, questa volta attraverso la foresta oscura di quel paese ancora vergine, abitato un tempo dagli indigeni locali. Durante queste continue peregrinazioni Mary si distingue dal resto del gruppo per la sua viva intelligenza, per la sua forte personalità e perché nonostante abbia cercato di comportarsi sempre in modo irreprensibile, i più attenti e sospettosi cominciano ad intuire che in lei c’è qualcosa di diverso,  che alimenta diffidenza e maligni pettegolezzi. Non ci verrà mai rivelato se Mary è realmente una strega, o come diremo oggi una sensitiva, oppure se questa sua diversità è solo un’invenzione della gente, che  l’ha sempre chiamata così fin da quando era piccola, a causa di una nonna anticonformista. Non riusciamo a comprendere se quell’ affermazione iniziale “sono una strega” le arriva da una profonda consapevolezza di sè o se il suo pensiero è stato in qualche modo indotto da ciò che gli altri hanno sempre visto in lei. Quello che certamente comprendiamo è che questo suo essere così “speciale” desta una curiosità morbosa e crudele tra i coloni.
Le ragazze del villaggio la isolano, ma lei non da importanza alla cosa perché le ritiene sciocche e frivole, ed inoltre intuisce perfettamente la loro vera essenza: dietro a quella parvenza di perfette puritane  si nascondono ragazze stupidamente ammiccanti, che giocano con la loro femminilità in modo proibito, sempre in bilico tra ciò che è lecito e ciò che non lo è. Mary da fastidio, è troppo intelligente, ed  ha una bellezza che le appartiene e che non deve forzatamente ricercare…inoltre nessuno sa da dove arrivi. La sua storia non ha appigli e non trova conferme.
Saranno proprio le ragazze del villaggio ad infliggere il colpo finale alla reputazione di Mary, già messa alla prova durante i mesi di permanenza al villaggio. La sua passione per la natura e l’insofferenza alle dure leggi della congregazione la spingono ad inoltrarsi nella fitta boscaglia che circonda il villaggio in cerca di piante medicali (che ben conosceva grazie a quello che aveva appreso dalla nonna) travestita da ragazzo, per poter essere più libera nei movimenti e per assaporare quel fremito di libertà che tanto le ricordava la sua infanzia inglese. Ben presto la ricerca delle erbe diventa una scusa, per gli altri della comunità ma anche per se stessa: la verità è che solo in quei momenti Mary riesce a sentirsi davvero sè stessa. L’amicizia che stringe con una delle loro guide indiane, un giovane pellerossa che vive insieme al nonno ai margini del bosco, diventa presto una delle sue gioie più grandi ed un appuntamento che ricerca sempre con grande emozione e divertimento.

Non voglio svelare di più, perché questa è una storia che merita di essere letta. Perché, oltre alla bellezza della narrazione, all’ ambientazione suggestiva e alla rievocazione storica accurata, Mary è un simbolo. E’ l’emblema dell’emancipazione femminile, perennemente osteggiata, e della paura del diverso. E’ una storia che si ripete da secoli, anche se con modalità differenti, la cui matrice però è sempre la stessa: la paura, l’ignoranza e l’infinita stupidità umana.


Il viaggio della strega bambina – Celia Rees (Salani)

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“Un incantevole aprile”, di Elizabeth Von Arnim: un inno alla vita

Elizabeth Von Arnim, il cui vero nome è Mary Annette Beauchamp, nacque nel 1866 a Sidney, in Australia, da una famiglia borghese: fu una donna audace per quei tempi, si sposò due volte ( prima con un conte tedesco, poi con un duca inglese), ebbe un certo numero di amanti e cinque figli che le diedero ben poche soddisfazioni. Era affascinante, colta, intelligente ed ironica e per questo piaceva molto agli uomini. Scrisse ben 21 romanzi, il primo dei quali, “Il giardino di Elizabeth”, edito nel 1898,divenne subito un “best seller” che superò di gran lunga le vendite degli autori (maschi) che in quegli anni andavano per la maggiore. I suoi libri, un successo dietro l’altro, le fruttarono molto denaro ma lei non poteva disporne: sono gli albori del 1900, e all’epoca il denaro guadagnato dalle mogli apparteneva di diritto ai mariti. Bella fregatura.
La scrittura era l’ unica forma d’arte tollerata per una donna, al punto che le scrittrici venivano spesso considerate creature ambigue, poco raccomandabili, addirittura ridicolizzate dalla stampa. Per questo motivo molte autrici sceglievano di tutelarsi nascondendosi dietro uno pseudonimo maschile, ma non Mary Beauchamp. Era troppo anticonformista per adattarsi ad utilizzare uno stratagemma simile.Dopo innumerevoli litigi con il marito, il Conte Von Armin, riuscì ad ottenere il permesso di pubblicare il suo primo romanzo in completo anonimato. Il marito temeva infatti che la stravaganza delle moglie potesse macchiare lo stemma di famiglia, e quindi le impedì di usare il suo nome.  Una donna del suo temperamento però non era in grado di abbassare la testa troppo a lungo: decise pertanto di pubblicare tutti suoi romanzi successivi con il nome di Elizabeth Von Armin, omaggiando il suo esordio e mantenendo il nome del primo marito, anche se in seguito si risposò. Bollati Boringhieri ha pubblicato per la prima volta il suo romanzo d’esordio nel 1989, facendo innamorare i lettori italiani di questa talentuosa scrittrice, così fuori dagli schemi tipici del suo tempo.
 
 
Eizabeth von Arnim non si è mai voluta adattare al ruolo marginale imposto da una società che lei definiva vecchia e ottusa, ed ha sempre rifuggito qualsiasi corrente letteraria, seguendo un percorso tutto suo. Fu una scrittrice raffinata, arguta, ironica, di rara intelligenza. Mi dispiace constatare che non tutti hanno apprezzato i suoi romanzi. Ho sentito persone recensire “Un incantevole aprile” definendo noioso sia il libro sia l’autrice stessa. Ma, gusti personali a parte, come si può definire noiosa una scrittura talmente sopraffina? Certo, se spostiamo l’attenzione solo sugli avvenimenti e sul contenuto spiccio del romanzo, è vero che gli accadimenti sono pochi. Ma un libro non è solo un contenitore di “cose che succedono”. E’ accrescimento, è ricchezza, è stile, è arte. Quando ci si imbatte in un’autrice del genere, per me esiste solo un imperativo: godere pienamente della lettura. E così ho fatto, assaporando ogni riga di questo romanzo, incantevole come il titolo.
In letteratura capita spesso che l’autore porti un pezzo della sua vita all’ interno di ciò che scrive; personalmente ritengo che, quando la spinta creativa parte dal proprio vissuto, escano fuori i lavori migliori. Così come “Il Giardino di Elizabeth”, anche “Un incantevole aprile” contiene molti spunti autobiografici: tutte le quattro protagoniste del romanzo raccontano una piccola parte di Elisabeth -Mary Annette.
La storia comincia a Londra, in pieni anni venti. La pioggia scandisce incessantemente le giornate, intristendo gli umori e rendendo la primavera una chimera lontana. In un club femminile della città due signore, la signora Arbuthnot e la signora Wilkins, annoiate e incupite dal clima uggioso, stanno leggendo lo stesso annuncio pubblicato sul Times, entrambe incuriosite dalla proposta: un castello medievale in Italia, nella splendida riviera ligure, in affitto per tutto il mese di aprile. Le due donne non si conoscono, ma si adocchiano l’un l’altra e cominciano a stringere amicizia: diverse per carattere, le accomuna una forte insoddisfazione personale ed una vita coniugale ormai logora, con mariti assenti e completamente concentrati su loro stessi.Tra una chiacchiera e l’altra la titubanza iniziale lascia il posto all’ entusiasmo e l’immagine della primavera italiana comincia a farsi sempre più vivida: il sole tiepido, i giardini con il glicine in fiore, il maniero inondato di luce e il luccichio del mare in lontananza… l’idea di fuggire dal grigiore delle loro vite londinesi sembra essere l’antidoto giusto alla tristezza che le opprime. In un pomeriggio è già tutto deciso, partiranno insieme. Per prima cosa pubblicano un’ inserzione sul giornale per cercare altre compagne di viaggio: non sono benestanti ed hanno bisogno di dividere le spese. Al loro annuncio rispondono la signora Fisher, un’anziana donna che vive nel ricordo dello splendore di un’epoca passata e Lady Caroline Dester, una bella ragazza desiderosa di fuggire da tutto e da tutti.
 
Desiderava stare sola, ma non sentirsi sola. Questo era molto diverso, era una sensazione che faceva male, che feriva spaventosamente nel profondo, era ciò che spaventava di più. Era il motivo per cui si andava a tutti quei ricevimenti, e negli ultimi tempi anche i ricevimenti qualche volta non erano sembrati un rifugio del tutto sicuro. Ci si poteva sentire soli indipendentemente dalle situazioni, ma dipendeva forse dal modo in cui le si affrontava?
 
 
La convivenza tra le quattro donne non sarà priva di battibecchi e di situazioni particolari, dovute soprattutto alla differenza di età e di carattere, ma sarà per tutte un’esperienza intensa che restituirà loro la gioia di vivere. Ognuna di loro avrà modo di riflettere e di rimettere ordine nella propria vita, scoprendo finalmente che cercare e desiderare la propria felicità non è affatto un peccato o uno sciocco capriccio, ma il diritto primario di ogni essere vivente. Giorno dopo giorno la bellezza del paesaggio finisce per incantare le donne, il sole tiepido riscalda la pelle e il cuore e scioglie ogni nodo che le intrappola. C’è chi ritrova dentro di sé l’amore per il proprio marito e una rinnovata gioia coniugale, chi scopre che essere anziani non significa doversi necessariamente chiudersi alla vita, chi finisce per accettare completamente sé stessa e chi continuerà a giocare con l’amore nell’ attesa che arrivi il momento giusto per costruirsi un futuro.

Quello che mi ha stupita, considerando il fatto che il romanzo è stato pubblicato nel 1923, è la modernità del tema trattato. Gli avvenimenti sono pochi, perché l’attenzione è quasi interamente spostata sul mondo interiore dei protagonisti, ma il filo conduttore del romanzo è straordinariamente attuale: si parla di donne in crisi di identità, insoddisfatte della propria condizione e desiderose di un cambiamento. Nei limiti imposti dall’ epoca, cercano comunque di lottare per la propria felicità, senza accettare passivamente una vita che non sentono più “loro”.


Sono donne moderne e anticonformiste, così come lo era la Von Armin. Oggi, quando ci sentiamo in conflitto con noi stesse e con il mondo, coltiviamo lo stesso intenso desiderio di fuga. Molte di noi intraprendono viaggi lontani, magari dall’ altro capo del mondo, per immergersi completamente in altre atmosfere, luoghi, culture, che curino l’anima con stimoli nuovi.  Nel 1923, per delle donne britanniche, tutto questo era rappresentato dall’Italia.

NB
 
 
Elizabeth von Arnim trascorse davvero una vacanza in Liguria, al castello Brown, nella meravigliosa cornice di Portofino (dove girarono anche il film tratto dal libro). Anch’ esso era di proprietà di un inglese. La sua esperienza in questo luogo incantevole da l’impronta decisiva al romanzo: nessuno avrebbe mai saputo descrivere meglio la bellezza di quei paesaggi suggestivi, incastonati tra cielo e mare, se non avesse mai visto con i propri occhi la costa ligure, quando la primavera sboccia e i profumi del mediterraneo inebriano i sensi.
Anche io posso parlare per esperienza: vivo sulla costa ligure, e quando percorro certe strade che si snodano sulle scogliere tra pini marittimi e ginestre, gettate a picco sul mare perennemente increspato dalla brezza, non posso fare a meno di provare gratitudine per quella vista che mi allarga l’orizzonte. Se a questo panorama perfetto aggiungiamo anche l’allegria e l’intimità delle chiacchiere tra donne…beh, allora in questo romanzo si rischia davvero di lasciarci il cuore.

 

Un incantevole aprile – Elizabeth Von Arnim

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“Strade blu”, di William Least Heat-Moon: lungo le backstreets della provincia americana

 
Esiste un momento particolare nella vita di ognuno noi, un momento in cui tutte le nostre certezze vengono meno, lasciandoci feriti e disorientati. Inutile pensare di essere dei privilegiati immuni a questi stravolgimenti: prima o poi arriva, stiamone certi. Quando attraversiamo certe tempeste ne usciamo sempre un po’ ammaccati, chi più chi meno. Nel mentre, di solito, proseguiamo con la nostra vita seguendo gli alti e i bassi del nostro dolore, facendo del nostro meglio per andare avanti. Continuiamo ad alzarci per andare al lavoro, parliamo, respiriamo, ci comportiamo come bravi soldatini addestrati alla guerra, fino a quando quell’ orribile sensazione comincia a dileguarsi. In realtà, quando capitano momenti così, la maggior parte di noi comincia a covare dentro di sé un desiderio liberatorio: quello di fuggire. Andarsene via per un po’, allontanarsi da tutte le persone della nostra vita, dai doveri quotidiani, dai luoghi che abitiamo. E’ una reazione molto comune, credo. Chissà quante volte l’abbiamo immaginata, quella fuga. Forse dipende dall’ illusione che allontanandosi dal luogo fisico in cui abbiamo ricevuto la nostra fetta di infelicità essa possa scomparire. In realtà non funziona cosi. E quella valigia non lo faremo mai per davvero. Un po’ perché oggettivamente è un’idea  difficile da realizzare, un po’ perché sappiamo bene che l’infelicità ci seguirebbe come un’ombra fino in capo al mondo. Ma, soprattutto, sappiamo bene che da quel viaggio dovremmo anche fare ritorno, prima o poi. C’è qualcuno però che  non si è limitato a sognare ad occhi aperti la sua fuga liberatoria,    trasformando l’impulso negativo del dolore in una spinta verso qualcosa di nuovo ed eccitante. Così è nato questo romanzo bellissimo, sicuramente tra i miei libri del cuore, che ho letto sul finire dell’estate. Il signore in questione si chiama William Trogdon, professore a Columbia, nel Missuri, che nel 1978 decide di investire tutti i suoi esigui risparmi per compiere il viaggio che cambiò per sempre la sua vita. Nella prefazione del libro si legge questo:
 
A trentotto anni, seppe di essere stato licenziato per il calo degli studenti del college e quasi subito, durante la telefonata in cui comunicava la notizia alla moglie per ricavarne un minimo di conforto, apprese che la donna ormai si era legata con un amico e che, in pratica, lo scaricava.
 
Tua moglie ti lascia, si mette con un altro, perdi il lavoro, non hai più nulla. Nessun legame che ti costringa a sopportare il peso di una vita che ha perso tutto il suo significato. E così la decisione arriva:
 
Bisogna stare attenti ai pensieri che vengono di notte: non hanno la giusta direzione, arrivano a tradimento da luoghi remoti e son privi di senso e di limiti. Prendiamo ad esempio l’idea che mi è venuta il 17 febbraio, un giorno di speranze distrutte, il giorno in cui ho saputo di aver perso il posto da insegnante d’inglese per il calo di iscritti al college e in cui mia moglie, dalla quale ero separato da nove mesi, nel corso della telefonata in cui le davo la triste notizia si è lasciata sfuggire che aveva un “amico”, Rick o Dick o Chick, qualcosa del genere. 
 
 
William carica il suo scassato furgone di generi di prima necessità, lo accomoda in modo da poter servire da quartier generale per il suo vagabondaggio e parte senza starci troppo a riflettere. Il suo furgone così attrezzato viene battezzato come “Ghost Dancing”(la “danza degli spiriti”), un nome molto poetico che è tutto un programma, e con esso attraverserà gli Stati Uniti d’America in circolo, da ovest ad est, dalla Columbia alla Columbia. Decide che percorrerà le vecchie strade secondarie, quelle che sugli atlanti di allora erano segnate con il colore blu.
 
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Sulle vecchie cartine stradali d’America, le strade principali erano segnate in rosso e quelle secondarie in blu. Adesso i colori sono cambiati, ma subito prima dell’alba e subito dopo il tramonto – brevi istanti né giorno né notte – le vecchie strade restituiscono al cielo un poco del suo colore, assumendo a loro volta un’arcana tonalità blu. È l’ora in cui le strade blu hanno un fascino intenso, e sono aperte, invitanti, enigmatiche: uno spazio dove l’uomo può perdersi.
 
 
 Questo signore, che all ’epoca si chiamava William Trogdon e che poi è diventato William Least Heat-Moon ( per onorare le sue origini mezzo sangue e credo anche per dare un tocco ancora più leggendario al suo racconto) all’ inizio pensava che il suo peregrinaggio in giro per l’america rurale sarebbe durato giusto il tempo necessario per mettere insieme qualche intervista con la gente del posto, registrando le chiacchiere e le storie di ognuno di loro, raccogliendo lungo le varie tappe il materiale da utilizzare per qualche racconto o poco di più. Invece questa sua avventura on the road  durò più di tre mesi, e dopo quattro anni di rielaborazioni ne è uscito un meraviglioso tomo di 500 pagine ed oltre. Dopo innumerevoli rifiuti fu pubblicato dalla casa editrice Little Brown nel 1982, ed ottenne subito un grande successo in patria ed anche oltreoceano. Non è difficile capirne il perché. Oltre a rappresentare il viaggio che ognuno di noi in cuor suo ha sognato almeno una volta nella vita, quello che William ci descrive è, in una parola, perfetto. Durante i suoi spostamenti non segue un itinerario preciso, se non un anello blu disegnato sulla cartina geografica degli Stati Uniti; molto spesso si lascia guidare dall’ istinto, da un nome curioso letto su un cartello stradale, dal caso. Non gli importa dove finirà, non ha una meta, la scoperta è il viaggio continuo. Le descrizioni dei paesaggi sono di una bellezza commovente, i suoi racconti ci restituiscono l’immagine di un’ America dimenticata, sconfinata, libera, pulita, dal fascino violento. Le persone che incontra sono tante, una diversa dall’ altra, e tutte hanno voglia di raccontare qualcosa. Non c’è nessuna diffidenza nei confronti di questo sconosciuto che si aggira lungo stradine malmesse con un furgone rattoppato, anzi: molto spesso viene invitato alla loro tavola, e allora lui accende il suo piccolo registratore portatile e comincia ad ascoltare gli aneddoti di queste persone. Alcuni sono davvero molto curiosi perché di gente strana ne incontra, eccome. Altre persone si limitano semplicemente a raccontare le loro storie personali: vite normali, trascorse anno dopo anno  in realtà piccolissime, microcosmi sperduti della provincia americana.
 

Sono loro i veri protagonisti del viaggio. Sono le braccia e le gambe che hanno fatto l’america più vera, un paese dalle mille contraddizioni che regala sogni di gloria e sconfitte amare. Questa non è la gente dell’ America Dream, il sogno americano non passa attraverso le strade blu. Queste sono le backstreets che mille volte ho immaginato ascoltando Bruce Springsteen e Tom Petty, questa è l’america dei loosers, degli antieroi, è il paese avaro di chi sbarca il lunario con fatica, di chi alla fine di una lunga giornata di lavoro si da una ripulita e va a bersi una birra nell’ unica bettola della città.

 
 
Spesso a corredo dei vari racconti ci sono le fotografie delle persone che William ha intervistato, immortalate affinché il suo messaggio potesse arrivarci meglio. Non sono immagini patinate, sono ritratti di uomini e donne con i volti segnati dalle rughe, con vestiti scadenti e fuori moda. Eppure sono  sorridenti, felici, autentici. Hanno quella luce che William aveva perso, che tutti noi spesso perdiamo, presi dalla frenesia di una quotidianità che raramente ci appaga.
 
Mano a mano che macina chilometri, raggiunge paesi, incontra persone e ascolta storie, William comprende che lo scopo del suo viaggio non è più soltanto quello di liberarsi dal dolore per le sconfitte subite, ma si è evoluto in qualcosa di molto più importante e profondo.
 
Per chi è in grado di restare sveglio e aperto, ogni errore è una possibilità d’imbattersi in qualcosa di nuovo: errare per il mondo e riflettere fanno parte dello stesso processo. Viceversa, chi smette di esplorare sbaglia più che in ogni altro momento.
 
 
 
 
 
 

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“Dio di illusioni”, di Donna Tartt: bellezza è terrore

 
Sono trascorsi ventiquattro anni da quando “Dio di Illusioni” è stato pubblicato per la prima volta, diventando un grande caso editoriale che ha acceso animi e dibattiti  fiume. All’epoca Donna Tartt era una scrittrice al suo primo romanzo, ed è molto raro  che un esoridio sia così folgorante: 5 milioni di copie è una cifra da capogiro. La nostra enigmatica autrice però è poco prolifica, tant’è che  da allora ha pubblicato solo tre libri: “Dio di Illusioni“, “Piccolo Amico” ed infine nel 2014  “Il cardellino“, con cui vince il premio Pulitzer. E’ proprio con questo ultimo lavoro che scopro la sua esistenza: la critica parla di “ennesimo capolavoro”, ed io non so chi sia quella donna. Ho deciso quindi che dovevo  colmare questa lacuna, partendo dall’inizio. Ed è così che dopo vari tentennamenti mi sono dedicata a “Dio di Illusioni”, non prima di aver letto qua e là alcune recensioni. Sono incappata in tanti commenti positivi e lodi profuse, ma sono in tanti anche quelli che parlano di un libro sopravvalutato di un’autrice standarizzata, un pacchetto costruito ad hoc per lettori ingenui. Mi viene quasi naturale schierarmi dalla parte dei buoni e quindi decido di affrontare la lettura con uno stato d’animo benevolo, alzando molto il livello delle mie aspettative. Per cui aspetto. Aspetto di imbattermi in qualcosa di indefinito che dovrebbe scuotermi, stravolgermi. Ma per 600 pagine e oltre tutto resta sospeso tra le righe e la mia ricerca si rivela vana: continuo a girare pagine su pagine, presa al cappio da una prosa a volte ostica che però non mi lascia scampo. Mi stanca il cervello, Donna Tartt. Io che amo la scrittura sobria ed essenziale mi sono ritrovata in balia di lunghe dissertazioni, di dialoghi ridotti all’osso  ma infiniti per lunghezza di pensiero, di descrizioni di stati d’animo interminabili. Eppure,  nonostante la lentezza di alcuni momenti, non sono mai stata capace di staccarmi da quelle pagine. Ogni volta che riprendevo la lettura alcune immagini, sempre le stesse, mi tornavano prepotenti davanti agli occhi: il Vermont, la neve. La solitudine di quel College così esclusivo. E Bunny, il sacrificio umano di un “Baccanale” finito in disgrazia.
 
La storia si snoda all’interno di una scuola elitaria del Vermont, in cui l’io narrante, Richard, finisce quasi per caso. Non c’entra nulla con il mondo dei college esclusivi, lui che arriva dalla provincia industriale della California, con alle spalle una famiglia modesta a cui non importa granchè dei suoi studi. Compila il modulo di richiesta spinto solo dalla noia e dal desiderio di cambiare scenari, senza seguire particolari inclinazioni se non quella verso gli studi classici. Una serie di circostanze favorevoli gli aprono le porte del prestigioso Hampton College,  facendolo entrare in contatto con una realtà fuori da ogni schema. Non troverà solo ricchezza e prestigio, perchè Hampton dietro la facciata di nobiltà  nasconde ben altro: una  parte insana e malata, che si nutre di boria e senso di superiorità. All’interno delle sue aule esiste un club ancora più esclusivo del college stesso, formato da cinque ragazzi dediti agli studi delle materie classiche e da un professore carismatico ed eccentrico, Julian. Presuntuoso, esteta, è il mentore del gruppo ed è colui che instilla nei ragazzi l’idea che il mondo classico può  e deve rivivere: la società attuale è troppo volgare, prosaica. Non sa cosa sia la vera bellezza, mentre i greci ne avevano il culto:  È un’idea tipica dei greci, e molto profonda. Bellezza è terrore. Ciò che chiamiamo bello ci fa tremare. E cosa potrebbe essere più terrificante e più bello che perdere ogni controllo?” Senza saperlo, senza intuirlo, Julian manipola le loro menti conducendo i suoi allievi verso un imprevedibile epilogo. Desiderosi di fondersi con un’epoca antica e misteriosa, il club dei classicisti si dedica al culto di Dionisio: vogliono osservare e studiare  su loro stessi gli effetti delle forze che si impossessavano degli antichi greci durante  i baccanali offerti al dio.
 
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William Adolphe Bouguereau – The Youth of Bacchus (1884)

Nei rituali dionisiaci venivano stravolte le regole morali e sociali del mondo reale. Attraverso invocazioni allegoriche, l’ebbrezza del vino e danze ritmiche ossessive i devoti al culto raggiungevano uno stato di estasi   che aveva il potere di  riconciliare il genere umano con la natura: una sorta di armonia universale che abbatteva le convenzioni stabilite dall’uomo, in cui tutto era lecito.
Riportare in vita il mondo classico diventa per i ragazzi una sfida contro loro stessi, un gioco seducente e pericoloso. Prede di un delirio psicotico causato da alcol e droghe di ogni tipo,  la notte del baccanale la tanto agognata estasi  degenera rapidamente  in depravazione e violenza. Un uomo viene ucciso barbaramente, a sangue freddo. E sarà l’inizio della fine. L’illusione coltivata dal loro senso di superiorità svanisce quella sera stessa, gettandoli in dinamiche sempre più difficili da gestire e da prevedere. Il baccanale traccia un filo rosso di sangue, il male ormai ha ottenebrato le loro fragili menti ed il gruppo poco alla volta va in pezzi. Nessuna terribile bellezza li ha pervasi, la liberazione dei loro istinti  si è rivelata un fallimento, nessun oblio li ha sganciati dalla realtà. L’esaltazione si è trasformata in  senso di colpa, paura, alienazione, follia. Nessuno di loro riesce a reggere il peso di quella notte maledetta e delle conseguenze che si avvicenderanno rapidamente in seguito, come un’ infernale reazione a catena. Julian, una volta giunto a conoscenza degli atti omicidi compiuti dai suoi studenti in nome di un ideale che lui stesso aveva contribuito ad ingigantire e mitizzare, sparisce senza dare nessuna spiegazione. Da’ immediatamente le dimissioni e prende le distanze da quegli studenti che rischiano di macchiare il suo impeccabile curriculum.  Charles diventerà un alcolizzato, Camilla pederà ogni traccia di dolcezza trasformando la sua bellezza eterea in un guscio freddo e vuoto.  Francis, l’omosessuale del gruppo, continuerà ad essere perseguitato dai suoi fantasmi. L’unico che sembra non avere nessun rimorso è Henry, a cui però è riservato l’ultimo tragico, folle atto. Un gesto che compie non perché attanagliato dai sensi di colpa, ma perché la consapevolezza di aver deluso Julian è un dolore troppo grande da accettare, che lo getta nella disperazione più profonda.


Ci troviamo di fronte ad un capovolgimento assoluto dei ruoli: il gruppo degli eletti diventa poco alla volta un manipolo di disperati, in balia degli eventi. Questo scambio di ruoli è presente in tutto il romanzo, dall’ inizio alla fine: assistiamo ad una partita in cui spesso i ruoli si invertono, le maschere si scambiano, vengono gettate, se ne indossano altre, come in una tragedia teatrale.


Richard è “l’outsider” del gruppo,  un giovane provincialotto che all’ inizio pensa di essere stato catapultato per grazia divina in una realtà quasi perfetta: è stato accettato dal gruppo esclusivo degli studenti di Julian, studia materie elitarie, è ospite fisso della residenza di campagna dei gemelli Charles e Camilla in cui trascorre placidi week end a leggere, dormire e bere troppo. Richard mente sulla sua condizione economica e sulla sua vita familiare, perché è convinto di trovarsi di fronte a persone indiscutibilmente superiori a lui e non vuole perdere la sua chance di condurre un’esistenza idilliaca. Tutto sembra semplice, lineare: i gemelli Charles e Camilla, Francis, Henry e Bunny sono ricchi, colti, eleganti, raffinati, intelligenti. Sono i prescelti. Ma la realtà è ben altra cosa e presto scoprirà con terrore di essere stato manipolato da tutti loro,  ed accolto nel club esclusivo soltanto perché  la sua ingenuità  lo rendeva  ideale da raggirare. E’ stato facile per Henry, la mente del gruppo, usarlo come pedina ed aizzarlo contro Bunny.
Bunny: quello strano, quello diverso da tutti loro, l’amico di tutti, quello di cui non ci si poteva più fidare. Lo consideravano nient’altro che un cafone arricchito sempre senza una lira in tasca, che succhiava soldi ad Henry,  incapace di vivere secondo i loro dettami. Volgare, dozzinale, non era in grado di riconoscere ed apprezzare la vera bellezza. Il traditore, l’agnello sacrificale. La Tartt ci fa compiere lo stesso percorso di Richard, ci fa cadere negli stessi tranelli, vittime anche noi dei sottili maneggi del clan. All’ inizio del romanzo abbiamo tutti la certezza che sia Bunny quello sbagliato, quello indegno di stare all’ interno del gruppo. L’autrice ci conduce nella mente di Henry e ci fa assimilare il suo pensiero distorto. Ma poco dopo i ruoli si invertono spaventosamente: Richard prende coscienza di cosa sia realmente il gruppo, della gravità delle loro azioni, di come non ci sia in nessuno di loro una presa di coscienza riguardo al male che li ha investiti, ottenebrati, resi schiavi. Una volta pienamente consapevole esce dal gioco,  un gioco in cui forse non vi era mai entrato del tutto, riuscendo così a vedere gli altri ragazzi per quello che sono realmente: un branco di assassini senza speranza di redenzione. Prende le distanze e si salva da se stesso, mentre per tutti gli altri non ci sarà scampo.
Il romanzo si apre con una scena che, in realtà, è la sua conclusione. Un’immagine che, come accennato all’ inizio, porterò davanti agli occhi fino all’ultima pagina, esattamente come succede a Richard: Bunny, con il corpo che giace in una posizione innaturale, morto da molte settimane. Ben prima che giungesse il disgelo,  e che  la neve disciolta rivelasse così l’orrorifico segreto. Un segreto marcio, violento, crudele. Quel ragazzo giudicato sbagliato  perché senza fede e senza le virtù necessarie per comprendere l’ideale classico diventa la vittima di giovani fanatici, incapaci di distinguere la realtà dal mondo ideale che si sono costruiti.


Follia omicida, apoteosi del male  che sa plasmare i deboli, che si insinua nelle abitudini malsane, che si camuffa nelle vite ordinarie di persone apparentemente perbene, nella svogliatezza, nella noia, nell’ apatia, nell’ esagerata ricchezza che salva  dalle preoccupazioni quotidiane e che condanna ad un senso di superiorità fuorviante.


Non mi ha cambiato la vita leggere Dio di illusioni. Sarà perchè i vent’anni oramai li ho doppiati, e i romanzi di formazione non mi toccano più come avrebbero fatto una volta. Però è stata una lettura coinvolgente, che mi ha fatto molto riflettere sul male e sulla sua essenza, cosa che mi ha lasciato dentro un’inquietudine difficile da spiegare. Se  vale la pena attraversare il fiume impetuoso di Donna Tartt? Assolutamente sì. Dopo aver riletto quello che ho scritto non ho più dubbi.

Dio di illusioni, Donna Tartt – BUR RIZZOLI

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“L’arminuta”, di Donatella Di Pietrantonio: che cosa è una madre?

Il gruppo di lettura a cui mi sono iscritta qualche settimana fa per il mese di ottobre prevede la lettura de “L’Arminuta” di Donatella Di Pietrantonio, vincitore del premio Campiello 2017, edito da Einaudi. Come ho spiegato nel post dedicato, il gruppo lettarario ha come filo conduttore il tema della resilienza. Ho terminato il romanzo in soli due giorni, rapita da una lettura febbrile ed appassionata.

In dialetto abruzzese, “L’ Arminuta” significa la ritornata.

Donatella Di Pietrantonio ha scelto di chiamare la sua giovane protagonista con un aggettivo, anzichè con un nome proprio: lei è l’Arminuta, una parola  che da sola racchiude un’ intera storia familiare, complessa e  dolorosa, fatta   di silenzi e  di separazioni. L’assenza di un nome di battesimo era necessario, perchè questa è la storia di una ragazzina che improvvisamente, a tredici anni, si ritrova senza identità, senza più nulla che l’ancori al mondo, figlia di due madri e al tempo stesso figlia di nessuno.

Ero l’Arminuta, la ritornata. Parlavo un’altra lingua e non sapevo più a chi appartenere. Invidiavo le compagne di scuola del paese e persino Adriana, per la certezza delle loro madri.

Vivian-Maier

E’ l’estate del 1975. La ragazzina, con in mano una valigia e nell’altra un sacco con dentro tutte le sue scarpe, suona alla porta di una casa estranea. Le viene ad aprire Adriana, sua sorella più piccola, i capelli sporchi raccolti in due trecce allentate, disfatte da giorni. Non conosce nessuno della sua famiglia di origine ed  ha paura persino di respirare. I suoi genitori hanno l’espressione indurita dalla miseria, la osservano senza parlare, nessun gesto di affetto accompagna i loro sguardi rassegnati. Solo Adriana, con la quale dovrà condividere il letto  in una stanza ingombra di fratelli   di tutte le età, sembra entusiasta del suo arrivo. Quel giorno il  mondo così come lo conosceva prima le frana addosso; il padre adottivo – che ora doveva imparare a chiamare zio – l’ha depositata in quel paese sperduto nell’entroterra abruzzese, insieme ai suoi bagagli e a del cibo, come se  avesse  voluto ripagare la famiglia per la bocca in più che da ora in avanti avrebbero  dovuto tornare a sfamare, dopo tredici anni di assenze e silenzi. L’impatto con la nuova vita familiare è devastante: la ragazzina viene proiettata in una realtà fatta di bocche perennemente affamate, di poche parole pronunciate in un dialetto incomprensibile e di botte, gli unici gesti che riescono a colmare le distanze tra gli uni e gli altri. Non è solamente l’ anaffettività della famiglia a sconvolgerla, ma è anche l’assenza di tutto quello che per lei era scontato e normale a destabilizzarla, come l’igiene personale o lo studio. Cose apparentemente banali che però, in questa nuova dimensione, acquistano addirittura un significato stravagante, come se fossero un vizio da ragazzina di città.


Nonostante gli stenti  che è costretta a patire quotidianamente, nonostante la noncuranza della sua vera madre e il disinteresse di quella adottiva, l’ Arminuta resiste, si adatta al nuovo corso della sua vita e riesce persino, in alcuni rari momenti, ad essere felice.


Adriana e Vincenzo, il secondogenito, sono gli unici componenti della famiglia con i quali riesce fin da subito ad instaurare un legame d’amore sincero e ricambiato. Si affeziona anche al piccolo di casa, Giuseppe, un bimbo di pochi mesi afflitto da un ritardo mentale causato dalle deprivazioni che subisce fin dalla nascita. L’ Arminuta si fa forza come può, ma la rabbia e il dolore dell’abbandono non si placano con il passare dei mesi, anzi, continuano a sobollire dentro di lei in un crescendo di astio e di rifiuto della realtà. Non accetta più l’omertà delle sue due famiglie e quell’ostinazione degli adulti a fare finta di nulla, sviando il discorso ogni qual volta chiede della sua madre adottiva. Lei l’ha sempre voluta credere malata, perché era più facile raccontarsi una bugia credibile piuttosto che accettare la cruda verità di un abbandono che non è possibile giustificare nè perdonare. Certi buchi nel cuore non possono essere riempiti:

Nel tempo ha anche perso quell’idea confusa di normalità e oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. E’ un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e  fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure.

In quell’estate così violenta l’Arminuta diventa  grande malgrado tutto, lasciando definitivamente i ricordi dell’infanzia a quella madre che mai come adesso le appare distante, come se non l’avesse mai davvero conosciuta. Impara a contare solo su sè stessa, trae forza dalla  sua stessa solitudine come una piantina selvatica che germoglia lontano sui cigli dei muri, impollinata dal vento. Piange il suo dolore di figlia partorita due volte, da una madre povera  e da una madre sterile, ed entrambe le volte indesiderata. In questa desolazione però riesce anche a trovare  l’amore, laddove  nessuno l’avrebbe mai cercato. Lo trova nei gesti premurosi di Vincenzo, che la guarda e la desidera come una donna, che non accetta la miseria della sua condizione e per questo si ribella, pagando uno scotto durissimo. Lo trova nell’accudimento del piccolo Giuseppe, abbandonato a sè stesso, l’ultima bocca di cui nessuno ha più la forza di occuparsi. Ma, più di tutto, lo trova in un letto logoro condiviso con la sorella più piccola, che tutte le notti bagna il materasso e dopo, come un cucciolo selvatico, le si accoccola accanto cercando protezione e  calore in quel corpo appena un po’ più grande del suo. Saranno loro due, insieme, a spazzare via definitivamente i cocci di quell’esistenza che  credevano perfettamente felice,  e che invece scoprono squallida e bugiarda.   Una vita borghese, una vita perbene, una madre catechista ed un padre carabiniere, la casa al mare, lo stabilimento balneare con l’ombrellone riservato, la scuola di danza e la piscina d’inverno.  Una coltre di bugie che rivestivano un’ insospettabile miseria, quella autentica, che non dipende dalle troppe bocche da sfamare e da un lavoro che non dura mai più di una settimana di fila. E’ la miseria  dell’anima, quella scura e profonda, quella che si cerca di nascondere per la vergogna come si fa con la polvere sotto i tappeti. Affinchè nessuno sappia.


L’ Arminuta è un fiore sbagliato, nato da radici antiche che si confondono e si smarriscono l’una nell’altra, ma che alla fine riesce a trovare il suo posto al sole, in quella landa desolata che è il suo paese natìo, in quella famiglia sgangherata che però adesso le appare irrinunciabile. Donatella Di Pietrantonio ha saputo imbastire una storia coinvolgente, supportata da una scrittura evocativa e poetica,  che sa arrivare in profondità e che ci costringe, ancora una volta, a mettere in discussione la figura materna.


Ci siamo fermate una di fronte all’ altra, così sole e vicine, io immersa fino al petto e lei al collo. Mia sorella. Come un fiore improbabile, cresciuto su un piccolo grumo di terra attaccato alla roccia. Da lei ho appreso la resistenza. Ora ci somigliamo meno nei tratti, ma è lo stesso il senso che troviamo in questo essere gettate nel mondo. Nella complicità ci siamo salvate. Ci guardavamo sopra il tremolio leggero della superficie, i riflessi accecanti del sole. Alle nostre spalle il limite acque sicure. Stringendo un poco le palpebre l’ho presa prigioniera tra le ciglia.

 

L’Arminuta – Donatella Di Pietrantonio (Einaudi)