“Italiana”, di Giuseppe Catozzella: la leggenda della prima brigantessa d’Italia

Cosa significa essere italiana all’alba del 1861?

L’unità del regno fu proclamata il 17 marzo del 1861 dal Re di Sardegna Vittorio Emanuele II, dopo due guerre di indipendenza contro il dominio austriaco e la spedizione dei Mille capitanata da Giuseppe Garibaldi. L’annessione del Regno delle due Sicilie fu l’episodio cardine con cui si conclusero decenni di moti insurrezionali da parte di un popolo ormai insofferente ai Borboni, colpevoli della situazione di degrado generale in cui versava tutto il regno, da Napoli alla Sicilia. Il mezzogiorno con i suoi grandi latifondi in mano ai pochi nobili locali aveva un’economia arretrata, improduttiva e sterile, che indusse il popolo ormai ridotto in miseria ad appoggiare la spedizione di Garibaldi. L’onda emotiva degli ideali mazziniani di libertà e giustizia, il concetto di un’unica nazione e di un unico popolo, furono il motore che spinse frotte di eserciti spontanei ad unirsi ai garibaldini appena sbarcati a Marsala. Vittorio Emanuele promise in cambio l’abbattimento del sistema colonico e un’equa distribuzione delle terre, ma purtroppo, come la storia ci insegna, non mantenne mai l’impegno preso: dalla sudditanza nei confronti dei Borboni si passò a quella nei confronti dei Savoia. Come affermò il Principe di Salina mentre assisteva impotente al suo inesorabile declino, “Bisogna che tutto cambi affiché niente cambi”. E così fu.

In questo contesto sociale e politico così difficile, segnato da guerre civili perlopiù ignorate dai libri di storia, Giuseppe Catozzella racconta la vita straordinaria di Maria Oliverio detta Ciccilla, nata nella Calabria borbonica del 1841, prima brigantessa d’Italia. Fatta eccezione per il già citato “Gattopardo”, che in ogni caso rappresenta il punto di vista della nobiltà borbonica, in pochi hanno approfondito le vicende degli sconfitti, che dopo l’annessione al Regno Sabaudo crearono sacche di resistenza in tutto il sud. A scuola studiamo con fervore la grande impresa di Garibaldi, che unì l’Italia sotto un’unica corona, aiutato dal popolo oppresso: in realtà la spedizione dei Mille fu un fallimento completo, e Il sentimento patriottico che accese di speranza i meridionali in rivolta contro i borboni fu come un’intensa fiammata di cui rimasero solo le ceneri. E le conseguenze furono drammatiche.

Maria nacque a Casole, un paesino situato nel cuore dell’altopiano della Sila, circondato da paesaggi di indescrivibile bellezza. I boschi della Sila, con la loro natura maestosa ed incontaminata, hanno un ruolo molto importante nella vita di Maria fin da quando era una bambina. Si sentiva pienamente felice e libera solo quando si inerpicava lungo i sentieri che dal paese conducevano fino al Monte Botte Donato, la vetta più alta della Sila, ai piedi del quale aveva vissuto la nonna materna e ancora abitava la zia “Terremoto”. Ogni volta che il suo sguardo si posava su quelle montagne avvertiva un richiamo ancestrale, una specie di presagio che poteva fiutare nell’aria, come se dentro di sè sapesse di appartenere a quei luoghi da sempre. I suoi genitori erano coloni che lavoravano nei latifondi dei signori locali, come la maggior parte dei popolani di quel periodo, e conducevano un’esistenza misera, fatta di privazioni e di fatica. La vita della famiglia cambia improvvisamente quando Concetta, la figlia maggiore data in adozione ad una coppia di aristocratici napoletani ( di cui in casa non si parlava mai) è costretta tornare a vivere al paese. Durante un tumulto di piazza i due nobili, in viaggio verso Casole per accordarsi anche sull’adozione di Maria, restano vittime di un agguato e muoiono entrambi. Concetta ritiene responsabile Maria per la tragica morte dei genitori adottivi e per la fine della sua vita agiata; per questo motivo, fin da subito, decide meschinamente che si sarebbe vendicata, distruggendole la vita. La famiglia, per compiacere quella figlia che veneravano quasi come fosse un essere superiore, si indebita affinché lei potesse mantenere le sue costose abitudini e le lasciano l’unica stanza da letto della casa. Maria, senza più un posto dove stare, trova ospitalità dalla zia Terremoto, che viveva in una baracca ai piedi del monte Botta, in mezzo agli animali. Paradossalmente quelli furono gli anni più felici della sua infanzia: dalla zia Terremoto, moglie di un brigante che da anni era fuggito dal paese, impara a vivere nei boschi in perfetta simbiosi con la natura circostante, traendo dalla sua figura solitaria e mascolina l’ affetto e la protezione di cui aveva bisogno. La storia della brigantessa Ciccilla affonda qui le sue radici, tra la maestosità di quelle montagne che le donne della sua famiglia avevano nel sangue da generazioni, emblema di libertà assoluta, rifugio e nutrimento per chi, come lei, non aveva un luogo che potesse davvero chiamare casa. Ritornata in famiglia dopo la partenza per Napoli del fratello maggiore si rassegnò al suo destino di tessitrice presso la massoneria dei signorotti locali, fino al fatale incontro con Pietro Monaco, giovane e brillante carbonaro animato dai nuovi ideali di libertà che stavano infiammando tutta la penisola. Pietro, inizialmente arruolato nelle truppe borboniche, diserta l’esercito regio per unirsi ai garibaldini in procinto di salpare verso Marsala. Nel mentre Maria e Pietro si sposano, lei ha solo 17 anni e crede intensamente nell’amore del ragazzo, ma ancora una volta la vita le presenterà un conto altissimo. Pietro è un sognatore insofferente alle regole, con un animo passionale ed irruento che crede fortemente in Garibaldi, al punto di rischiare più di una volta la sua stessa vita in nome di quegli ideali. Vittorio Emanuele però non manterrà mai nessuna delle sue promesse di libertà e giustizia: non fece altro che riciclare la vecchia classe dirigente borbonica, che nel frattempo aveva cambiato giubba. Quando Pietro percepisce il tradimento del nuovo Re una rabbia feroce si impadronisce di lui, esacerbando la sua indole violenta. Fugge sulle alture della Sila per combattere contro la stessa nazione che col suo sacrificio aveva contribuito a far nascere, dandosi al brigantaggio insieme ad un manipolo di disillusi come lui. Maria lo seguirà poco dopo, anche lei ormai senza via di scampo dopo aver commesso un terribile omicidio, ben sapendo che la vita con Pietro sarebbe stata un’altra guerra, un continuo amare per poi difendersi fino allo stremo delle forze. Tra le grotte silane abbandonò per sempre i panni di Maria e si trasformò in Ciccilla, una donna libera e fiera, brigantessa spietata e bellissima, una guerriera le cui gesta diventarono leggendarie e travalicarono i confini dell’Italia. Di lei parlò Alexander Dumas, all’epoca direttore del giornale “L’indipendente”, dedicandole diversi racconti, mentre si ispirò a Pietro Monaco per comporre il suo romanzo “Robin Hood il proscritto”.

💡La vicenda storica e umana di Ciccilla, raccontata in prima persona, è un piccolo gioiello . L’autore è riuscito a calarsi nei panni di questa giovane donna dando voce al suo complesso mondo interiore senza mai far percepire la finzione narrativa. Maria, lacerata tra l’amore per la sua famiglia e quell’intenso desiderio di vivere secondo le sue leggi e Ciccilla, brigantessa coraggiosa e indomabile: non sarebbe stato semplice nemmeno per una donna raccontare il profondo percorso evolutivo di un’altra donna, conosciuta solo attraverso la documentazione ufficiale degli atti processuali e degli archivi di stato. Giuseppe Catozzella invece riesce a scrivere in modo assolutamente credibile queste pagine, entrando in profonda connessione non solo con Maria ma con tutte le figure femminili che hanno accompagnato la sua vita: la madre, la sorella, la zia, la maestra, perfino la lupa che la sceglierà come capo branco durante il periodo da brigantessa ha un suo ruolo, un suo percorso, ed è fortemente simbolica. A tutto questo fa da contorno un paesaggio affascinante e primordiale che si fonde completamente con la figura di Ciccilla, creando intense suggestioni.

🔖”Italiana” è la storia di una donna che combatte per la sua libertà, ma è anche la storia di un paese, il nostro: abbandonato dai vincitori, ferito, unito geograficamente ma non nel suo intimo, in cerca di un senso di appartenenza che forse ancora non ha trovato.

“Il mio amico Maigret”, di Georges Simenon: un omicidio alle isole Porquerolles

La forza dei romanzi dedicati al Commissario Maigret risiede in due punti fondamentali: l’ambientazione, sempre particolarmente suggestiva, e lo spessore psicologico dei protagonisti. La trama e l’intreccio giallistico passano in secondo piano, perchè l’attenzione si sposta sempre verso l’aspetto umano più che su quello metodologico delle indagini. Simenon è stato l’autore che, negli anni trenta, ha rivoluzionato il genere del romanzo poliziesco: lo schema del giallo classico, tutto improntato sulla ricerca meticolosa del colpevole e sull’analisi minuziosa della scena del crimine,  viene abbandonato in favore di ambientazioni popolari e piccolo borhgesi, microcosmi proletari in cui sono gli esseri umani con i loro turbamenti ad essere scandagliati ed osservati, per arrivare infine a comprendre le motivazioni del delitto più che il movente in sè. Anche questa volta ritroviamo gli stessi elementi, amalgamati però in modo differente dal solito: il vero protagonista diventa il paesaggio isolano, che cattura i suoi avventori in un vortice di emozioni a cui nemmeno Maigret può sottrarsi. L’intreccio psicologico quasi non esiste, la trama è lineare e semplice, al punto che spesso durante la lettura non ci accorgiamo nemmeno che il commissario stia in realtà svolgendo un’indagine per omicidio: i colloqui sono scarni, rari, gli interrogatori rapidi e sembrano non portare a nulla, ancora più  del solito. I personaggi che incontriamo, seppur variegati, li abbiamo tutti più o meno già incontrati nella galleria umana di Simenon, ma questa volta anzichè sfuggire tra dimenticati bistrot della periferia parigina o lungo le strade della campagna francese sono tutti prigionieri della malìa dell’isola, che avvinghia e fa ammalare di “porquerollite”, come affermano gli abitanti stessi.

Maigret viene chiamato nel cuore del mediterraneo perché è stato assassinato un uomo, tale Marcelline, un malvivente da quattro soldi che la sera prima del delitto aveva dichiarato di essere amico del famoso commissario parigino. Maigret è ormai diventato un personaggio di spicco, uno che compare sui giornali nazionali e che fa molto parlare di sè per la brillante risoluzione di casi difficili. Addirittura la sua notorietà ha attraversato La Manica, destando curiosità persino tra i colleghi di Scotland Yard, che proprio nei giorni dell’assassinio decidono di spedire in visita al  Quai des Orfèvres il pari- grado commissario Pyke. Pyke viene accolto con sollecitudine dai colleghi francesi e messo alle costole di Maigret, affinché possa vedere con i suoi occhi in cosa consiste il suo tanto decantato metodo, che poi metodo non è.

Una volta approdato sull’isola Maigret si lascia completamente trasportare, vittima inconsapevole di quella strana malattia che gli abitanti del posto conoscono così bene. Il porticciolo con le sue imbarcazioni turistiche, le barche tirate in secca dai pescatori che quando c’è il Mistral stanno tutto il giorno a cucire le reti, la piazzetta su cui si affaccia l’unico ritrovo del posto, “L’Arche de Noe”: con poche sapienti pennellate Simenon descrive un paesaggio che sembra sbucato fuori da un quadro impressionista, regalando al lettore intense suggestioni. Il Mistral se n’è andato lo stesso giorno in cui Maigret è sbarcato in quel luogo incantato, in cui il tempo  sembra avere  un respiro differente rispetto a quello che scorre a Parigi. Il tempo qui si dilata fino a farti dimenticare di vestirti per uscire dalla tua stanza d’albergo, ritrovandoti in ciabatte e veste da camera ad osservare il via vai del porto. E poi l’odore della domenica, un profumo di caffè e nostalgia che Maigret riconoscerebbe ovunque e che qui sull’isola è così amplificato da sconfiggerlo inesorabilmente, un sentimento languido a cui vorrebbe potersi abbandonare. Eppure,  tra quelle viuzze bianche investite da colori e profumi mediterranei, è stato commesso un efferato omicidio. Ed il colpevole non se ne è mai andao. Si  aggira noncurante insieme agli altri abitanti dell’isola, trascorrendo oziose giornate al sole caldo della primavera provenzale, tra un bianchino consumato all’Arche de Noè ed una partita a petanque. Tocca quindi investigare, e quel che è peggio è che lo deve fare in presenza di Pyke, il quale forse si aspettava qualcosa di più da quel viaggio e invece gli tocca fare il turista. Perchè quando Maigret si mette all’opera non prende penna e taccuino e non scandaglia la scena del crimine come un radar, ma comincia ad osservare: scruta la varietà umana che per un motivo o per l’altro popola l’isola – ognuno con un buon motivo per restare ed altrettanti per andarsene – si immerge nelle atmosfere che lo circondano e si lascia guidare dalle sensazioni che gli arrivano fino a quando, finalmente, tutto gli sarà chiaro. Come si può spiegare all’inglese Pyke cosa è l’intuizione, e come arriva? ” Questo è il mio metodo”, gli spiega Maigret.  E noi, una volta di più, abbiamo la certezza che nulla come l’empatia verso i nostri simili sia la chiave per comprendere la complessità delle vicende umane.