Una stanza tutta per me

Quando ero bambina adoravo riempire la mia cameretta con i pochi libri che mia madre mi lasciava sottrarre alla libreria di famiglia, ingombrarla di quaderni colorati su cui scrivevo tutto quello che mi passava per la testa, diari più o meno segreti, fogli dattiloscritti e poi, più avanti, formati A4 appena sfornati da un esemplare preistorico di PC che risiedeva in pianta stabile nella stanza di mio fratello, a cui avevo perciò un accesso limitatissimo. C’è stato un perido in cui, addirituttura, ritagliavo dalle riviste che recuperavo in giro per  casa gli articoli che più mi interessavano e poi li incollavo su un quadernone, ordinatamente suddiviso per categorie. Ero una ragazzina curiosa, con la mente in subbuglio perenne ed un mondo interiore ricco e variopinto. I miei desideri più grandi  all’epoca erano due: possedere una cabina armadio ed  una stanza piena di libri, che sarebbero finalmente stati solo e soltanto miei. Una stanza anche di piccole dimensioni, non era quello l’importante. L’importante era che fosse molto capiente, luminosa, con una poltrona comoda e morbida pronta ad accogliermi dopo una lunga giornata di lavoro e dove trascorre  oziose  domeniche invernali. Essenziale era la finestra: doveva avere rigorosamente una visuale  aperta, affinchè potessi di tanto in tanto gettare lo sguardo sul mondo al di fuori, quello reale, non appena avessi avuto bisogno di distrarmi dalle suggestioni che la lettura creava in me. Necessaria era anche una scrivania ovviamente, traboccante di fogli sotto qualsiasi forma, dalla più primitiva alla più evoluta. Ingombra, caotica, ma con un suo ordine interiore. L’unico altro ospite a cui la mia immaginazione consentiva libero accesso in quella stanza era la mia gatta Briciola, che – evidentemente – immaginavo eterna. Briciola, una splendida Norvegese delle Foreste, trascorreva tutti i pomeriggi in camera con me, quando studiavo. Si accoccolava sulla sedia accanto alla mia e poi restava lì, acciambellata per ore ad ascoltarmi ripetere la lezione dell’indomani o mentre leggevo qualcosa. Declamavo a bassa voce le poesie di Baudelaire o di Emily Dickinson, di Neruda e di Pessoa che prendevo in prestito dalla Biblioteca comunale e lei stava sempre lì, concentrata sul suo pisolino ma attenta ad ogni mia parola. O almeno, mi piaceva pensare fosse così. Nella mia stanza dei libri erano quindi indispensabili: un’ampia  finestra, una scrivania, ed infine (ma non per importanza) un gatto. Nella mia fervida immaginazione di bambina era questa la mia idea di perfezione, di autonomia, di appartenenza. Sembra una contraddizione, ma in realtà non lo è affatto: delimitarsi uno spazio proprio, in cui poter essere sè stessi, liberi di sviluppare   le proprie attitudini e coltivare indisturbati i propri piaceri, è il primo e l’unico biglietto da visita che abbiamo il dovere di portare sempre con noi, l’unico davvero importante. Ci definisce come individui, è autoreferenziale quanto basta e manifesta la nostra unicità. Solo in età adulta ho scoperto come  questo  concetto non l’avessi di certo inventato io con le mie farneticazioni preadolescenziali. E’ stato il pilastro su cui Virgina Woolf ha costruito una delle sue opere più amate da almeno due secoli di lettrici: “Una stanza tutta per sè”. Quando lo lessi per la prima volta, circa vent’anni fa, mi era sembrato che la Woolf si stesse rivolgendo proprio a me, spronandomi a perseverare nei miei obiettivi, a non abbandonare i miei sogni di ragazzina anche se la mia vita stava prendendo una strada decisamente molto diversa rispetto a quella che avrei voluto percorrere.  Pubblicato per la prima volta nel 1929 e rivolto inizialmente alle sole studentesse di Cambridge, nel tempo è diventato un vero e proprio manifesto culturale del femminismo. Quello buono, sano e giusto. Uno dei miei passaggi preferiti è questo:
“….Vi ho già detto, nel corso della mia conferenza, che Shakespeare aveva una sorella; ma voi non cercatela nella biografia del poeta scritta da Sir Sidney Lee. Lei morì giovane, e ahimé non scrisse neanche una parola. È sepolta là dove si fermano gli autobus, di fronte alla stazione di Elephant and Castle. Ora, è mia ferma convinzione che questa poetessa che non scrisse mai una parola e fu seppellita nei pressi di un incrocio, è ancora viva.
vive in voi, e in me, e in molte altre donne che non sono qui  stasera  perché stanno lavando i piatti e mettendo a letto i bambini.
Eppure lei è viva. Perché i grandi poeti non muoiono; essi sono presenze che rimangono; hanno bisogno di un’opportunità per tornare in mezzo a noi in carne ed ossa. E offrirle questa opportunità, a me sembra, comincia a dipendere da voi. Poiché io credo che se vivremo ancora un altro secolo – e mi riferisco qui alla vita comune, che è poi la vita vera e no alle piccole vite isolate che viviamo come individui – e se riusciremo, ciascuna di noi, ad avere cinquecento sterline l’anno e una stanza tutta per sé; se prenderemo l’abitudine alla libertà e il coraggio di scrivere esattamente quello che pensiamo; se ci allontaneremo un poco dalla stanza di soggiorno comune e guarderemo gli esseri umani non sempre in rapporto l’uno all’altro ma in rapporto alla realtà; e così pure il cielo, e gli alberi, o qualunque altra cosa, allo stesso modo; se guarderemo oltre lo spauracchio di Milton, perché nessun essere umano deve precluderci la visuale;
se guarderemo in faccia il fatto – perchè è un fatto – che non c’è neanche un braccio al quale dobbiamo appoggiarci ma che dobbiamo camminare da sole
e dobbiamo entrare in rapporto con il mondo della realtà e non soltanto con il mondo degli uomini e delle donne, allora si presenterà l’opportunità, e quella poetessa morta, che era sorella di Shakespeare, riprenderà quel corpo che tante volte ha dovuto abbandonare. Prendendo vita dalla vita di tutte quelle sconosciute che l’avevano preceduta, come suo fratello aveva fatto prima di lei, lei nascerà. Ma che lei possa nascere senza quella preparazione, senza quello sforzo da parte nostra, senza la precisa convinzione che una volta rinata le sarà possibile vivere e scrivere la sua poesia, è una cosa che davvero non possiamo aspettarci perché sarebbe impossibile.
Ma io sono convinta che lei verrà, se lavoreremo per lei, e che lavorare così, anche se in povertà e nell’oscurità, vale certamente la pena.
Un capolavoro universale, che trascende mode e contesti storici, al punto tale che – evoluzioni stilistiche a parte – sembra essere stato scritto ieri e non quasi cent’ anni fa. Per cui, mia amatissima Virginia, scrittrice sopraffina a cui tante volte ho rinunciato e a cui altrettante volte sono ostinatamente ritornata per cercare di capirla fino in fondo, forse questa volta ce l’ho fatta. Ho riletto il suo saggio di recente ed ho compreso che stavo  tralasciando l’essenziale: Il coraggio di esprimermi liberamente. Quella forza inusitata che, se tirata fuori dal dimenticatoio, è in grado di ridare vita alle donne  invisibili, morte senza essere mai nate veramente, inghiottite da un mondo di uomini fatto su misura per gli uomini. Come la sorella di Shakespeare, e come quella che alberga  in ognuna di noi sotto pile di indumenti da stirare. Una stanza tutta per sè non deve essere necessariamente un luogo fisico. No, lei parlava di un luogo dell’anima. Così come le poetesse sconosciute a cui ridare vita non sono altro che una metafora sull’emancipazione femminile.
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Forse, nell’impossibilità di ritagliarmi qualche metro quadro nell’appartamento in cui oggi vivo con la mia famiglia (di cui fa nuovamente parte anche un gatto), può bastarmi un pc, uno smartphone e il block notes che porto sempre con me nella borsa per ricreare questo luogo speciale. Un luogo che ora percepisco come necessario, indispensabile, che non sarà mai come quello che sognavo tanti anni fa, ma so che è l’unico posto in cui posso essere simile a quella bambina che, a sette anni, possedeva già la tessera della biblioteca scolastica. La più alta di tutta la classe, la più brava. Quella che a dieci anni leggeva gli Oscar Mondadori di sua madre, un reperto archeologico degli anni sessanta, perchè soldi da spendere in libri non ce n’erano molti in quel periodo. L’unica ragazzina delle scuole medie che leggesse un quotidiano. Quella che, terminate le superiori, voleva iscriversi alla facoltà di Lettere, specializzarsi in letteratura inglese e trascorrere qualche anno all’estero… Londra preferibilmente, o magari Parigi. Chissà. 

Nel frattempo sono diventata una ragioniera e lavoro nello studio di un commercialista, ho una famiglia a cui pensare, una casa da mandare avanti, e spesso il tempo da dedicare a me stessa è davvero poco. Come tutte le donne del mondo. Ciò nonostante non ho mai smesso di amare la letteratura e considero ogni libro che leggo parte di quell’istruzione che non ho mai potuto ricevere.
E’ questo che intendevi insegnarci, giusto Virginia? Spero tanto di sì.

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