Libri in pillole: “L’arte di ascoltare i battiti del cuore”, di Jan -Philipp Sendker

Questo libro non è solo una bellissima storia da leggere: è decisamente terapeutico. E’ una medicina per l’anima di cui non sapevamo di avere bisogno, un piccolo rifugio in cui riposarci dall’iperattività delle nostre vite in cui a volte, purtroppo, sembriamo criceti che corrono all’impazzata dentro una stupida ruota che gira a vuoto. Ero incuriosita da questo romanzo ma al tempo stesso gli sono stata per molto tempo alla larga, soprattutto a causa del titolo: avevo infatti la sensazione che fosse una banale storia d’amore, ed io non amo le storie d’amore fine a se stesse, anzi potrei quasi affermare che non le sopporto proprio. Non leggo i romance, la parola “amore” sulla carta stampata mi fa scappare a gambe levate. Il consiglio di un’amica però mi ha convinta ad acquistarlo, e non le sarò mai grata abbastanza per avermi regalato una delle letture più intense e affascinanti che abbia mai fatto.

La protagonista della nostra storia è Julia Win, una giovane donna newyorkese che ad un certo punto della sua vita si ritrova catapultata in una piccola casa da tè di Kalaw, tra le montagne della Birmania, sulle tracce del padre improvvisamente scomparso. Tin Win, questo il nome di suo padre, da ragazzo si trasferì dalla Birmania in America per motivi di studio e da quel momento in poi visse stabilmente a New York, diventando cittadino americano e, successivamente, un avvocato di successo della grande mela. Una vita apparentemente ineccepibile, limpida. Ma ora Tin Win è scomparso, e le sue ultime tracce si perdono a Bangkok, in Thailandia, facendo supporre alla famiglia che l’uomo avesse in realtà una doppia vita fatta di vizi ed eccessi…ma un giorno la madre di Julia, mentre riordina la soffitta, trova una lettera del marito indirizzata a una certa Mi Mi, a Kalaw, in Birmania. “Mia amata Mi Mi, sono passati cinquemilaottocentosessantaquattro giorni da quando ho sentito battere il tuo cuore per l’ultima volta”. La scoperta di questa lettera porterà Julia Win a compiere un viaggio indietro nel tempo, alla ricerca di suo padre e delle sue origini, e da quel momento in poi si dipanerà tra le pagine una storia emozionante, che intreccia alla perfezione la realtà con la magia dell’impossibile. La filosofia buddhista da un’impronta speciale al romanzo regalando a questa storia d’amore una purezza a noi sconosciuta , che fa commuovere senza mai scivolare nel patetico.
L’autore ha la capacità di entrare nell’anima di chi legge con delicatezza e innocenza, risvegliando emozioni, ricordi, e tutto ciò che di buono inconsapevolmente custodiamo dentro di noi. E’ inevitabile quindi lasciarsi trasportare dalle sue parole: sembra che ci voglia prendere per mano per condurci nel cuore della magica Birmania e di noi stessi, alla scoperta di una spiritualità che troppo spesso noi occidentali trascuriamo, così persi nella frenesia del quotidiano da non riuscire mai ad entrare in contatto con la nostra dimensione più intima e vera.


L’amore ha tante forme differenti, tanti volti, che la nostra fantasia non basterebbe a immaginarli tutti. La difficoltà sta nel riconoscerlo quando ce l’abbiamo davanti”.
“E perché poi dovrebbe essere così difficile?”
“Perché vediamo solamente quello che conosciamo. Siamo convinti che gli altri siano capaci di fare solamente ciò che sappiamo fare anche noi, nel bene e nel male. Per questo riconosciamo come amore solo quello che corrisponde all’immagine che ne abbiamo. Vogliamo essere amati come amiamo noi. Ogni altro modo ci è estraneo, lo guardiamo con dubbio e sfiducia, ne fraintendiamo i segni, non capiamo la sua lingua. Accusiamo. Affermiamo che l’altro non ci ama. E invece forse ci ama in un modo tutto suo, che noi non conosciamo.”

Libri in pillole: “La banda dei brocchi” di Jonathan Coe

La BANDA DEI BROCCHI è un romanzo in cui Coe ci racconta, con abile distacco e a volte con ironia e leggerezza, la storia dell’Inghilterra degli anni 70 attraverso le vicende di un gruppo di adolescenti. Coe è bravissimo nel mantenersi soltanto un semplice narratore degli eventi socio politici di quegli anni: per tutto il romanzo non si farà mai trascinare dalla polemica, dalla passione politica, da accuse e giudizi. Non tenta di capire la storia, semplicemente la osserva e ce la racconta attraverso la quotidianità di persone comuni. Il libro si apre con l’incontro nella Berlino dei giorni nostri tra i figli di due dei protagonisti, e da quel momento in poi tutto il romanzo si snoderà come un flash back scaturito proprio dal racconto di uno di quegli ex adolescenti. Lo spaccato dell’Inghilterra pre-Thatcheriana che Coe ci offre è talmente reale che sembra di vivere sulla propria pelle quel decennio pieno di fermenti su ogni fronte: le lotte sindacali al limite della rivolta, il terrorismo dell’IRA, la nascita della musica punk…Fantastica ed “epocale” è proprio la colonna sonora che accompagna tutto il romanzo: Clash, Sex Pistols, Black Sabbath….Anche  il titolo del originale del libro, The Rotters’ Club, è lo stesso di un disco dell’epoca degli Hatfield and the North, gruppo citato nel libro.
La crescita adolescenziale dei ragazzi protagonisti si intreccia inevitabilmente con le vicende delle loro famiglie, dove troviamo solo adulti in perenne crisi, intrappolati nei loro matrimoni sciovinisti e  nelle loro guerre ai padroni. In questo mare in tempesta cercano di barcamenarsi, con difficoltà, paura e stupore, i quattro amici: poco alla volta vediamo Benjamin e gli altri “brocchi” uscire dal loro guscio di sogni per affrontare la vita vera, attraverso esperienze forti, a volte drammatiche come la morte violenta e incomprensibile, a volte più dolci come la scoperta dell’amore e del sesso.
Un romanzo che forse a tratti può sembrare troppo superficiale ma che invece, a mio avviso, è da apprezzare proprio per questo sua particolarità di narrare le vicende offrendo solo spunti per più profonde riflessioni da cui l’autore volutamente si sottrae, lasciandone al lettore il compito. Da molti è giudicato come uno dei romanzi minori di Coe, ma a me è piaciuto davvero molto e spero con queste poche righe di restituirgli, almeno nella mia libreria, il posto che merita.

Buona lettura!

Libri in pillole: “Il giardino delle bestie” di Erik Larson

“Il giardino delle bestie” è un riuscitissimo amalgama tra cronaca e romanzo storico, anche se non ha la pesantezza e la freddezza di questi generi. Il protagonista, William Dodd, è infatti realmente esistito e Larson racconta la sua esperienza di ambasciatore americano nella culla del terzo Reich. Tutto si svolge nell’anno 1934, periodo cruciale che cambiò per sempre il volto di Berlino e della Germania intera: è questo l’anno della rivoluzione dei giovani nazisti e dell’ascesa al potere di Hitler. L’originalità del romanzo è il punto di vista con cui questo enorme cambiamento viene raccontato, che è quello di uno uomo politico straniero che con la sua famiglia si trasferisce in Germania per intraprendere la carriera diplomatica. Dodds Arriva a Berlino con l’entusiasmo di chi, come lui, conobbe la Germania agli albori del 1900, quando studiò a Lipsia e tutto era un brulicare di vita, di cultura, di benessere: ben presto però si rende conto di quanto il suo ricordo fosse fuorviante e non più aderente ad una realtà profondamente trasformata. Dodds era un intellettuale del partito democratico, sostenitore di Franklin D. Roosevelt eletto alla Casa Bianca nel novembre 1932; era indubbiamente attratto dalla vita pubblica ma non possedeva le finezze di una mente politica, e l’unico motivo per il quale fu scelto da Roosevelt per rivestire l’importante ruolo diplomatico era la sua familiarità con il mondo tedesco, seppur limitata al solo aspetto accademico. Il neo ambasciatore era un uomo integerrimo distante anni luce dai giochi di potere della politica, fermamente convinto che il suo dovere più importante fosse portare come esempio i suoi principi egualitari e l’ideale jeffersoniano di democrazia liberale. A causa di questa sua impostazione, più da docente (qual in effetti era) che da scaltro rappresentante USA in terra straniera, ben presto verrà giudicato un inetto dai suoi connazionali e diventerà una facile pedina degli uomini di Hitler. Pagina dopo pagina, giorno dopo giorno vedremo lui e la sua famiglia scivolare in un terribile incubo da cui ne usciranno tutti irrimediabilmente distrutti. Dodds con la sua ingenuità e la figlia Martha con la sua spudoratezza sentimentale vivono a loro modo l’ orrida ascesa nazista, di cui si renderanno pienamente conto solo alla fine, quando saranno costretti a spalancare increduli gli occhi di fronte al primo tremendo atto di follia: la Grande Purga compiuta da Hitler contro i presunti oppositori del regime, il 30 giugno del 1934, passata alla storia come “la notte dei lunghi coltelli”.

Libri in pillole: “Academy Street”, di Mary Costello

E’ un romanzo con pochissima azione: in meno di 200 pagine l’autrice racconta tutta la vita di una donna irlandese, Tess. I sentimenti della protagonista, più che gli accadimenti in sè, costituiscono il fulcro di una narrazione in cui le vicende vengono raccontate in modo molto raccolto ed intimo, come in un diario personale. Quella che ci viene offerta è una visione sempre introspettiva dell’esperienza di Tess che però, a dispetto della malinconia di fondo di cui è costantemente pervasa, non cede mai il passo alle banalità da melò e questo renderà la nostra lettura piacevole, per nulla opprimente. Tess è una donna molto sfortunata, che vive la sua esistenza come se fosse sospesa dalla realtà, in perenne attesa che accada qualcosa per cui essere felice: ma questo momento non arriverà mai. Ciò che di bello la vita le ha regalato lo riconoscerà soltanto molto dopo, quando ormai tutto è passato e svanito nell’ombra dei ricordi. Il problema di Tess è proprio questo, non riesce a percepire la felicità quando le è vicina, perché la continua a cercare altrove. E’ un’ anti eroina che subisce passivamente tutte le esperienze negative, come se sentisse di meritarsi il peggio e per questo inevitabilmente lo attraesse, come se sopportasse tutto solo perché spera sempre in un “DOPO”. Non è irritante, anzi, è molto umana in questo. A chi non sono mai capitati momenti così, in cui abbiamo solo la forza necessaria di arrenderci al presente, senza lottare per cambiare la nostra vita? Viene naturale ed istintivo immedesimarsi nelle sue debolezze e fragilità, per questo non si riesce né a condannarla né a compatirla, ma solo a perdonarla. A volte, mentre si abbandona alla tristezza, verrebbe voglia di strattonarla urlandole di reagire, di darsi una mossa, di andarsi a prendere quello che vuole…. ma poi si finisce con il darle una pacca sulla spalla e ad accettarla così com’è. Una donna sola, sfortunata e malinconica, che vive di libri e di ricordi e nel mentre inesorabilmente invecchia. Sembrerebbe quasi un libro da evitare, e invece no. Perché l’autrice è talmente brava che riesce a non rendere mai patetiche le emozioni di Tess, ma le arricchisce di un’intensa umanità che non ci permette mai di compatirla. Ma soprattutto perché anche le voci dei perdenti meritano di essere ascoltate , quelle degli sconfitti in partenza, di chi non lotta perché sa già che andrà a finire male. Quelli che aspettano le disgrazie come eventi a cui non possono sottrarsi, e nel mentre si dimenticano di vivere.

Libri in pillole: “Un albero cresce a Brooklyn” di Betty Smith

Ambientato nel quartiere popolare di Brooklyn nei primi anni del 1900, il romanzo ha per protagonista Francie Nolan e la sua famiglia di immigrati irlandesi, costretta a combattere ogni giorno contro le durissime condizioni di vita dovute alla crisi economica in cui versa l’intero paese, e la conseguente mancanza di lavoro. La madre, una donna dolce ma determinata, per sbarcare il lunario lava i pavimenti dei palazzi vicini; il papà invece, che Francie adora, ha problemi di alcolismo e nonostante ami molto la sua famiglia purtroppo non riesce a contribuire concretamente al suo sostentamento. Nel cortile della vecchia e consunta palizzata in cui abitano i Nolan troneggia un albero dalla folta e rigogliosa chioma che in quell’estate assolata del 1912, anno in cui comincia la nostra storia, offre ombra e riparo alla famiglia e riempie di meraviglia i curiosi occhi di Francie. Sono in molti a chiamarlo “l’Albero del Paradiso” perché è l’unica pianta che riesce a germogliare tra il cemento dei quartieri popolari, come un dono di Dio in mezzo alle disgrazie degli uomini. Francie Nolan è come quell’ albero, che resiste alla mancanza di luce ed acqua, che invece di morire di stenti sembra combattere una lotta disperata per continuare a protendere i suoi rami verso il cielo. Francie Nolan è la povertà vista attraverso gli occhi di una ragazzina che usa l’immaginazione, il suo spirito di osservazione e l’amore sconfinato per i libri per riscattarsi da un mondo che sembra non avere un posto per lei. La sua determinazione e il suo desiderio infinito di imparare, dai libri come dalla vita, la porteranno in alto, come fosse il prolungamento di quell’albero ostinato che cresce solitario tra il cemento del suo quartiere.

Nonostante la vita dei Nolan sia oggettivamente amara e terribilmente difficile noi lettori non proveremo mai sentimenti di commiserazione o compassione, perché tutti gli accadimenti, le lotte disperate e le privazioni che subiscono sono filtrate dall’intensa gioia di vivere di Francie e dall’amore della sua disgregata famiglia.

“Nominato dalla New York Public Library come uno dei grandi libri del secolo appena trascorso, “Un albero cresce a Brooklyn” è una magnifica storia di miseria e riscatto, di sofferenza ed emancipazione di bruciante attualità.”

Buona lettura!

Libri in pillole: “Suite francese” di Irène Némirovsky

Irene Némirovsky è una delle mie scrittrici preferite, la mia comfort zone per eccellenza. Diversi anni fa la casa editrice Adelphi pubblicò per l’Italia la sua opera incompiuta, SUITE FRANCESE, che riscosse un enorme successo in tutto il mondo (è stato tradotto in 38 lingue) e che fece conoscere l’autrice al grande pubblico, me compresa. Sono stata catturata subito dalla sua prosa, innamorandomi all’istante della suo stile di scrittura essenziale, intimo, profondo. Nell’idea originaria dell’ autrice il romanzo avrebbe dovuto comporsi di 5 parti, una specie di “poema sinfonico”, ma purtroppo la Némirovsky fu arrestata durante la sua stesura e deportata ad Auschwitz. Nonostante si fosse recentemente convertita al cattolicesimo, per le leggi razziali della Francia era considerata ancora un’ebrea, e come tale subì le conseguenze della Shoah.

Era il luglio del 1942. Morì l’anno dopo di tifo, lasciando Suite Francese neppure a metà. Nei suoi appunti, poco prima di essere arrestata, scrive: 

Il libro in sé deve dare l’impressione di essere semplicemente un episodio… com’è in realtà la nostra epoca, e indubbiamente tutte le epoche. La forma, dunque… ma dovrei dire piuttosto il ritmo: il ritmo in senso cinematografico… collegamenti delle parti fra loro. L’importante sono i rapporti fra le diverse parti dell’opera. Se conoscessi meglio la musica, credo che questo potrebbe aiutarmi. In mancanza della musica, quello che al cinema si chiama ritmo. Insomma, preoccuparsi da una parte della varietà e dall’altra dell’armonia. Nel cinema un film deve avere una unità, un tono, uno stile”.

Grazie a questa sua struttura particolare, il romanzo è sopravvissuto a sé stesso: nonostante si componga solo di due delle cinque parti previste, non sembra affatto privo del suo centro. Il risultato è un romanzo corale di rara eleganza, in cui le piccole storie private dei protagonisti si mescolano con i grandi avvenimenti storici. La seconda guerra mondiale con il suo incomprensibile orrore è un’ ombra minacciosa che opprime continuamente, ma è sempre stemperato dalla bellezza di ciò che è vivo, e dalla purezza dei sentimenti che, nonostante tutto, nascono e si nutrono tra meraviglia e turbamento. I protagonisti della Némirovsky sono persone comuni, costrette ad affrontare la tragicità dei loro tempi ciascuno col proprio bagaglio di forza e di miseria, di speranza e di afflizione. La realtà ci viene raccontata senza risparmiarci nulla, togliendo quel velo di ipocrisia e di perbenismo con cui spesso vengono “abbellite” le storie di vita vissuta: a noi lettori le restituisce ripulite e vere e ce le fa amare così come sono, imperfette e difettose.

Chissà come sarebbe proseguito questo progetto se la Némirovsky avesse avuto la possibilità di terminarlo, chissà se la bellezza e la dolcezza della prima parte avrebbero perso terreno nel proseguimento della “sinfonia”, o se invece avrebbero continuato a fare da contraltare all’oscenità della guerra, come la colonna sonora di un film muto.

Libri in pillole: “I pascoli del cielo” di John Steinbeck

Steinbeck non mi delude mai, è uno degli scrittori che amo di più in assoluto. “Pascoli del Cielo” è il nome di una valle della California, chiamata così per la dolcezza del paesaggio, talmente bello da sembrare quasi divino, e talmente invitante da ispirare nelle persone fiducia nel destino che li ha condotti fino a lì. La suggestiva bellezza della vallata però è solo una cornice che è in aspro contrasto con la vita delle persone che la abitano: uomini e donne con i loro segreti inconfessabili, i loro tormenti, il loro dolore, con la loro follia e la loro straordinaria semplicità. La grandezza di Steinbeck sta proprio in questo, nel rendere le storie più comuni degne di essere raccontate, nel dare spessore alle vite più umili, nel trasformare in pura poesia le banalità del quotidiano vivere.

E’ un romanzo corale un po’ atipico perché ogni capitolo è una storia a sè, in cui la costante non è rappresentata dai personaggi ma dall’ambientazione, che richiama l’idea, totalmente illusoria, di una vita idilliaca, spesa a contatto con la natura e nel semplice rispetto delle sue leggi. Ma il male non fa sconti a nessuno e lo vediamo insinuarsi, strisciare e contaminare ogni vita raccontata, semplicemente perché è parte imprescindibile dell’essere umano.

Libri in pillole: “Tenera è la notte” di Francis Scott Fitzgerald

Francis Scott Fitzgerald, fin dalle prime battute di questo suo romanzo- simbolo (in assoluto il suo lavoro più ambizioso) catapulta noi lettori nel mondo dorato della Costa Azzurra degli anni venti, dove il giovane Dick e la bellissima moglie Nicole sembrano incarnare lo splendore e la freschezza di quell’epoca ruggente a cavallo tra le due guerre. Ma a poco a poco entriamo nella vita della coppia, attorno alla quale ruotano altri personaggi eccentrici e problematici, e scopriamo così che Dick è uno psichiatra e Nicole è una malata di mente che l’incesto paterno subito da adolescente ha reso schizofrenica. Moglie e marito, medico e paziente, tra i due esiste un rapporto d’amore tanto forte quanto esigente e distruttivo, simbiotico e pericoloso, che condurrà i due ad un triste ma inevitabile epilogo. L’incredibile di questo romanzo è come Fitzgerald riesca a farci sentire la solitudine e il turbamento interiore di tutti i personaggi come se fossimo noi a viverla, con lo stesso trasporto e la stessa commozione. Ed è altrettanto stupefacente come anche gli aspetti concreti della vicenda siano resi estremamente vivi e reali, tanto che molte volte pare  sentire davvero l’estate sulla pelle in quell’epoca lontana e mai vissuta, la musica jazz nelle sere stellate, le bravate tra amici, le risate, i lunghi discorsi inconcludenti tra un drink e l’altro.  E’ un libro molto delicato, per nulla melodrammatico nonostante i temi attorno ai quali si svolge, che pagina dopo pagina  lascia un gusto piacevolmente amaro, una tristezza non angosciante ma molto sottile. Un vero gioiello della letteratura che all’epoca della pubblicazione non ottenne un grande successo, che conosce cinque differenti versioni,  e che è essenzialmente un’opera autobiografica. La protagonista femminile del romanzo è infatti la trasposizione letteraria di Zelda, la moglie nevrotica e perennemente infelice di Fitzgerald che negli anni si ammalò di schizofrenia, proprio come la Nicoledel libro.

Ho appena chiuso il libro e l’ho riposto nella mia libreria accanto a “Il Grande Gatsby”, ma so già che sarà uno di quei rari romanzi che rileggerò negli anni.