Mrs England, di Stacey Halls: il gotico in gran rispolvero

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in questo romanzo la protagonista, nonché l’io narrante, è Ruby May, una giovane bambinaia diplomata al prestigioso Norland Institute di Londra che, rimasta senza lavoro dopo aver rifiutato di trasferirsi in America al seguito della famiglia per cui lavorava, accetta senza indugio un nuovo incarico presso la famiglia England, nello Yorkshire. Ruby sa per esperienza che nessuna famiglia è perfetta, ma gli England sembrano incarnare magnificamente l’ideale edoardiano: un marito solido ed affasciante proprietario di una filanda, una moglie e una madre discreta, quattro bambini adorabili, una villa di campagna elegante con una nursery dislocata dal resto della casa. Ruby, appena arrivata col treno da Londra, pensa di aver trovato il luogo ideale in cui esercitare il proprio lavoro, anche se l’immagine della signora England che la osserva sulla soglia di casa le trasmette un’ inquietudine impossibile da decifrare. Non è solo la signora England a trasmettere sensazioni angoscianti, anche la lussuosa dimora che a prima vista sembrava sbucata fuori da una fiaba comincia a rivelarsi per quello che è, ovvero un guscio freddo, vuoto, immobile come una tomba. Giorno dopo giorno Ruby si troverà coinvolta nelle le pieghe di un matrimonio infelice, doloroso, in cui Mr England, uomo d’affari intraprendente e sicuro di sè, sembra incarnare la figura del marito e del padre esemplare, che offre protezione e cura alla prole e ad una moglie psicologicamente instabile. La famiglia England però non è la sola a custodire misteri e segreti inconfessabili : anche Ruby infatti serba nel cuore ricordi dolorosi che non ha mai rivelato a nessuno, dai quali fugge continuamente. In un crescendo di tensione e inquietudine, accompagnati dalle suggestioni di paesaggi brontiani magnificamente descritti, scardineremo il perbenismo di facciata degli England scoprendone miserie e debolezze, ed aiuteremo Ruby a liberarsi dall’ombra del passato.

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Un po’ “Cime tempestose”, un po’ “Rebecca la prima moglie”, quest’ultimo romanzo di Stacey Halls strizza l’occhio al romanzo gotico attingendo a piene mani dalle atmosfere della brughiera inglese di inizio 1900, foriera di suggestioni ed inquietudini come nella migliore tradizione di genere. L ‘autrice ha voluto rendere omaggio a capisaldi della letteratura di tutti i tempi cercando di ridare lustro ad un genere che in realtà non è mai sparito del tutto, anche se si colloca in un momento specifico della storia della narrativa. In questo contesto tipicamente “brontiano” la storia della famiglia England offre a noi lettori un accurato affresco della società edoardiana d’inizio secolo, un mondo ancora fortemente ancorato al passato in cui le differenze di classe erano nette ed invalicabili , così come i ruoli all’interno della famiglia.

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il Norland College, istituto in cui si è diplomata Ruby, esiste realmente ed è una prestigiosa istituzione fondata da Emily Ward a Londra nel 1892. Nel romanzo si parla molto della scuola, che ancora oggi sforna tra le migliori tate in circolazione, alcune delle quali sono state addirittura al servizio dei Royal babies. I particolari che emergono nel romanzo sono frutto di ricostruzioni molto fedeli di quello che rappresentava allora l’istituto, a cominciare dalla sua organizzazione interna fino ad arrivare agli aspetti più formali. Più volte durante il racconto la preparazione di Ruby si è rivelata fondamentale per aiutare i bambini nei momenti di difficoltà ancor più dei medici di famiglia, vecchi tromboni che guardavano queste giovani intraprendenti dall’alto in basso della loro supponenza. Un altro frammento della società di quei tempi che, disperatamente aggrappata alle sue tradizioni e ai suoi privilegi, è costretta a confrontarsi suo malgrado con le prime incursioni di modernità.

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 TE LO CONSIGLIO SE:

  • Cerchi una lettura che ti incolli alle pagine
  • Ami la brughiera e la vita bucolica
  • Ti diverti a dipanare i misteri

LEGENDA: 

📖= Uno sguardo alla trama (ma senza spoiler)

🔍= Il focus

💡= l’idea in più

Tre libri dalla parte delle donne

(Tempo di lettura: 7 minuti)

il “femminismo”, inteso come movimento socio culturale, ha segnato l’epoca moderna e ancora oggi continua ad essere il promotore di numerose battaglie per l’affermazione dei diritti di genere. Non dovrebbe essere una questione ancora aperta, ma il fatto che nel 2022 continui a fomentare dibattiti, a promuovere manifestazioni e istigare movimenti a tutela delle donne (dal recente “me too moviment” alla difesa del diritto all’aborto, minacciato dai governi più conservatori) la dice lunga su quanto in realtà siamo ancora molto lontani dal raggiungimento del suo obiettivo fondamentale: una presa di coscienza collettiva, forte e coesa, in grado di insinuarsi nella struttura patriarcale della nostra società. L’asservimento delle donne alla figura maschile è una realtà sociale ancora molto radicata, soprattutto in ambito familiare, ma spesso non ne siamo consapevoli. Inconsciamente mettiamo in atto meccanismi che ci riportano indietro di cent’anni, con buona pace di Emmeline Pankhurst e di Simone de Beuvoir, che col suo trattato “Il secondo sesso” fece tremare la classe politica di allora e scomodò persino il Vaticano. Per questo motivo vale la pena leggere ( o rileggere, perché no) questi tre saggi: perché ci insegnano a riappropriarci della nostra individualità, messa in crisi da anni di relazioni prevaricanti (in ogni ambito della vita), ribadendo i concetti che stanno alla base di una “mentalità femminista” sana e necessaria, che rifugge dagli estremismi e dalla violenza verbale del passato.

  1. UNA STANZA TUTTA PER SE’ di Virginia Woolf

Una delle opere più amate e conosciute di Virginia Woolf è il saggio breve “Una stanza tutta per sè”. Pubblicato per la prima volta nel 1929 e rivolto inizialmente alle sole studentesse di Cambridge, nel tempo è diventato un vero e proprio manifesto culturale del femminismo. Quello buono, sano e giusto. Quando lo lessi per la prima volta avevo circa vent’anni e mi era sembrato che la Woolf si stesse rivolgendo proprio a me, spronandomi a perseverare nei miei obiettivi e a non abbandonare i miei sogni di ragazzina, anche se la mia vita stava prendendo una piega decisamente diversa.  Ho riletto questo suo saggio di recente ed ho compreso che, se interpretato nel modo giusto, può contribuire a migliorare la quotidianità anche di donne già mature, che con la vita sono dovute scendere a patti. In uno dei suoi passi più significativi l’autrice sprona le sue lettrici a rendersi economicamente indipendenti, a ritagliarsi uno spazio proprio, sia fisico che mentale, nel quale esercitarsi a scrivere in piena autonomia di pensiero. Tendiamo infatti a tralasciare quello che per la Woolf è invece essenziale: Il coraggio di esprimersi liberamente. Quella forza creativa che, se risvegliata dal torpore, è in grado di ridare vita alle scrittrici  invisibili, morte senza essere mai nate veramente, inghiottite da un mondo di uomini fatto su misura per gli uomini. Come l’immaginaria sorella di Shakespeare, che la Woolf assurge a simbolo massimo del genio e della creatività femminile rimasti inespressi poiché schiacciati dalle società patriarcali che da sempre dominano la storia. Come quella che vive e freme  in ognuna di noi, sotto pile di indumenti da stirare.

“Una stanza tutta per sè” non deve quindi essere percepito come un luogo fisico, perché la Woolf parla di un luogo dell’anima. Così come le poetesse sconosciute a cui ridare vita non sono altro che la sua personale metafora sull’ emancipazione femminile, fondamentale punto di arrivo (o forse di partenza) per le donne di qualsiasi generazione.

2. STAI ZITTA di Michela Murgia

“…e altre nove frasi che non vogliamo sentire più.

Al netto di alcune esagerazioni di troppo ritengo che il lavoro di Michela Murgia sia piuttosto interessante, perché riesce sbugiardare molte espressioni tipiche del nostro linguaggio comune, rivelandone la natura fortemente maschilista e misogina. La Murgia elenca con precisione queste dinamiche linguistiche e le eviscera una ad una, fino a dimostrare come certi modi di dire siano entrati talmente tanto a far parte del nostro parlato quotidiano da non farci più percepire il loro vero significato. Secondo l’autrice tra le ingiustizie che subiamo in quanto donne e le parole che ci vengono quotidianamente rivolte esiste un legame profondo, avvilente e mortificante, che con questo breve saggio cerca di mettere a fuoco. Ad esempio, quando si parla di una donna che svolge egregiamente una professione importante, si fa sempre riferimento al suo essere o non essere madre, come se il fatto di avere o meno dei figli sia determinante per riconoscerne il valore sociale. “E’ molto brava nel suo lavoro, ed è anche mamma” è la frase simbolo che ogni tre per due viene sciorinata dal giornalista di turno. Basti pensare alla povera Samanta Cristoforetti che si è dovuta sorbire soprannomi del tipo “Astromamma”, con relativi commenti poco edificanti sulle sue scelte professionali a discapito della famiglia: aggettivi inutili e fuorvianti che inevitabilmente portano in secondo piano l’eccezionalità della sua carriera. Che in realtà è ancora scivolata in terza posizione, visto gli insulti ricevuti per essersi mostrata al mondo con una capigliatura da assenza di gravità che secondo alcuni “luminari” la denigrava come donna. Come detto all’inizio del post in alcuni punti ho trovato lo scagliarsi della Murgia contro queste frasi di uso comune un po’ eccessivo e ridondante, con esempi e passaggi ricchi di autocompiacimento, tuttavia ne consiglio la lettura perché contiene molti spunti di riflessione, da rielaborare per un nostro accrescimento personale.

3. DOVREMMO ESSERE TUTTI FEMMINISTI di Chimamanda Ngozi Adichie

Questo saggio, pubblicato nel 2014, è l’adattamento di una conferenza che l’autrice tenne qualche anno prima durante l’evento TEDxEuston. TED è un’organizzazione no profit americana che ha come obiettivo la diffusione di idee innovative e stimolanti che possono cambiare la vita delle persone e il modo in cui esse si relazionano l’una con l’altra. Nessuno meglio di Chimamanda avrebbe potuto rappresentare questo progetto: il suo intervento ha letteralmente segnato un punto di svolta nella storia del femminismo, arrivando al cuore delle persone con una forza e una semplicità unica. Il suo speech conta ad oggi qualcosa come 5 milioni di visualizzazioni ed è stato pubblicato e tradotto in 28 lingue; il Time, nel 2015, inserisce la scrittrice nigeriana tra le 100 persone più influenti del mondo. Il successo di questo saggio sta nella diversità del suo approccio rispetto alla questione femminista: Chimamanda si definisce una “femminista africana felice”, che ama indossare il rossetto e i tacchi alti perché così si piace di più e che non odia affatto gli uomini, perché un’ attivista non deve essere necessariamente arrabbiata, in lotta perenne con il mondo. La sua non è una chiamata alle armi per affrontare l’ennesima battaglia, ma vuole far comprendere a tutti, uomini e donne, che esiste un serio problema con la differenziazione di genere e che tale situazione può essere risolta solo attraverso la consapevolezza e la volontà di smantellare i vecchi costrutti sociali. Afferma Chimamanda: “La mia definizione di “femminista” è questa: un uomo o una donna che dice sì, esiste un problema con il genere così com’è concepito oggi e dobbiamo risolverlo, dobbiamo fare meglio. Tutti noi, donne e uomini, dobbiamo fare meglio”. E’ proprio questo il punto. Educare i maschi e le femmine al valore dell’altro sesso, senza preconcetti, senza quei retaggi culturali da cui noi adulti ci stiamo liberando a fatica. Grazie all’intelligenza e alla grazia di questa scrittrice immensa il femminismo ha perso definitivamente la sua accezione negativa, dimostrando quanto non sia più necessario fare la barricadera per difendere i propri diritti, ma è sufficiente aprirsi al cambiamento ed accoglierlo al meglio.

“Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”, di Mary Ann Shaffer: l’occupazione nazista nella Manica

“Il club del libro e della torta di bucce di patata di Guernsey”, a dispetto del titolo curiosamente buffo, è un romanzo profondo e commovente che ho avuto la fortuna di leggere grazie al mio club del libro, con il quale affrontiamo letture mensili scambiandoci impressioni, sorrisi e tazze di tè.

Questo è uno di quei romanzi che, una volta terminati, ti fanno venire voglia di preparare i bagagli e di partire immediatamente verso la minuscola Isola di Guernsey, nel canale della Manica. Prima di leggere il libro (e di aver visto il film, di cui però ho vaghissimi ricordi) non sapevo nemmeno cosa fosse e dove fosse Guernsey, figurarsi poi se ero al corrente della sua incredibile storia. Google alla mano, leggo che “il Baliato di Guernsey è uno stato autonomo di fronte alla costa della Normandia ma dipendenza della corona britannica, dove si parla inglese, il guernese (variante del normanno francese) e altre lingue delle isole del canale”. Queste informazioni  mi sono state di aiuto per contestualizzare la storia narrata, a cui l’autrice ha voluto dare voce dopo essere soggiornata a Guernsey nel 1980. Mary Ann Shaffern, libraia, bibliotecaria ed editor, parlando con gli abitanti del posto decide di compiere alcune ricerche più approfondite sulle vicende storiche dell’isola durante l’occupazione nazista, rimanendone affascinata al punto da voler scrivere un libro a riguardo. La sua protagonista Juliet rappresenta quindi una specie di alter ego, alla quale viene affidato il compito di riconsegnare alla memoria collettiva un pezzo di storia europea completamente dimenticata: quella dell’unico lembo di terra che Hitler riuscì a strappare alla Corona Inglese, con l’intento di trasformarlo in un avamposto militare per il controllo della Manica. Siamo nel 1946 e l’isola risente ancora dei pesanti strascichi dell’occupazione nazista. Juliet Ashton, giovane ed intraprendente giornalista londinese alla ricerca dell’ispirazione giusta per confezionare il suo nuovo romanzo, comincia per una mera casualità del destino una fitta corrispondenza con alcuni abitanti dell’isola. Spinta dalla curiosità di conoscere di persona i suoi amici di penna e desiderosa di lavorare alla sua nuova idea, deciderà di raggiungere Guernsey lei stessa, con disappunto del fidanzato e il benestare del suo editore. La vita sull’isola in pochi giorni la cattura e l’avvolge con la piacevolezza di una coperta calda, restituendole col suo tepore un’essenza vitale che pareva perduta per sempre tra le macerie di Londra. La vita di Juliet è apparentemente perfetta: è una ragazza carina e solare, con una vita piena e soddisfacente, un lavoro interessante che le ha conferito una certa popolarità ed un corteggiatore che pare sbucato fuori da un libro delle fiabe, desideroso di impalmarla al più presto. Eppure, dopo le prime missive scambiate col timido Darwsey, sente un irresistibile richiamo che la allontana lettera dopo lettera dalla sua vita londinese con le sue promesse di rinascita.

E’ stata una lettura semplicemente perfetta, a cui la forma epistolare ha aggiunto quel “quid” in più, rendendola scorrevole e molto piacevole. Mary Ann Shaffer è morta prima di riuscire a terminare il romanzo, è per questo che in copertina figura un doppio nome tra gli autori: è stata infatti la nipote Annie Barrows a portare a termine il suo lavoro, mantenendo intatto il senso e lo stile della zia. A mio sindacabilissimo giudizio l’autrice è riuscita a coniugare con grande abilità lo spessore storico degli eventi narrati all’ironia e alla leggerezza liberatoria dei protagonisti che in prima persona raccontano le loro terribili esperienze, alcune non ancora concluse. E’ la voce di chi è riuscito con fatica a tenere testa a all’orrore, dando respiro a quella voglia di vivere che a dispetto di tutto è rimasta incollata addosso anche in mezzo alle tragedie, come una seconda pelle. Sono persone impaurite e mutilate nell’anima, eppure non c’è traccia di commiserazione in loro, tutt’altro. Nella disperazione di quei lunghi mesi riescono a trovare qualcosa di straordinario che li salva e li unisce: “Leggemmo di libri, parlammo di libri, discutemmo di libri, e diventammo sempre più vicini gli uni agli altri… e le nostre serate insieme divennero momenti vivaci e luminosi – potevamo quasi dimenticare, adesso e allora, l’oscurità all’esterno.” Sì, è stato proprio questo a tenerli vivi: un improbabile gruppo di lettura nato nel pieno dell’occupazione, tra coprifuoco e privazioni di ogni genere. Il senso di comunione degli isolani protagonisti, e la forza straordinaria che ne scaturisce, è come un balsamo che allevia il dolore, che cura le ferite più profonde, e che miracolosamente fa stare meglio anche noi mentre leggiamo. Perché il contorno sarà anche finzione a scopo narrativo, ma la storia non lo è affatto. La paura, la fame, le deportazioni, i lavori forzati, le bombe, le macerie, l’isolamento dal resto del mondo, l’assenza di notizie, i bambini allontanati nelle campagne inglesi, gli aiuti umanitari della Croce Rossa arrivati dalla neutrale Svizzera, quando ormai stavano tutti morendo di stenti nell’indifferenza del quartier generale britannico preoccupato di non far intercettare i viveri ai nemici più che della sopravvivenza degli isolani. Questo è reale, lo sarà sempre e noi abbiamo il dovere di ricordare fino a che ne saremo capaci. Ho sorriso lo stesso numero di volte in cui mi sono commossa, in un perfetto equilibrio, ed ho desiderato che le pagine fossero almeno il doppio, perché non volevo lasciare Guernsey. Non la volevo lasciare non solo perché ho amato pazzamente tutti i personaggi, l’ambientazione storica e geografica, o perché mi ha aiutato a conoscere un pezzo di storia che colpevolmente ignoravo. Ho amato Guernsey soprattutto perché è portatrice di un messaggio importante che condivido pienamente, di cui anche tutti noi in fondo siamo un po’ testimoni: che i libri ci salvano sempre, ed i legami che essi creano sono qualcosa di indissolubile, un richiamo fortissimo alla vita che ci arricchisce e ci fa crescere continuamente.

P.S.

Dal romanzo è stato tratto anche un film, uscito per Netflix qualche anno fa. Delizioso, ma il libro ha decisamente una marcia in più!

“L’assassinio di Florence Nightingale Shore” e “Morte di un giovane di belle speranze” di Jessica Fellowes: le sorelle Mitford tra storia e delitti irrisolti

“I delitti Mitford” sono una serie di romanzi gialli usciti dalla fantasiosa penna di Jessica Fellowes, scrittrice britannica molto amata in patria grazie anche allo straordinario successo ottenuto da “Downtown Abbey”, serie tv a cui lei, nipote del suo famoso ideatore e  sceneggiatore Julian Fellowes, ha collaborato. In realtà il suo è stato più che altro un lavoro da “dietro le quinte”, quel tanto che è bastato però per farle decidere – evidentemente –  di abbandonare la sua carriera da redattrice per tuffarsi anche lei nel mondo del melò storico, attingendo a piene mani  da uno dei periodi più affascinanti del secolo scorso. La  tipica atmosfera “upstairs downstairs” edoardiana, così ricca di contraddizioni tra il forte ancoraggio al passato e le prime incursioni di modernità, viene arricchita dall’elegante suspense del giallo alla Agatha Christie e dal glamour delle indiscusse protagoniste delle cronache britanniche dell’epoca: le celeberrime sorelle Mitford.

Nancy, Pamela, Diana, Unity, Jessica e Deborah appartenevano a quell’aristocrazia inglese che, aggrappandosi ai suoi retaggi di classe, cercò di sopravvivere nel periodo a cavallo tra le due guerre mondiali senza mollare mai la presa su quello che da sempre la contraddistingueva: molteplici privilegi, grandi manieri di campagna, una numerosa servitù coordinata da maggiordomi e governanti, l’irrinunciabile stagione londinese con i suoi eventi mondani, matrimoni combinati, passioni sottaciute. Jessica Fellowes, durante la presentazione del primo romanzo della serie,  ha affermato che le sei sorelle Mitford “Hanno incarnato, talvolta con una notevole dose di anticonformismo, altre meno, lo stile di vita delle élite dell’epoca, ma anche una sorta di protagonismo femminile per certi versi ante litteram.” La più grande, Nancy, nacque nel 1904 mentre la più giovane, Deborah, nel 1920: ognuna di loro ha quindi attraversato fasi diverse della storia britannica, raggiungendo il punto più alto della propria “carriera sociale” in periodi ovviamente differenti. Le loro vicende personali si intrecciarono con i personaggi  e gli  eventi storici di quegli anni travagliati,  garantendo ad ognuna di loro esperienze uniche. La politica senza dubbio forgiò la loro personalità fin da piccole, e non sarebbe potuto essere altrimenti avendo in famiglia un cugino del calibro di Winston Churchill. Tuttavia, affascinate com’erano dalle passioni  della gente comune, nelle loro vite non mancarono incontri con i fascisti londinesi, con il quartier generale Hitleriano, addirittura con i militanti delle brigate internazionali anti-franchiste. Queste conoscenze furono decisive per la loro formazione ideologica che, neanche a dirlo, non fu la stessa per tutte: alcune di loro appoggiarono fazioni completamente diverse, se non addirittura opposte. Unity, dapprima fascista come la sorella Diana e successivamente nazista convinta, visse per un periodo in Germania entrando nella schiera personale di Adolf Hitler; Jessica divenne, assieme al marito, un’ attivista del partito comunista,  e partecipò a numerose campagne per i diritti civili in difesa degli ultimi; Diana si dedicò alla propaganda fascista dando vita con il suo amante del periodo al B.U.F, il “British Union of Fascists”; Pamela aveva le sue convinzioni antisemitiche ma non lo manifestò mai pubblicamente, preferendo la tranquilla vita di campagna all’intraprendenza delle sorelle; Nancy e Deborah, rispettivamente la maggiore e la minore delle sei, si dedicarono ad altro, diventando l’una scrittrice, definitivamente ispirata dall’incontro con Evelyn Waugh, e l’altra imprenditrice, che ristrutturò e trasformò la dimora di campagna del marito in una grande fattoria, impiegando nei suoi progetti almeno un centinaio di persone. Insomma, un vero e proprio  caleidoscopio umano all’interno dello stesso nucleo familiare, in grado di accendere gli incolori salotti della buona società britannica  con una piccante dose di  sensualità, di  intraprendenza  e di scandalosa modernità. 

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Le fascinose sorelle Mitford, gli anni venti, una serie di delitti irrisolti: l’idea vincente di Jessica Fellowes è stata quella di mescolare insieme tutti questi ingredienti per realizzare un prodotto che potesse affiancarsi allo stile di Downtown Abbey, aggiungendo però, al tempo stesso, un tocco di originalità. La componente misteriosa, così come la scelta di agganciarsi a fatti reali delle cronache di allora, svecchiano un po’ le atmosfere compassate dell “upper class” e rendono la lettura più frizzante.  Ogni romanzo è ispirato ad una delle sorelle, in ordine cronologico: si parte da Nancy, protagonista de “L’assassinio di Florence Nightingale Shore”, per arrivare al secondo “Morte di un giovane di belle speranze“, incentrato su Pamela. L’ultimo, appena edito da Neri Pozza, è “Scandalo in casa Mitford“, dedicato a Diana, ed è l’unico dei tre che non ho ancora letto. In realtà  le protagoniste assolute non sono le Mitford,  le quali fungono più che altro da riferimento, bensì la loro cameriera  Louisa  Cannon, che incontriamo nel primo volume e che, insieme all’agente di polizia Guy Sullivan, saranno presenti in tutti i romanzi della serie, costituendone il vero “file rouge”. Assunta inizialmente ad Asthall Manor  come cameriera addetta alla nursery, riesce ad instaurare un buon rapporto con tutte e sei le ragazze, diventando  il loro chaperon e, soprattutto, la confidente dell’allora sedicenne Nancy.


I sei volumi non sono capitoli a sè stanti, ma parti di un racconto di più ampio respiro, in cui accanto all’evoluzione delle sei sorelle, che da ragazzine si trasformano poco alla volta in giovani donne con le proprie inclinazioni e le proprie peculiarità, scorre la storia di un intero paese, alle prese con cambiamenti epocali. Le tensioni interne sono al massimo, si stava profilando all’orizzonte una società del tutto nuova. Le distanze tra servitù e signorie si accorciano sempre di più ed i legami che nascono tra le mura domestiche, come l’amicizia tra Louisa Cannon e Nancy Mitford, rompono gli schemi e mettono in discussione la rigida divisione in classi dell’ aristocrazia. La voce delle donne emerge con forza sempre maggiore, spinte da nuove prospettive esistenziali e, conseguentemente, da nuove necessità e richieste di diritti.


Dopo la prima guerra mondiale infatti in Gran Bretagna emerse quello che la stampa di allora definì “Il problema delle donne in eccedenza”: oltre un milione e mezzo di uomini non tornarono dal fronte, o tornarono in gravissime condizioni. Per molte donne, educate fino ad allora ad avere come unico obiettivo  quello di sposarsi e mettere al mondo figli, tutto cambiò   e si ritrovarono improvvisamente, per la prima volta, padrone della propria vita. E’ Louisa Cannon, ancora una volta, a rappresentare al meglio questo primo timido soffio di libertà, al contempo spaventoso ed eccitante.

Il primo romanzo, basato sul vero omicidio di Florence Nightingale Shore, rimasto irrisolto, non mi è piaciuto tanto quanto il secondo. Le tematiche di fondo sono appena abbozzate ed il giallo legato al misterioso assassinio su cui Nancy e Louisa decidono di indagare non è sviluppato a dovere, rendendo il tutto piuttosto insipido. Tuttavia l’idea di base mi convinceva, per questo ho deciso che avrei  continuato a leggere la saga, e per fortuna non sono rimasta delusa. “Morte di un giovane di belle speranze” si collega alla storia di Alice Diamond e delle quaranta ladrone, una fuorilegge a capo di una banda di rapinatrici realmente esistite. Nancy è cresciuta, ed ora tocca a Pamela debuttare in società. Ma la sera del suo 18 esimo compleanno, ad Asthall Manor un giovane rampollo invitato alla festa viene trovato assassinato.

Louisa si ritroverà nuovamente coinvolta nelle indagini, aiutata dall’arguta e curiosa Nancy. Sullo sfondo troviamo una Londra in pieno fermento, in cui una nuova generazione deve inventarsi un differente modo di stare al mondo, con nuove regole, nuovi riferimenti: un girotondo di vite in cui le differenze sociali tra upper e working class stanno lentamente sbiadendo tra le pagine della storia.

I delitti Mitford – Jessica Fellowes (Neri Pozza)

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“Morte a Pemberley”, di P.D. James: un giallo per i coniugi Darcy

L’acquisto di questo libro ha scavalcato tutti gli altri in ordine di priorità perchè sono stata fatalmente attratta dalla copertina, che ha richiamato subito alla mia mente Jane Austen e le sue incredibili atmosfere. A dire il vero avevo adocchiato questo libro in biblioteca ai tempi in cui uscì, e lo presi in prestito per mia madre. Lo lesse con poco entusiasmo a ben pensarci, ma io comunque all’ epoca predilessi altre letture e poi tutto finì nel dimenticatoio. Fino a quando non lo rivedo in libreria, occhieggiante e malizioso, e finisco per comprarlo insieme ad una discreta pila di altri volumi. Il mio entusiasmo iniziale era dovuto al fatto che amo molto i gialli, su questo tipo di romanzi ho imbastito la mia carriera di lettrice e sarò sempre grata alla Signora Christie e al Signor Simenon per aver alimentato in me una passione autentica per la meticolosità e la sagacia di Poirot e per le indagini psicologiche del burbero Maigret. Jane Austen poi, è un altro amore di vecchia data: Orgoglio e Pregiudizio era nella biblioteca dei miei genitori dagli anni sessanta, e fu una delle mie prime letture da adulta: ho adorato Elizabeth Bennet, così come Mr. Darcy. Insomma, questi ingredienti amalgamati insieme ad opera di una acclamata signora del giallo avrebbero dovuto investirmi di pura gioia durante la lettura. E invece no, per niente. Mi sono annoiata a morte! L’acclamata P. D. James secondo me avrebbe fatto meglio a non cimentarsi in un’opera così, perché si sente ad ogni riga che la sua penna di giallista era come frenata, obbligata a seguire il ritmo lento dello stile ottocentesco di Jane Austen, per la quale anche solo la descrizione di un soggiorno addobbato per l’ora del tè diventa un elaborato esercizio stilistico, con squisite fioriture letterarie che però levano inevitabilmente tempo all’ azione. Un giallo deve avere alcune caratteristiche di base, altrimenti annoia: il ritmo deve essere serrato, i colpi di scena dietro l’angolo, la suspence deve essere un filo conduttore invisibile e continuo, che non molla mai la presa. I protagonisti sono gli stessi di Orgoglio e Pregiudizio, ed essendo passati diversi anni da quando lo lessi ho dovuto fare un notevole sforzo di memoria (che non ho) per incastrare debitamente i nomi e le parentele, che non sono affatto pochi. E già questo mi ha infastidita, perché sarebbe bastato qualche dettaglio aggiuntivo per aiutarci ad entrare nel fitto della storia. Troviamo Elizabeth e Mr. Darcy felicemente spostati, residenti nella splendida dimora di Pemberly, intenti a dare il loro primo ballo in qualità di padroni della tenuta. Elizabeth è presa dai preparativi e la sorella di Darcy, Georgiana, le è accanto in questa impresa. Delle cinque famose sorelle Bennet quattro si sono sposate, mentre Kitty è rimasta nella tenuta di famiglia ad occuparsi degli anziani genitori: la madre, sempre insulsa e petulante, ed il padre, sempre arguto ed appassionato lettore, e sempre desideroso di essere lasciato in pace dalla moglie e dalle figlie, fatta eccezione per la favorita Elizabeth.

Era opinione comune delle donne di Meryton che Mr e Mrs Bennet di Longbourn fossero stati fortunati riguardo alla sistemazione di quattro delle loro cinque figlie.”

Insomma, nulla è cambiato nei rapporti familiari: ora, ad allargare le vanterie della signora Bennet e l’insofferenza del signor Bennet, ci sono anche i nipoti. Ma in questa storia i familiari di Elizabeth vengono toccati solo in parte, perché tutto ruota intorno alle antiche conoscenze di Mr. Darcy che sopraggiungono a Pemberley per motivi diversi. Non posso svelare molto della trama, perché si tratta pur sempre di un giallo e quindi ogni parola che scrivo potrebbe far arrivare alla soluzione. La notte prima del ballo, un terribile fatto di sangue sconvolge Pemberley e tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, si trovavano lì quella notte. Da quel momento in poi, srotolando una bobina che si muove con estrema lentezza, arriveremo alla verità. Non prima di aver sbadigliato ennemila volte, domandandoci continuamente cosa stessimo leggendo in realtà: una prosecuzione di Orgoglio e Pregiudizio di cui non si sentiva affatto il bisogno, o un giallo sbiadito in cui le indagini sono pedanti e inconcludenti, i personaggi spenti come un candelabro nel cuore della notte e l’attesa ridotta a un unico, grande sbuffo?


L’intento dell’autrice era anche nobile, credo, ma io sono una di quelle puriste che pensano sia meglio lasciare in pace zia Jane e tutto ciò che la sua penna ha creato, perché il rischio è quello di creare forzature che risultano finte e sgradite.


La signora James scrive molto bene, e su questo non ci piove, ma il tentativo di dare continuità alla storia l’ha obbligata ad utilizzare uno stile innaturale, “austiniano” solo per il dilungamento nel descrivere stati d’animo e ambientazioni, ma per nulla riuscite. E questa scelta, che non trovo attraente per un lettore come me, è stata penalizzata ulteriormente dall’ idea, veramente malsana, di imbastire un giallo in mezzo a galantuomini e donne svenevoli.

Inoltre diciamolo apertamente: Mr Darcy, da sposato, perde tutto il suo fascino.

 

“Chocolat”, di Joanne Harris: che sapore ha la felicità?

Quando vidi il film “Chocolat“, con Juliette Binoche e Johnny Depp, mi innamorai del piccolo paesino francese di Lansquenet, in Provenza, e dell’incantevole Vianne Rocher. Ma il libro è proprio un’altra cosa. Prima di tutto alcuni elementi fondamentali sono stati cambiati, ma è soprattutto la passione fugace tra Vianne e Roux ad essere stata completamente trasformata: ciò che nel libro è velato e marginale nel film diventa il perno su cui ruota buona parte della sceneggiatura. A ben guardare infatti la locandina del film rappresenta un’ammiccante Juliette Binoche che offre un cioccolatino all’affasciante Johnny Depp, con un chiaro intento seduttivo. L’immagine richiama ad una maliziosa  passione tra i due, ma Joanne Harris ha previsto ben altro per Vianne. Il cioccolato per l’autrice non rappresenta un afrodisiaco che lega i due amanti, ma diventa uno strumento importante, quasi divinatorio, attraverso il quale la giovane donna riesce a donare  istanti di gioia  alle persone. Vianne riesce a leggere l’infelicità nei cuori degli altri: la intuisce, la vede,  la sente su di sè e trova il rimedio adatto per lenire i dolori di ognuno. Perchè  il cioccolato  inebria i sensi e regala istanti perfetti.
Vianne e la figlioletta Anouk arrivano a Lansquenet un giorno di febbraio,  durante il carnevale. Il vento fa vorticare gli ultimi fiocchi di neve in un turbinio di profumi che sanno di festa, per poi posarsi lievi sui marciapiedi lungo le strade. E’ martedì grasso, l’ultimo giorno prima della quaresima, periodo di rinunce di penitenza.Vianne sa che per lei la giornata assumerà un risvolto partocolare: quello che sta soffiando è un  vento diverso da ttuti gli altri, lo percepisce nitidamente annusando l’aria. E’ un vento che conosce bene, perché lo insegue  da tutta la vita. Quando quel vento soffia, significa che per lei ed Anouk  è giunto il momento di affrontare un nuovo percorso.
E’ deciso: si fermeranno a Lansquenet.
La vita nel piccolo paesino scorre placidamente, gli abitanti sono chiusi in una loro naturale ritrosia ed il capo spirituale della microscopica comunità, un giovane curato bigotto e ottuso,  identifica immediatamente Vianne come una figura negativa e pericolosa per l’equilibrio spirituale dei suoi parrocchiani. Francis Raynaud è attratto dal fascino della donna ma al tempo stesso ne è anche terrorizzato: in lei vede un’ autentica tentazione demoniaca. Non è sposata, è una ragazza madre, è decisa ad aprirsi un’attività tutta sua per mantenere se stessa e la figlia e non ha bisogno dell’aiuto di nessuno. Inoltre non è nemmeno credente! Non solo il parroco, ma anche la maggior parte degli abitanti di Lansquenet nutrono diffidenza e sospetto nei suoi confronti, e vedono la  provocazione dappertutto: nei suoi abiti colorati, nei suoi capelli lunghi e fluenti che porta sciolti,  in quegli occhi neri che  leggono dentro le persone…  Lo scompiglio che porta nell’immobilità di quel paese così insignificante da essere dimenticato persino dalle cartine geografiche è inevitabile. Ma Vianne lo sa, l’ha già sperimentato tante altre volte, e non se ne cura. Prende in affitto la vecchia panetteria del paese e la trasforma ne ”La Celeste Praline“, una cioccolateria festosa e piena di delizie. In pochi giorni il locale viene rimesso in sesto e reso accattivante dalle sapienti mani di Vianne e dalla piccola Anouk che con la sua gioia infantile dona un tocco ancora più magico all’insieme. Sono diversi i personaggi che da quel giorno in avanti cominceranno a gravitare intorno alla cioccolateria, dapprima timidamente e quasi sentendosi in colpa per quelle golose concessioni, per poi lasciarsi andare completamente ai piaceri del palato. Ogni dolcetto  viene scelto con cura da Vianne, perché sa esattamente quali sono i preferiti di ognuno: è una dote naturale, una specie di stregoneria. Ad ogni piccolo morso sembrano sciogliersi, come il cioccolato nei loro palati, fino a raggiungere il punto più segreto ed intimo della loro anima. In un crescendo quotidiano di amicizia e di nuove consapevolezze, i sentimenti vecchi e nuovi si mescolano ad innocenti peccati di gola, portando istanti di felicità a chi aveva smarrito la strada. Un uomo timido e solo, che ha come unico amico un cane ormai vecchio e malato; un’anziana signora in lotta da anni con la figlia, che vuole vivere e morire come meglio crede; una donna imprigionata in un matrimonio sbagliato con un uomo orribile, che deve ritrovare prima di tutto l’amore per sè; un gruppo di nomadi che vivono sulle barche ormeggiate lungo il fiume, rifiutati e disprezzati dalla comunità perché non hanno scelto di conformarsi alla vita del paese. Ed infine c’è Roux, lo zingaro scontroso e sfuggente con i capelli rossi come il diavolo, ma onesto e dal cuore grande. Questo è il caleidoscopio umano che l’autrice ci presenta, una varietà imperfetta e piena di tribolazioni, ma con un unico desiderio: riconoscere ancora il sapore della felicità.

“Mi piacerebbe … seguire il sole con nient’altro che una valigia e non avere la minima idea di dove sarò domani.”

Joanne Harris riesce a rendere l’atmosfera del romanzo unica. Gli argomenti affrontati non sono frivoli, tutt’altro: l’emarginazione, la diversità, la solitudine, l’amicizia, la malattia, la vecchiaia, il senso di perdita…tutto viene toccato con la giusta dose di profondità, ma anche stemperato da un senso di leggerezza che addolcisce le pene, esattamente come il cioccolato. Sfogliando le pagine si ha davvero una sensazione olfattiva molto intensa, che attinge dai nostri ricordi, perchè le parole hanno un potere evocativo fortissimo. Il cibo e lo spirito sono legati indissolubilmente, questo viene da pensare mentre abbiamo la certezza di sentire il profumo inebriante del pan au chocolat invadere la nostra stanza.

Chocolat, Joanne Harris (Garzanti)

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“Via dalla pazza folla”, di Thomas Hardy: la poesia della vita pastorale

Era da diverso tempo che desideravo fare la  conoscenza di Thomas Hardy, importante autore inglese di fine ottocento che, sia  per l’epoca in cui visse che per le tematiche  pessimiste che adombrano le sue opere, costituisce  un importante collegamento tra l’epoca vittoriana e quella del primo novecento, in cui si consolida l’idea che l’uomo è in mano ad un destino ineluttabile, spesso crudele, contro cui non può combattere. Hardy sembra anticipare un ideale filosofico ancora agli albori, ed in questo  risiede buona parte della sua particolarità e della sua  modernità. E’ un autore molto innovativo anche per lo stile cinematografico che utilizza nei suoi  romanzi: noi lettori abbiamo la continua percezione di essere  onniscienti di fronte alle scene che lui descrive, totalmente parte dei paesaggi e di una  vita rurale magnificamente descritta. Nessun filtro sembra separarci dalla vita bucolica che Hardy ama raccontare, le immagini sono vivide e le sensazioni molto forti, quasi fossero anche olfattive e tattili. Il mondo pastorale è molto caro a Thomas Hardy: tutti i suoi romanzi sono infatti ambientati nel Wessex (nome fittizio della contea del  Dorset) a cui è  legato da nostalgici ricordi d’infanzia e da memorie del passato. Nacque infatti nel cuore della campagna inglese da una famiglia di umili origini, un mondo lontano e pieno di poesia che nella sua prosa diventa il protagonista assoluto, ben più dei personaggi a cui da vita. ”Via dalla pazza folla” è il  primo romanzo ambientato nel natìo Wessex, ed ha come protagonista la vita di una piccola comunità rurale. Tutto è permeato da un’intensa poesia, a cominciare dal titolo: non richiama un nome, un protagonista o un eroe da romanzo, bensì un mondo idilliaco che per l’autore è la massima espressione della vita stessa, l’ambizione suprema cui dovrebbe aspirare l’essere umano. Nella visione di Hardy il mondo rurale è l’unico scenario possibile in cui l’uomo e la natura possono convivere in perfetta armonia, ed allontanarsi da questo provocherebbe solo sofferenza e dolore. Se la felicità ha un luogo in cui insediarsi, è sicuramente lontano dalla convulsione cittadina.
All’interno di questo mondo che ha i colori e le forme di un quadro di Millais, viene ritratta la figura indimenticabile di una giovane donna anticonformista, testarda, indipendente e volitiva: Bathsheba Everdene. Il romanzo si apre con la sua comparsa, una visione fugace eppure così intensa  da sconvolgere  per sempre la vita tranquilla del fittavolo Gabriel Oak. Gabriel, all’inizio del romanzo, è un uomo che ha dedicato tutta la sua vita al lavoro, costruendosi una buona posizione all’interno della piccola comunità. Dopo molti sacrifici è riuscito ad avere un proprio gregge di pecore, e questo gli ha consentito di elevarsi socialmente: nella realtà contadina di quei tempi possedere capi di bestiame, o una terra da coltivare, significava essere benestanti. Gabriel si innamora subito di Bathsheba, la quale  aldilà di un carattere bizzoso non possedeva nulla; nonostante la sua condizione di povertà  rifiuta risoluta la proposta di matrimonio di Gabriel, disinteressata com’era agli uomini e saldamente legata alla sua idea di libertà.
L’imprevedibilità della vita porta però ad un ribaltamento delle condizioni economiche e sociali dei due protagonisti. Gabriel in seguito ad un incidente perde tutti i suoi capi di bestiame, ancora non assicurati, e il disastro economico lo obbliga a cercare lavoro presso una fattoria. Bahtsheba invece  eredita inaspettatamente alcuni possedimenti da uno zio, diventando così  fittavola a sua volta. Questo rovesciamento improvviso della sorte serve all’autore per mettere in evidenza gli aspetti caratteriali dei protagonisti, che riescono ad adattarsi alle nuove condizioni di vita affidandosi solo alla propria forza d’animo. Gabriel, solido e maturo, continuerà a svolgere al meglio il proprio lavoro di pastore alle dipendenze della donna che ama, per la quale nutre un sentimento sincero e profondo, indifferente alla gelosia e alle ripicche infantili tipici degli innamorati. Quando capisce che la sua nuova condizione non gli permetterà mai di conquistare il cuore di Bahtsheba si mette da parte con dignità e compostezza, senza pestare i piedi o mettersi ad imprecare contro la sorte avversa. Attende, paziente, il suo momento. Egli è certo che arriverà, così come è certo dell’alternarsi delle stagioni. Adatta l’amore che sente per Bahtsheba all’amicizia, diventando suo confidente e consigliere per quanto riguarda le faccende della fattoria. Una solida presenza che gravita nell’ombra, pronto ad intervenire nei momenti di bisogno: è questo ciò in cui si trasforma Gabriel Oak per amore. Bathsheba, dal canto suo, deve fare i conti con una grande proprietà da gestire, che non intende affidare a nessun altro. Decide così di farsi carico personalmente dei doveri di fattrice, organizzando il lavoro degli uomini  e gestendo gli aspetti economici della fattoria. Un compito tutt’altro che semplice, ma la sua indipendenza e la sua testardaggine non le consentono di scendere a patti con niente e nessuno.
Essersi tirata addosso tutto ciò era una cosa terribile; ma dopo un po’ la situazione non era senza una certa paurosa gioia. La facilità con la quale anche la donna più timida prende a volte gusto al terribile, quando è amalgamato con un piccolo trionfo, è stupefacente.
Bathsheba è una donna straordinariamente moderna per i suoi tempi ed ha ben poche cose in comune con la maggior parte delle ragazze dell’epoca: non le interessa il matrimonio, perché  sposarsi e diventare moglie di qualcuno soffocherebbe la sua libertà e la sua indipendenza. Scegliere di condurre da sola una fattoria  diventando il capo di contadini, pastori ed operai è una presa di posizione forte e assolutamente fuori dal comune per l’epoca, che Bathsheba compie con un grande senso di responsabilità. Tuttavia è pur sempre una donna, bella e volitiva, che ispira amore e  desiderio negli uomini. E’ indipendente e testarda, ma questo non le impedisce di essere  immune alle lusinghe amorose  e all’attrazione nei confronti dell’altro sesso. Oltre a Gabriel, altri due uomini si contendono l’amore di Bathsheba: Francis William Troy, ufficiale dell’esercito affascinante ed inaffidabile, e Bolwood, il fattore delle confinanti proprietà, che conduce una vita riservata e severa. Alla fine di una lunga attesa arriverà per Gabriel il momento della ricompensa, perchè nella visione di Thomas Hardy la vita premia sempre chi sa attendere. Le vicende amorose di Bathsheba, al centro di un intreccio che ci riserverà numerosi colpi di scena, è comunque solo un delizioso contorno. Come affermavo all’ inizio il vero protagonista di questo romanzo è la campagna inglese di fine ottocento, con i suoi antichi rituali: la tosatura delle pecore, la festa della mietitura del grano, il lavoro nella malteria.
Ogni momento di vita pastorale viene descritto con una tale bellezza che è impossibile resistere alle suggestioni della scrittura di Hardy, veniamo letteralmente trascinati dalla sua  forza espressiva e ci sentiamo parte di quelle scene di vita semplice ed agreste, completamente appagati. Mentre leggiamo veniamo pervasi dal desiderio di appartenere ad uno stile di vita più semplice ed integro, in cui la natura detta i suoi tempi all’essere umano. In questo Thomas Hardy dimostra tutta la sua grandezza di scrittore, perché a fare da spartiacque tra un autore ed un grande autore è proprio la capacità di immedesimazione che si offre al lettore, ed alle sensazioni che si è in grado di far affiorare durante la lettura. Lo stile narrativo non è semplice, tutt’altro. Spesso i pensieri sono esposti in modo tortuoso ed il lirismo raggiunge vette altissime, soprattutto quando siamo di fronte alle scene di vita agreste. E’ però qualcosa di naturale, non c’è nessuna forzatura nello stile e questo ci consente  di assimilare certe “fioriture” senza  difficoltà, se non forse all’inizio: è necessario un piccolo sforzo per adattarsi alla prosa di Hardy, perché non è lineare nè immediata. Ma se non vi lasciate scoraggiare dall’impatto, se vi lasciate trasportare dal vortice emozionale delle sue parole, allora leggere Via dalla pazza folla vi procurerà un piacere raro, una gioia che solo noi lettori abbiamo la fortuna di poter conoscere.

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“Dentro l’acqua”, di Paula Hawkins: le streghe sono tornate

Paula Hawkins è tornata. Il suo nuovo thriller è balzato  in testa alle classifiche con l’agilità di un ghepardo, e noi lettori cosa ci dobbiamo aspettare? Quest’autrice da un milione di dollari è sbucata fuori dal nulla in un giorno qualunque di qualche anno fa e non è mai più scesa dall’olimpo delle vendite. Pensavo che sarebbe stato impossibile per la Hawkins bissare il successo precedente,  anche perché  per quanto La ragazza del treno mi sia piaciuto parecchio , è ben lontano dall’essere un capolavoro di genere. Comunque sia io ho acquistato e letto “Dentro l’acqua”, certa che nella peggiore delle ipotesi mi avrebbe regalato qualche giornata di suspence e divertimento.
L’autrice, come è logico, ricalca i passi che l’hanno resa celebre confezionando un thriller psicologico angosciante, in cui dominano le sensazioni negative: la paura, i ricordi dolorosi, le verità taciute, i segreti inconffessabili. Ancora una volta il protagonista assoluto non  è  un individuo in carne ed ossa:  come a suo tempo il treno fu l’elemento cardine su cui ruotò tutta la storia, un corpo mobile che traghettava le  angosce quotidiane della protagonista, così in quest’ultimo thriller è il fiume della piccola cittadina di Beckford, nel nord dell’Inghilterra, a trascinare nell’oblio vite disgraziate. Un rituale ancora una volta dannato ed al tempo stesso liberatorio in cui l’acqua, simbolo per antonomasia di vita e prosperità, assume qui il significato opposto e diventa l’ultimo rifugio di donne disperate.
A Beckford, diversi secoli fa, c’erano le streghe. Le donne del paese che erano in grado di preparare intrugli curativi, oppure quelle dotate di una  conturbante bellezza, venivano additate come concubine del demonio e per questo perseguitate ed imprigionate. Uomini pusillanimi e spaventati le torturavano senza pietà, sperando che questo bastasse a scacciare dai loro lombi istinti peccaminosi. Le streghe di Beckford venivano immerse nell’acqua del fiume che attraversava il paese, perché se  i loro corpi galleggiavano anzichè andare a fondo come quelli dei comuni mortali significava che operavano tramite il maligno. Quella placida conca sovrastata da un alto promontorio diventava la loro tomba: lo Stagno delle Annegate.
Storie antiche, crudi racconti che il tempo ha ormai trasformato in leggenda. Solo il fiume è  sopravvissuto, monito di punizione ed orrore, e quell’avallamento profondo in cui moltissime donne hanno perso la vita. Dalla piccola Libby, affogata dalla brava gente del paese nel 1679 perchè aveva sedotto un uomo molto più grande di lei, fino alla studentessa suicida Katie, sembra che il fiume chiami a sè tutte le donne infelici di Beckford per avvolgerle nella pace  delle sue acque scure. L’ultimo anello di questa spirale di morte è Nel Abbott, che pare essersi suicidata anche lei tuffandosi nello Stagno delle Annegate. Sua sorella Jules, arrivata in paese in seguito al tragico ritrovamento del corpo di Nel, non crede però all’ipotesi del suicidio. Conosce sua sorella, e  nonostante non si parlino da anni  sa perfettamente che non avrebbe mai compiuto un gesto del genere. Nel fin da ragazzina era ossessionata dalle storie di quelle donne suicide, voleva capire cosa le avesse spinte ad ascoltare il richiamo del fiume di Beckfort, scegliendo l’ottenebramento: c’era qualcosa di ancestrale in quel luogo, qualcosa che le abbracciava in modo intimo, donando loro quel conforto che in vita non avevano mai ricevuto? Probabilmente sì. Nel sa che esiste un istante perfetto, poco prima dell’annegamento, in cui i disperati ritornano allo stadio primordiale, quando galleggiano nell’utero materno: un attimo eterno in cui desiderano soltanto lasciarsi andare, cullati da quelle acque morbide.  Ma Nel sapeva anche un’altra cosa: sapeva cheBeckford non è un luogo di suicidi. Beckford è il luogo in cui liberarsi delle donne che portano guai. Come le streghe, come Libby, come Lauren, Anna e Katie. Ed infine come lei stessa.
In paese tutti erano a conoscenza delle indagini che  Nel stava compiendo a proposito delle  donne suicide. Ha raccolto materiale, ha chiesto, ha ascoltato le storie di ogni famiglia coinvolta perchè voleva dare  voce alle loro sofferenze, voleva capire. Era come ossessionata. Il libro che voleva scrivere però ora giace incompiuto nella sua camera da letto, destinato a restare inedito. La disperazione delle donne di Beckford ancora una volta resterà inascoltata, sepolta negli abissi de Lo Stagno delle Annegate.
“Alcuni dicono che quelle donne hanno lasciato qualcosa di sé nell’acqua, che il fiume ha trattenuto un po’ del loro potere, perché da allora le sue sponde attraggono le donne infelici, disperate, perdute. Vengono qui e nuotano con le loro sorelle.”
Jules è decisa a  scoprire la verità su sua sorella, per riscattarsi dalle proprie colpe e per aiutare Lena, la figlia di Nel, un’adolescente difficile ed arrabbiata con il mondo con cui è impossibile comunicare. Dovrà scontrarsi con la riottosità di quel  piccolo paesino di campagna, una sorta di Twin Peaks   inglese che dietro alla sua facciata da cartolina nasconde orrorifici segreti,  in cui ogni abitante protegge sè stesso da scomode verità. Anche a costo di compiere gesti estremi.
La narrazione non è fluida, anzi. Le voci che compongono questa storia sono molte, ognuna con  la propria  parte di  verità da mostrare e quella da nascondere con cura. Spesso mi sono ritrovata in difficoltà, ingarbugliata in una matassa polifonica di nomi, situazioni, ricordi;  pagina dopo pagina l’autrice compone una sinfonia di morte e di dolore, di sofferenza e solitudine che culmina nello spiazzante finale, quando tutti i frammenti convergeranno nella stessa direzione ed i  narratori si riuniranno in un’unica  voce: quella della verità.
Paula Hawkins è brava, ed in quest’ultimo thriller non fa che  riconfermare  un innato talento per la costruzione  di storie contorte ed oniriche, proprio come la psiche umana quando traballa tra realtà e ricordi dolorosi. Ancora una volta siamo di fronte ad una narrazione dominata dall’elemento psicologico più che dalla trama in sè, in cui non esistono paladini delle giustizia,  ma solo perdenti. Ed è questo a mio avviso l’elemento vincente che l’autrice sfrutta così bene: quella di dare voce agli sconfitti, agli anti eroi, a  vite spezzate in cui non c’è più spazio per la redenzione.

Dentro l’acqua, Paula Hawkins (Piemme)

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“A occidente con la notte”, di Beryl Markham: autobiografia di una donna straordinaria

Questo romanzo completa  ciò che io definisco la mia personale “trilogia dell’Africa”. Tutto è cominciato quando qualche tempo fa lessi “Tra cielo e terra” di Paula McLain, sempre edito da Neri Pozza (lo trovate  QUI ) , un romanzo che mi piacque molto e che mi fece incontrare per la prima volta Beryl Markham, donna straordinaria ed autentica pioniera dell’emancipazione femminile. La McLain sviluppa alcuni aspetti della vita di Beryl componendo l’ideale prolungamento dell’autobiografia romanzata della donna, che scrisse “A occidente della notte” per suggellare tra le pagine il suo legame d’amore con il continente Africano. Quando lessi “Tra cielo e Terra” mossi una critica al romanzo, l’unica: non capivo perché l’autrice insistesse così tanto sul privato di Beryl, anche se movimentato ed intrigante, trascurando invece gli aspetti più interessanti della sua vita: fu la prima donna ad ottenere il brevetto come allevatrice di cavalli (aveva solo 17 anni) e la sua passione per il volo la portò a diventare un’aviatrice di professione. Il suo spirito di avventura la spinse persino a tentare un’impresa straordinaria per l’epoca: il volo transoceanico in solitaria, da Londra a New York.

Una volta terminata anche questa lettura ho però compreso: tutto quello che desideravo  sapere su questa donna così all’ avanguardia si trova in questo romanzo, scritto con le sue stesse mani, prima che i ricordi potessero essere cancellati dalla vecchiaia. E’ come se, leggendolo, ci soffermassimo a lungo ad ammirare una fotografia, incapaci di staccare gli occhi dalle immagini: la natura ancora vergine ed inospitale del Kenya, le capanne di fango dei primi coloni, i leoni distesi all’ ombra delle grandi acacie, gli elefanti che si spostano in branco seguendo i corsi d’acqua…La scrittura di Beryl è evocativa, di forte impatto, regala incredibili suggestioni ed è avara di dettagli. Tralascia volutamente tutto quello che con l’Africa non ha niente a che spartire: amori (tanti), amanti (uno su tutti, di cui parlerò più avanti) e mariti (tre) per farci immergere completamente nell’ atmosfera maliarda e sognante di un mondo ormai scomparso, che lei ha avuto il privilegio di dominare come e più di un uomo. La vita di Beryl Markham fu un turbinio di avventure, non si conformò ai dettami dell’epoca, fu spericolata nel lavoro come nella vita privata, assolutamente incapace di coltivare relazioni stabili e durature. La società coloniale dei primi del 1900 non differiva da quella vittoriana, non era altro che la sua proiezione: i pionieri si illusero di poter trasportare il loro bagaglio culturale anche in Kenya, credendo che fosse facile plasmare quella terra selvaggia e assoggettarla  ai loro “giusti” ideali politici, religiosi e sociali. Beryl rimase sempre piuttosto estranea a riguardo, conservando sempre, per tutta la vita, un punto di vista molto diverso da quello che ci si aspettava da una donna occidentale.  Non era  una presa di posizione, per lei era normale considerare l’Africa come una madre terra da rispettare, con i suoi ritmi, i suoi cicli, la sua perfetta simbiosi con le leggi immutabili della natura. Non era facile far convivere dentro di sè questo sentimento così forte di appartenenza con le necessità di vivere comunque in mezzo alla società bianca dell’epoca, che a Nairobi aveva il suo quartier generale: a volte era necessario scendere a qualche compromesso per poter sopravvivere.

Nel suo romanzo Beryl dedica poco tempo a parlare delle persone che popolarono la sua vita, fatta eccezione per alcuni uomini: suo padre, il suo grande amico indigeno Kibi, Tom Backer (l’aviatore inglese che le insegnò ogni cosa sul volo) e il barone Blixen, il marito della celeberrima Karen. Quest’ultimo era una  vera autorità a Nairobi:  appassionato cacciatore, l’aveva ingaggiata più volte per aiutarlo duranti i safari che organizzava per i suoi ricchi amici, affinché sorvolasse le zone circostanti al campo base in cerca di elefanti.  Il sogno dell’ uomo bianco, a quei tempi, erano le magnifiche zanne d’avorio dei mastodonti africani, che possedevano solo i maschi; ma il branco li proteggeva e, animali di straordinaria memoria ed intelligenza quali sono, imparavano a nascondersi in territori impervi, visibili solo dall’ alto. Beryl doveva avvistarli e segnalarli ai cacciatori, scrivendo le  coordinate su fogli di carta che poi lanciava a terra dentro scatole di latta. Ancora una volta Aveva trovato un modo straordinario per guadagnarsi da vivere.
L’idea di utilizzare l’aereo per i safari non fu però del barone Blixen, nè di Beryl Markham. Fu di Denis Finch – Atton, affascinante avventuriero, cacciatore e pioniere che si lasciò sedurre dall’Africa non meno che  dalle donne. Denis era l’amante della baronessa Blixen, ma le cronache mondane dell’epoca vogliono Beryl perdutamente innamorata di lui. Lui che, invece, restò sfuggente e fedele solo a se stesso, e morì libero, così come aveva sempre vissuto. Beryl lo conobbe in aeroporto a Nairobi, perché Finch-Atton era anche  un appassionato aviatore, esattamente come lei. Erano spiriti affini, e questo Beryl ce lo fa intuire attraverso rare parole.

La baronessa Blixen, come è ovvio che sia, non fu mai una sua grande amica: l’una sapeva dell’altra, e viceversa. Erano donne profondamente diverse, e sebbene entrambe abbiano tributato un grande omaggio al continente africano, la natura del loro innamoramento non fu mai la stessa. La Blixen arrivò in Africa in età adulta, in cerca di avventure come tutti i coloni dell’epoca, annoiati dalla loro nobiltà; ma poi il Kenya intrappolò il suo cuore in una presa mortale, che la segnò profondamente. Amò con tutta sè stessa quella natura selvaggia baciata da un clima straordinariamente mite,  l’immensa distesa di colline verdi che circondava Nairobi, i cieli senza crepuscolo, ogni cosa: ma nulla di tutto questo le  appartenne mai veramente. Fu solo un’amante, una donna bianca che sapeva capire, amare e rispettare  i riti antichi che governavano quel mondo; rimase però sempre un’estranea, con il dubbio che l’Africa le restituisse poco di quell’ amore che lei invece  le aveva donato incondizionatamente.
Beryl invece fu sempre parte integrante di quel mondo ancestrale. I suoi ricordi d’infanzia si perdono tra le quattro assi di una capanna di legno e fango tirata su nel cuore del nulla, intorno alla quale suo  padre si faceva largo con il machete, per dare forma al suo sogno. Una fattoria, i cavalli, una piantagione di caffè. La mamma non compare mai nei suoi ricordi, perché l’abbandonò subito dopo il suo arrivo: lei non era fatta per quell’ avventura al confine del mondo. Ciò che la Blixen apprende con gli anni, per Beryl fu una cosa del tutto naturale: parlava le lingue degli indigeni, giocava con loro, partecipava alle loro battute di caccia, alle loro feste. Così Beryl cresce, libera e selvaggia, imparando a cavalcare e a cacciare come un Kikuyo, fiera e rispettata sia dagli uomini del suo tempo che dagli stessi indigeni che l’avevano accolta. Non conosce altre radici che quelle africane, ed a queste  decide di rimanere ancorata anche  quando il sogno di suo padre va in frantumi: rimarrà in Africa, ad allevare cavalli, da sola. Si guadagnerà da vivere così, anche se ha appena 17 anni. Non so se sia stato il coraggio o la disperazione a guidare le scelte di Beryl, l’unica cosa certa è che questa sua intraprendenza le derivava da un amore viscerale per quella terra che l’aveva nutrita, prima che nel corpo, nell’ anima.

“I contendenti della conquista hanno trascurato l’anima vitale dell’Africa stessa, da cui emana la resistenza autentica alla conquista… l’Africa appartiene ad un’era antica e il sangue di molte delle sue genti è altrettanto venerabile e puro… quale razza di nuovi arrivati, spuntata da un secolo recente… può eguagliare in purezza il sangue di un singolo masai murani, il cui retaggio forse affonda le sue radici poco lontano dall’Eden?”

Questo suo spirito indomito e battagliero  la fece  considerare dai posteri come una specie di  femminista “ante litteram”: credo che questa definizione abbia fatto sorridere parecchio Beryl, quando alle soglie della vecchiaia ripercorse la sua vita per dare forma al romanzo. Perché in realtà Beryl non dovette mai combattere contro niente e contro nessuno: la sua presenza all’ interno della società coloniale, fatta prevalentemente da uomini, era accettata di buon grado come fosse una cosa naturale, inevitabile. Ricopriva dei ruoli che nessuno le contestò mai:  allevatrice di cavalli, aviatrice.  Il suo status fu sempre largamente accettato, condiviso e rispettato anche quando prese delle pieghe non proprio edificanti. La Blixen invece non riuscì mai ad elevarsi al di sopra dei pregiudizi che l’epoca vittoriana portò con sè anche al di là dell’Oceano: rimase sempre prigioniera del vecchio retaggio culturale di cui era figlia.
La  diversità  di  queste donne ci ha regalato due libri stupendi, che non dobbiamo mettere in contrapposizione l’uno con l’altro: sarebbe un errore, perché sono perfettamente  complementari. Quello che manca in uno, lo troviamo nell’ altro. Lo stile navigato della Blixen, che fece della scrittura la sua professione, non è paragonabile a quello appassionato e acerbo della Markham. Se si può fare una critica a questo romanzo, sta proprio nello stile spesso elaborato e nella ricerca continua del lirismo, anche quando la circostanza non lo richiede. A volte ho fatto fatica a seguire i suoi voli pindarici: quando si perde nelle descrizioni struggenti dei paesaggi africani  la scrittura diventa un fiume impetuoso di immagini e nomi, come quando si apre dopo tanto tempo la scatola dei ricordi. Ogni oggetto ha la sua storia, e tessere un filo temporale che tenga tutto in ordine cronologico è complicato ed inutile. Così mi sono lasciata trasportare dall’ onda della memoria che riaffiora, senza pormi troppe domande, godendo delle emozioni che la scrittura porta a galla.


E’ sbagliato definire il romanzo un’autobiografia, perché la cronistoria dei fatti, la descrizione dei personaggi e la loro collocazione nella storia sono di secondaria importanza rispetto al corpo della narrazione, che è basata su tutt’ altro. Viene rivelato solo lo stretto necessario a comprendere ciò che l’Africa ha rappresentato per questa donna: l’amore assoluto, il senso di appartenenza, il significato di una vita intera.


A occidente con la notte – Beryl Markham (Neri Pozza)

“The Quick”, di Lauren Owen: misteri, vampiri e sale da the

The Quick” è stato l’esordio folgorante di una giovane autrice, Lauren Owen. Questa ragazza, poco più che trentenne, è riuscita ad imbastire una storia di vampiri “vecchio stile” che cattura fin dalle prime righe, trasportando il lettore in un mondo antico ed arcaico, in cui la fantasia domina la realtà rendendo molto difficile  distinguere ciò che è  leggenda da ciò che è  storia. I vampiri, figure mitologiche le cui origini si perdono nella notte dei tempi, non smetteranno mai di affascinare i lettori di ogni generazione e di essere la fonte principale di ispirazione per chi di mestiere scrive storie da brivido: a cominciare da Bram Stoker, capostipite del genere e creatore di Dracula, fino a Stephen King, che ci ha condotto per mano lungo le stradine buie di Jerusalem’s Lot  facendoci tremare le viscere.
Le saghe più recenti (Twilght in testa) hanno rivisitato la figura dei Vampiri giocando molto sul loro aspetto fascinoso, umanizzandoli al punto  da instillare in loro il sentimento per antonomasia: l’amore. Per me si tratta di blasfemia e su questa considerazione mi fermo, perché non voglio infierire su ciò che è già triste di suo. I vampiri hanno una loro dignità ed una storia millenaria che li ha sempre resi i protagonisti indiscussi delle nostre paure: Lauren Owen restituisce loro un’immagine di spietatezza,  e di questo le sono davvero grata. I vampiri bellocci che si innamorano di adolescenti non fanno  proprio per me.
Lo sfondo in cui l’autrice colloca i suoi protagonisti è la Londra vittoriana di fine ottocento, un’ambientazione molto suggestiva che aiuta il lettore a calarsi perfettamente nella storia. La capitale inglese alla  fine del XIX secolo rappresentava uno dei maggiori fulcri di stabilità e di benessere economico: rivoluzione industriale, espansione coloniale, assenza di guerre. Ma questa nuova ricchezza portò con se anche molti aspetti negativi, creando lacerazioni profonde nel tessuto sociale.
I risvolti  delle nuove politiche economiche furono devastanti: il divario tra nuova borghesia e nuovi poveri non fu mai così ampio come ai tempi della Regina Vittoria. I contrasti interni erano stridenti, il tasso di delinquenza  elevatissimo,  i sobborghi erano fogne a cielo aperto  impestate di malattie e di prostituzione. L’epoca vittoriana diventò  tristemente nota per la diffusione del lavoro minorile ed il conseguente analfabetismo.
I nobili ed i banchieri arricchiti si trinceravano nei loro club esclusivi a parlare di affari e a sorseggiare tè con superficiale ottimismo, forti di una condizione non sarebbe mai mutata, mentre a due passi dalla City la fame mieteva vittime e cresceva orfani. Questo aspetto storico è una parte fondamentale del libro, perché  i Vampiri, seguendo l’ombra delle vite che hanno strappato, rimangono legati loro malgrado al susseguirsi degli eventi e si conformano alla società del tempo. Sono creature che si adattano ai tempi in cui vivono perché ne sono la macabra prosecuzione, ma disprezzano profondamente gli uomini e rifuggono il contatto con essi. Li considerano esseri inutili, inferiori. Sentono il loro tanfo a diversi passi di distanza e ne sono infastiditi, i loro luoghi di aggregazione li inorridiscono. L’unico istinto che li guida verso l’uomo è il bisogno di sangue, di cui non possono fare a meno. L’uomo comune, stolto e pusillanime, è solo un enorme sacca  da cui trarre alimento e nient’altro. Nessuna emozione potrà mai guidarli verso altre strade.
La nostra storia inizia in una decadente dimora della campagna inglese,  in cui vivono due ragazzini: Charlotte e James. I due fratelli dopo la morte della madre crescono molto uniti ma terribilmente soli, con un padre quasi sempre assente per lavoro e l’anziana governante. Il padre in realtà tornerà da loro, ma solo perché la sua salute non gli consente più alcun tipo di spostamento: morirà poco dopo. L’ambiente isolato ed i pochissimi contatti umani alimentano nei due giovani un forte desiderio di evasione, attratti dalla vitalità e dal fermento culturale di Londra : James si sente particolarmente portato per la scrittura, e decide così di approfittare della rendita paterna per recarsi a studiare nella grande città. A questo punto le vite dei due protagonisti si dividono: lasciamo da parte Charlotte, ancora immersa nei doveri verso la famiglia, per avventurarci insieme a James nella sua nuova esistenza. I primi giorni a Londra sono molto confusi per lui, ingenuo ragazzo di campagna, fino a quando incontrerà Christopher Paige. Christopher, un dandy affascinante dedito un po’ troppo all’alcol e ad altri vizi,  appartiene ad una ricca famiglia della città e stringerà con James una forte amicizia. Andranno a vivere insieme da un’affittuaria e sarà proprio Christopher ad introdurre James nel cuore della vita mondana londinese. Cene eleganti, teatri, club esclusivi… James viene iniziato ai piaceri della vita cittadina e la sua carriera come commediografo stenta sempre di più a decollare. Sono due gli avvenimenti che segneranno inesorabilmente il suo destino: l’incontro con il presidente dell’esclusivo club “AEgolius” e la scoperta dell’amore, laddove non l’avrebbe mai cercato. Dopo poco, James scompare. Charlotte è molto preoccupata perché suo fratello non risponde più da mesi alle sue lettere e così, finalmente libera da impegni domestici, decide di partire alla volta di Londra per cercare di capire cosa sta succedendo a James.
Charlotte scoprirà come tra le vie di Londra si annidi un sottobosco di creature ibride, chiamate gli “Spenti”, in contrapposizione con gli “Animati”, appartenenti invece al genere umano. Dal momento che i vampiri sono costretti a seguire l’evoluzione umana, la stratificazione sociale della Londra vittoriana si rifletterà anche nel loro mondo e darà vita a feroci lotte tra i vari clan presenti nel territorio urbano. Gli esponenti della nobiltà in decadenza e i nuovi ricchi fanno tutti capo al misterioso AEgolius, di cui James ha già scoperto l’esistenza. Il loro scopo, oltre a quello banale della mera sopravvivenza, è  attirare nelle proprie fila i personaggi più in vista della città e giovani promettenti con determinate qualità intellettuali: vogliono cambiare le cose per sempre, instaurando una vera e propria egemonia di Spenti. Questo nuovo ordine  avrebbe dominato da principio  l’intera Londra, per poi espandersi ovunque. La loro sete di potere, unita al desiderio di mantenere intatti i privilegi di cui godono, guida il loro implacabile istinto sanguinario. Dall’altra parte del Tamigi, tra i fumi delle industrie e la puzza di marcio delle vie suburbane, vivono  gli Alia. Gli Alia sono i miserabili, i pezzenti, sono rozzi succhiasangue privi di qualsiasi regola morale. I loro capo è una donna, che offre loro riparo e mezzi di sostentamento in cambio di totale abnegazione.
Fra gli Alia vi sono molti bambini, un tempo orfani, dimenticati o creduti morti dai loro genitori. Scorrazzano per la città in cerca di sangue fresco e obbediscono agli ordini della loro padrona, sono privi di qualsiasi tenerezza infantile   e giocano tra gli Animati sperando di riuscire ad addentarli quando la fame si fa sentire. Perché non è così facile distinguere gli Spenti dagli Animati. Si confondono perfettamente nella folla, ma la loro velocità di spostamento è sovrumana. Hanno ferite impercettibili sul corpo, segno delle loro appartenenza, ed occhi immobili in cui galleggia il vuoto. Hanno fame, e spesso questo li tradisce, ma per il resto sono perfettamente integrati nella società. E soprattutto nessuno di loro accetta di essere chiamato per quello che è veramente: un vampiro.
Chi ha rapito James? Perché i membri dell’AEgolius si avvalgono di uno studioso che usa alcuni di loro come cavie? Cosa hanno scoperto sui vampiri moderni? Cos’è lo “scambio” e perché è una regola così pericolosa da contravvenire?
Charlotte si ritroverà suo malgrado coinvolta in queste lotte di classe per salvare se stessa e  suo fratello da un terribile destino, e nel farlo verrà aiutata da una strana coppia di cacciatori di vampiri e da un sopravvissuto al piano dell’ AEgolius.
C’è forse un sovraccarico di misteri e di inversioni di rotta in questo romanzo, ma il tutto è ampiamente compensato da una scrittura fluida, perfetta, pulita. Ogni descrizione, da quelle della malinconica e dolce  campagna inglese fino a quelle della cupa e fumosa  Londra di fine ottocento,  ci fanno immergere completamente nelle atmosfere gotiche di questa storia.

I vampiri sono un tema ampiamente sfruttato dalla letteratura di tutti i tempi, eppure in questo romanzo non vi stancherete mai di sentir parlare di loro, anzi: ne vorrete sapere sempre di più, incollati a pagine che sfoglierete avidi una dopo l’altra. Troverete comunque qualcosa di nuovo, di appetitoso, di stuzzicante e al tempo stesso di terrificante. Sentirete sempre un sottile senso di angoscia strisciare tra le mura di casa vostra. Scapperete anche voi tra i vicoli fuligginosi di Londra in cerca di un nascondiglio, perché il buio  non riuscirà ad offrirvi abbastanza riparo; e quando leggendo dei bambini vampiri passerete aldilà del Tamigi, sentirete uno sbuffo gelido alitarvi sul collo.

The Quick, Lauren Owen (Fazi)

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