“La zona morta”, di Stephen King: l’ineluttabilità di un destino

 
Johnny Smith è insegnante di letteratura in un liceo di Castle Rock, nel New England, anticonformista e  divertente, molto amato dai suoi alunni. Siamo nel 1970 e Johnny, poco più che ventenne, da qualche tempo frequenta Sarah, una sua collega: dopo alcune peripezie amorose piuttosto insoddisfacenti Sarah incontra ad una festa Johnny e rimane incantata dalla sua dolcezza e dalla sua simpatia. Giovani e innamorati, non sanno che il destino sta per abbattersi sulle loro vite come una mannaia, affilata e maledetta. Dopo aver riaccompagnato Sarah al termine di una serata di festa  trascorsa alla fiera del paese (è la notte di Holloween), Johnny resta vittima di un  incidente stradale a bordo del taxi che lo stava riportando a casa. A causa del terribile schianto rimarrà in coma per più di quattro anni.
Quando si risveglia, con sgomento apprende che il suo mondo è completamente ed irrimediabilmente cambiato: Sarah si è sposata con un altro uomo ed ha un bambino di pochi mesi, sua madre – che già presentava segni di squilibrio prima dell’incidente – ha aderito ad una setta religiosa che predica l’imminente fine del mondo ed è totalmente preda di un fanatismo  che la sta portando alla pazzia; inoltre, si scopre invalido. Le sue gambe si sono atrofizzate, muscoli e tendini sono rattrappiti e non riescono più a sostenerlo. Per tornare alla normalità dovrà affrontare una lunga riabilitazione e un’operazione avanguardistica, ma non è questo l’aspetto peggiore del suo risveglio. John durante lo stato vegetativo ha acquisito un dono al tempo stesso straordinario e terribile: col solo contatto delle mani è in grado di visualizzare nella sua mente la storia delle persone con il loro passato, il loro presente ed il loro futuro. Durante la permanenza in ospedale per la riabilitazione comincia a diffondersi la voce che Johnny è una specie di veggente, al punto che una volta tornato a casa non troverà più in pace. La cassetta della posta è inondata di lettere, di messaggi e di oggetti provenienti da chicchessia, tutte persone che cercano disperatamente di avere notizie di cari scomparsi, mariti fedifraghi, figli dispersi. E’ l’inizio di un incubo, perché l’ignoranza di massa di cui è vittima comincerà a vedere in lui un essere sovrannaturale, un cialtrone che vuole solo arricchirsi, un veggente da mettere sotto contratto. Ognuno ha un’etichetta da affibbiargli, pronto ad osannarlo o a saltargli addosso.  Johnny è un ragazzo schivo che mal sopporta tutta questa pressione da parte dei media che lo additano senza pietà e si sente soffocare dalle continue richieste di aiuto nella ricerca di persone scomparse. Decide così di isolarsi dalla comunità e cerca di riappropriarsi della sua vita, ricominciando per prima cosa dall’ insegnamento:  nulla però andrà come previsto. King è molto abile nel farci entrare in punta di piedi nel mondo interiore di Johnny, un mondo che un giorno come tanti subisce una trasformazione dolorosa ed inaspettata, definitiva e terribile. Il suo tormento muove sentimenti di tenerezza e di comprensione  e induce inevitabilmente il lettore  a porsi una domanda, la stessa che l’uomo si pone da sempre: conoscere il futuro sarebbe un dono o una maledizione? Che impatto avrebbe sulle nostre vite, sarebbe uno strumento che aiuterebbe l’umanità o la distruggerebbe definitivamente? Certo la questione è complessa e la risposta non può esaurirsi in poche righe all’ interno di un romanzo di intrattenimento, ma sicuramente è un pensiero che non lascia indifferenti e su cui vale la pena soffermarsi a riflettere.
 
Johnny comincia a capire che ci sarà un prezzo molto alto da pagare,  perché tutto quello che travalica i confini delle cose terrene porta con sè un contrappeso devastante. Comincia a farsi strada la convinzione di possedere uno strumento potente e  prezioso, che fa di lui una specie di predestinato, e ne ha la conferma quando sente l’impulso irrefrenabile di avvicinarsi ad un uomo politico dalla dubbia moralità che sta tenendo comizi in tutto il Maine in vista delle prossime elezioni. Quando stringe la mano del candidato alla presidenza Greg Stillson un flusso di immagini terrificanti gli arrivano davanti agli occhi, come un fiume in piena: non sono nitide, sono come segnali interrotti, ma la percezione è forte e non lascia dubbi riguardo la catastrofe imminente. Deve agire, e subito. Il futuro presidente degli Stati Uniti è un pazzo psicopatico e solo lui può vedere quell’ uomo ignorante e abietto già insediato sullo scranno della casa bianca .
Come sempre nelle storie che Stephen King racconta l’elemento sovrannaturale è perfettamente stemperato dalla  quotidianità dei suoi personaggi,  così che  mentre proseguiamo con la lettura non facciamo più caso alla differenza tra realtà e finzione romanzesca. L’aspetto psicologico è sempre molto ben sviluppato, e si presta per accogliere al meglio quello che di straordinario accade, mentre la vita scorre con il suo flusso regolare.

Credo che Johnny sia il protagonista kingiano più nostalgico che abbia mai incontrato: si porta addosso come una pesante cappa il rimpianto per gli anni che il coma gli ha rubato, per il suo giovane amore appena nato e subito perduto, per quel figlio che doveva essere suo, per sua madre vittima di un fanatismo religioso che forse avrebbe avuto bisogno di più comprensione, per una riabilitazione fisica e psichica dolorosa di cui porta ancora i segni, per l’emarginazione sociale che subisce a causa della sua diversità.

Ma soprattutto,  lui non vorrebbe essere costretto a   vedere. Non vorrebbe essere in grado di conoscere le terribili verità che si annidano dietro una semplice stretta di mano, perché il prezzo da pagare è troppo alto. La vita è un lancio di monetina, ma se sapessimo già il risultato come potremmo goderci l’istante perfetto in cui essa volteggia in aria, prima di ricadere al suolo? L’attesa e la speranza, non sono forse queste le cose che più di tutto ci fanno restare aggrappati alla vita?

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“…Ma volevo che tu sapessi che ti penso, Sarah. Davvero, per me non c’è mai stata qualcun’altra e quella notte fu la nostra notte più bella, anche se a volte mi è difficile credere che vi sia mai stato un anno 1970… Senza calcolatori, senza videocassette… E altre volte mi sembra che quel tempo sia tuttora vicinissimo, da poterlo quasi toccare. Mi sembra che se potessi tenerti tra le braccia, o toccare la tua guancia, o la tua nuca, potrei portarti via con me in un futuro diverso senza dolore o tenebre o scelte amare. Bene, tutti noi facciamo quello che possiamo e dobbiamo accontentarci… e se non ci basta dobbiamo rassegnarci. Spero soltanto che tu mi penserai nel modo migliore che ti riesce, Sarah cara. Con tutto il cuore e tutto il mio amore.”

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ll dramma umano di Johnny è la vera forza di questo romanzo, e pazienza se siamo di fronte ad un autore ancora acerbo, che ha lasciato diverse lacune nella storia e che si è perso in almeno un centinaio di pagine.
Io, a Stephen King, perdono tutto.

 

 
 
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“Dentro l’acqua”, di Paula Hawkins: le streghe sono tornate

Paula Hawkins è tornata. Il suo nuovo thriller è balzato  in testa alle classifiche con l’agilità di un ghepardo, e noi lettori cosa ci dobbiamo aspettare? Quest’autrice da un milione di dollari è sbucata fuori dal nulla in un giorno qualunque di qualche anno fa e non è mai più scesa dall’olimpo delle vendite. Pensavo che sarebbe stato impossibile per la Hawkins bissare il successo precedente,  anche perché  per quanto La ragazza del treno mi sia piaciuto parecchio , è ben lontano dall’essere un capolavoro di genere. Comunque sia io ho acquistato e letto “Dentro l’acqua”, certa che nella peggiore delle ipotesi mi avrebbe regalato qualche giornata di suspence e divertimento.
L’autrice, come è logico, ricalca i passi che l’hanno resa celebre confezionando un thriller psicologico angosciante, in cui dominano le sensazioni negative: la paura, i ricordi dolorosi, le verità taciute, i segreti inconffessabili. Ancora una volta il protagonista assoluto non  è  un individuo in carne ed ossa:  come a suo tempo il treno fu l’elemento cardine su cui ruotò tutta la storia, un corpo mobile che traghettava le  angosce quotidiane della protagonista, così in quest’ultimo thriller è il fiume della piccola cittadina di Beckford, nel nord dell’Inghilterra, a trascinare nell’oblio vite disgraziate. Un rituale ancora una volta dannato ed al tempo stesso liberatorio in cui l’acqua, simbolo per antonomasia di vita e prosperità, assume qui il significato opposto e diventa l’ultimo rifugio di donne disperate.
A Beckford, diversi secoli fa, c’erano le streghe. Le donne del paese che erano in grado di preparare intrugli curativi, oppure quelle dotate di una  conturbante bellezza, venivano additate come concubine del demonio e per questo perseguitate ed imprigionate. Uomini pusillanimi e spaventati le torturavano senza pietà, sperando che questo bastasse a scacciare dai loro lombi istinti peccaminosi. Le streghe di Beckford venivano immerse nell’acqua del fiume che attraversava il paese, perché se  i loro corpi galleggiavano anzichè andare a fondo come quelli dei comuni mortali significava che operavano tramite il maligno. Quella placida conca sovrastata da un alto promontorio diventava la loro tomba: lo Stagno delle Annegate.
Storie antiche, crudi racconti che il tempo ha ormai trasformato in leggenda. Solo il fiume è  sopravvissuto, monito di punizione ed orrore, e quell’avallamento profondo in cui moltissime donne hanno perso la vita. Dalla piccola Libby, affogata dalla brava gente del paese nel 1679 perchè aveva sedotto un uomo molto più grande di lei, fino alla studentessa suicida Katie, sembra che il fiume chiami a sè tutte le donne infelici di Beckford per avvolgerle nella pace  delle sue acque scure. L’ultimo anello di questa spirale di morte è Nel Abbott, che pare essersi suicidata anche lei tuffandosi nello Stagno delle Annegate. Sua sorella Jules, arrivata in paese in seguito al tragico ritrovamento del corpo di Nel, non crede però all’ipotesi del suicidio. Conosce sua sorella, e  nonostante non si parlino da anni  sa perfettamente che non avrebbe mai compiuto un gesto del genere. Nel fin da ragazzina era ossessionata dalle storie di quelle donne suicide, voleva capire cosa le avesse spinte ad ascoltare il richiamo del fiume di Beckfort, scegliendo l’ottenebramento: c’era qualcosa di ancestrale in quel luogo, qualcosa che le abbracciava in modo intimo, donando loro quel conforto che in vita non avevano mai ricevuto? Probabilmente sì. Nel sa che esiste un istante perfetto, poco prima dell’annegamento, in cui i disperati ritornano allo stadio primordiale, quando galleggiano nell’utero materno: un attimo eterno in cui desiderano soltanto lasciarsi andare, cullati da quelle acque morbide.  Ma Nel sapeva anche un’altra cosa: sapeva cheBeckford non è un luogo di suicidi. Beckford è il luogo in cui liberarsi delle donne che portano guai. Come le streghe, come Libby, come Lauren, Anna e Katie. Ed infine come lei stessa.
In paese tutti erano a conoscenza delle indagini che  Nel stava compiendo a proposito delle  donne suicide. Ha raccolto materiale, ha chiesto, ha ascoltato le storie di ogni famiglia coinvolta perchè voleva dare  voce alle loro sofferenze, voleva capire. Era come ossessionata. Il libro che voleva scrivere però ora giace incompiuto nella sua camera da letto, destinato a restare inedito. La disperazione delle donne di Beckford ancora una volta resterà inascoltata, sepolta negli abissi de Lo Stagno delle Annegate.
“Alcuni dicono che quelle donne hanno lasciato qualcosa di sé nell’acqua, che il fiume ha trattenuto un po’ del loro potere, perché da allora le sue sponde attraggono le donne infelici, disperate, perdute. Vengono qui e nuotano con le loro sorelle.”
Jules è decisa a  scoprire la verità su sua sorella, per riscattarsi dalle proprie colpe e per aiutare Lena, la figlia di Nel, un’adolescente difficile ed arrabbiata con il mondo con cui è impossibile comunicare. Dovrà scontrarsi con la riottosità di quel  piccolo paesino di campagna, una sorta di Twin Peaks   inglese che dietro alla sua facciata da cartolina nasconde orrorifici segreti,  in cui ogni abitante protegge sè stesso da scomode verità. Anche a costo di compiere gesti estremi.
La narrazione non è fluida, anzi. Le voci che compongono questa storia sono molte, ognuna con  la propria  parte di  verità da mostrare e quella da nascondere con cura. Spesso mi sono ritrovata in difficoltà, ingarbugliata in una matassa polifonica di nomi, situazioni, ricordi;  pagina dopo pagina l’autrice compone una sinfonia di morte e di dolore, di sofferenza e solitudine che culmina nello spiazzante finale, quando tutti i frammenti convergeranno nella stessa direzione ed i  narratori si riuniranno in un’unica  voce: quella della verità.
Paula Hawkins è brava, ed in quest’ultimo thriller non fa che  riconfermare  un innato talento per la costruzione  di storie contorte ed oniriche, proprio come la psiche umana quando traballa tra realtà e ricordi dolorosi. Ancora una volta siamo di fronte ad una narrazione dominata dall’elemento psicologico più che dalla trama in sè, in cui non esistono paladini delle giustizia,  ma solo perdenti. Ed è questo a mio avviso l’elemento vincente che l’autrice sfrutta così bene: quella di dare voce agli sconfitti, agli anti eroi, a  vite spezzate in cui non c’è più spazio per la redenzione.

Dentro l’acqua, Paula Hawkins (Piemme)

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“Immagina i corvi”, di Luca Sorrenti: storie nere di provincia

Io ho immaginato.
Ho immaginato un piccolo paese della Puglia arroccato su Le Murge, dove il tempo pare essersi fermato. Ho rievocato nella mia mente quella lontana estate del 1986, teatro di questa storia tragica ma allo stesso tempo bellissima, ed ho rivisto una  ragazzina undicenne alle prese con l’insondabile mondo degli adulti. Il campionato mondiale di calcio che si svolgeva in Messico faceva da sottofondo alla pace di quei lontani pomeriggi di vacanza, oziose giornate in cui mio padre era a casa dal lavoro e la telecronaca di Bruno Pizzul era un’eco comune a tutto il vicinato. Quegli anni me li ricordo bene. Ricordo tutto: “la mano de dios” di Maradona, l’Italia che perse il titolo conquistato in Spagna quattro anni prima lasciandoci delusi e polemici, e quel caldo torrido che aveva colpito anche la liguria. Più volte, scorrendo le pagine, mi è sembrato di leggere una parte della mia infanzia.
“Immagina i corvi” è stata  una lettura per certi versi casuale con risultati inaspettati, che mi ha coinvolta e tenuta col fiato sospeso fino alla fine. Si tratta di un thriller, o meglio, di un giallo. Preferisco definirlo “giallo” perché il thriller ha alcuni elementi imprescindibili che qui non ci sono, o meglio, non completamente. Il ritmo non è sempre serrato, la suspence a tratti si perde nelle pieghe della storia, i colpi di scena spesso sono preceduti da affermazioni dell’autore che inevitabilmente tolgono pathos e fanno calare la tensione narrativa. C’è però il delitto irrisolto, il mistero che aleggia intorno a fatti apparentemente inspiegabili, una matassa che pare aggrovigliarsi ad ogni pagina anziché dipanarsi, fino ad arrivare alla verità. Una verità terribile e crudele, forse la più agghiacciante a cui ero mai stata messa di fronte in tanti anni di letture di genere. Il punto forte del romanzo è l’ambientazione, particolare e  suggestiva. Come spiegavo all’inizio l’autore riesce abilmente a catapultare il lettore  nell’estate  del 1986, in un piccolo paese dell’entroterra pugliese.
In quel microcosmo sperduto tra le montagne il tempo sembra essersi congelato, abbracciato da un’immobilità che mette i brividi. E’ il periodo del primo governo socialista nella storia della repubblica italiana, con Bettino Craxi ai vertici ma  ormai dimissionario, mentre la politica internazionale è segnata dall’anti europeismo della Lady di Ferro, al secolo Margareth Thatcher. E’ l’epoca della Milano da bere, degli yuppies, di nuovi ceti sociali che emergono grazie ad un diffuso benessere economico che viene ostentato senza freni. Ma la modernità che avanza non riesce a penetrare a Spinosa, dove gli abitanti continuano a vivere barricati dietro i loro pregiudizi e la società sembra impermeabile ai cambiamenti: il parroco, il sindaco, il medico, il farmacista, la zitella, l’immigrato, il barbone avvinazzato, il matto del paese di cui tutti hanno paura. Questa è la stratificazione sociale di Spinosa, un equilibrio inalterato nei secoli che un giorno come tanti cade in mille pezzi, sotto i colpi della follia omicida. C’è una chiesa sconsacrata a Spinosa, dove da sessant’anni giacciono sepolti gli scomodi segreti  di alcuni anziani del posto, che allora erano appena adolescenti. Un patto antico, una promessa tra ragazzi che però aveva in sè un forza devastante.  Nessuno di loro ha mai più dimenticato, trascinandosi dietro quell’assurdo fardello fino a quando  ciò che sembrava sepolto per sempre si è risvegliato. Come l’avverarsi di una terribile profezia.
I corvi, il Male, Dio, il Diavolo, l’uomo, la morte. Appassionatamente stretti in un caldo e soffocante abbraccio nel tuo paese.
Immagina un bimbo seviziato e il suo cadavere finito, non si sa come, nel giardino di un’abitazione maledetta.
Immagina un delitto in un luogo chiuso. Porte e finestre sono sbarrate dall’interno. E nessuno avrebbe potuto uccidere in quelle condizioni e nessuno sarebbe potuto fuggire. Eppure è accaduto.
Anche i corvi sono tornati in paese, proprio come nel 1926, e gli abitanti di Spinosa sanno bene che il loro arrivo può significare solo una cosa: disgrazia, morte, orrore.
Questo giallo/thriller ha i toni cupi di un romanzo gotico, e strizza l’occhio a diversi autori importanti della letteratura internazionale. Quando descrive il piccolo paese teatro degli atroci delitti mi è sembrato attingesse a piene mani da Stephen King, che è un vero maestro del genere (La piccola provincia americana è la sua scenografia preferita). Altri  richiami  sono poi evidenti quando l’autore fa entrare in scena il personaggio di Eugenio Corsi, un uomo con una forte menomazione psichica che da anni vive recluso insieme agli anziani genitori, incapace di avere un qualsiasi contatto sociale. E’ la vittima sacrificale dell’ignoranza e della diffidenza dei compaesani, che non conoscono la sua malattia e per questo ne hanno paura. Le grida che dicono di sentire nel cuore della notte, urla agghiaccianti di disperazione e dolore, per gli abitanti di Spinosa, così timorati di Dio, hanno solo un significato:  è la voce di un mostro, una creautra del demonio, essere immondo capace di qualsiasi tipo di violenza. Eugenio Corsi non è altro che  la versione pugliese di Boo Ridley, il protagonista silenzioso de “Il buio oltre la Siepe” di Harper Lee. Meno riuscito forse, ma sempre efficace proprio  per il significato importante che la sua triste storia porta con sè. Infine il nostro bravo autore ha voluto omaggiare un classico della letteratura gialla di tutti i tempi: l’ “enigma della camera chiusa“. Una locuzione con la quale si indica una specie di “sottogenere” di romanzo giallo in cui il delitto viene compiuto in una camera chiusa dall’interno, in una circostanza quindi  apparentemente impossibile. Il fulcro della vicenda non è la ricerca del colpevole, bensì scoprire come sia stato commesso il crimine in questione. Una roba assolutamente intrigante, trattata da geni quali  Edgar Allan Poe  (I delitti della Rue Morgue) e da John Dickson Care (le tre bare). Rispettivamente il capostipite e il maggior esponente di questo genere. Verrebbe da pensare quindi che  il nostro Luigi Sorrenti ha compiuto un certo numero di azzardi mettendo tutti questi riferimenti importanti in un romanzo d’esordio, ma tant’è. L’ha fatto e tutto sommato gli è riuscito piuttosto bene, perché il romanzo si legge senza riuscire a smettere, mi ha tenuta  inchiodata alle pagine e  una volta richiuso mi ha  lasciato quel sottile velo di angoscia che noi giallisti conosciamo bene. Quando succede questo, significa che il giallo funziona. Ha rispettato tutti i dogmi della letteratura di genere ed ha superato ampiamente la prova, almeno per quanto mi riguarda.
Credo che l’autore sia originario dei posti narrati, perché descrivere con tale trasporto una terra arida e ingrata come  quella delle  Murge Pugliesi di quegli anni è possibile solo se quei luoghi ce l’hai nel cuore. Doveva per forza esserci stato quando il progresso bussava alla porta dell’immaginaria Spinosa ma gli abitanti lo respingevano, forti delle loro tradizioni e delle loro superstizioni. Nelle ultime pagine si sente tutto l’amore e la nostalgia per questo paese, nonostante le terribili contraddizioni e l’arretratezza culturale in cui versava la maggior parte della popolazione locale. Ma l’ignoranza non è quasi mai una colpa, perché quella terra amara bisognava pure lavorarla,  non c’era tempo da perdere con i libri.
Essendo un esordio è naturale che i difetti ci siano e che siano piuttosto evidenti. Ho trovato l’edizione poco curata, con diversi refusi, ed il fatto che la pubblicazione sia avvenuta tramite una casa editrice minore non giustifica tali mancanze. Minore non vuol dire peggiore. Inoltre non mi è piaciuto il finale, sicuramente non all’ altezza di tutto il resto del romanzo: mi è parso frettoloso e raffazzonato, non mi ha soddisfatto per niente il confronto tra il commissario di polizia e il colpevole. Sbrigativo e superficiale,  lascia molti dubbi e tante domande senza una risposta esaustiva.
Non ho voglia però di dare troppo rilevanza a questi aspetti, perché tutto sommato non lo trovo giusto. Un esordio così non va deplorato a causa di un finale sottotono o di un editing poco curato, perchè gli elementi validi sono tanti e Luigi Sorrenti è un autore davvero in gamba, con un ottimo stile e che sa fare presa sui sentimenti umani. Una felice scoperta, una lettura appagante e completa: un’affermazione che non si può fare spesso quando si parla di gialli.

Immagina i corvi – Luigi Sorrenti (TRE60)

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“L’incubo di Hill House”, di Shirley Jackson: una storia da brivido

Shirley Jackson, scrittrice  e giornalista statunitense del secolo scorso, da qualche anno sta vivendo una nuova popolarità. La sua produzione letteraria si concentra prevalentemente in racconti brevi, per i quali ottenne  diversi riconoscimenti tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta. I suoi romanzi di maggior successo, Abbiamo sempre vissuto nel castello (1962) e L’incubo di Hill House (1959), la consacrarono alla fama definitiva in patria. Rimase però sempre una scrittrice d’èlite, riservata ad un pubblico raffinato, fino a quando nel 2007 viene istituito a suo nome un prestigioso premio letterario che diffonde la sua fama a macchia d’olio. Il Shirley Jackson Award” è il  premio annuale per la letteratura horror, dark e di suspense psicologico che negli Stati Uniti è diventata negli anni una vera e propria istituzione. Ma è il contributo di Stephen King, suo profondo estimatore, ad essere decisivo per l’incremento della  popolarità della scrittrice.  Quello che negli anni sessanta rimase un fenomeno di nicchia, riservato ai connazionali appassionati del genere gotico/psicologico, grazie alle dichiarazioni di King travalica l’oceano accendendo la curiosità dei suoi innumerevoli lettori. L’autorevolezza di uno scrittore di culto come Stephen King segna inevitabilmente un punto di svolta nella fama postuma della Jackson:  in Italia la casa editrice Adelphi comincia nel 2012 a dare alle stampe le sue opere più celebri, le quali ottengono rapidamente  un ampio consenso. Stephen King  ha dichiarato di essere stato ispirato dai racconti della Jackson in più di un’occasione,   affermazione che trova facile riscontro in molti dei suoi romanzi più famosi. Mi viene in mente, uno su tutti, “Shining” : claustrofobico ed angosciante, ha molti tratti in comune con “L’incubo di Hill House”.

Prima di leggere il romanzo è bene conoscere almeno sommariamente la vita dell’autrice, perché le sue vicende personali influenzarono enormemente i suoi scritti. Shirley Jackson fu tragicamente segnata da traumi infantili importanti, che la resero psicologicamente fragile ed inquieta. Finì tra le braccia di un marito sbagliato, al quale si aggrappò in cerca pace e protezione, ottenendo invece in cambio solo altre umiliazioni. La supportò nel suo lavoro di giornalista e scrittrice perché aveva fiducia nelle sue capacità, ma l’infedeltà continua di lui insieme agli irrisolti problemi con la madre la portarono ad abusare di tranquillanti, anfetamine ed  alcol. Un percorso difficile, lastricato di paure e fobie che sfociarono infine in un brutto esaurimento nervoso, dal quale si riprese lentamente. Non fece però in tempo a godersi la ritrovata libertà mentale, perché un infarto la colse nella notte a soli 48 anni. Shirley Jackson fu una donna molto sfortunata, vittima di abusi psicologici che costituirono l’imprinting di tutte le sue opere: il rifiuto della madre, il maschilismo retrogrado del marito, un ruolo di moglie e di madre dal quale si sentiva schiacciata crearono dentro di lei una prigione mentale ed una condizione di sudditanza psicologica che non le permise mai di sentirsi realizzata ed appagata,  nemmeno dal proprio lavoro.

La protagonista di questo romanzo è Eleanor Vance, una ragazza  con alle spalle un passato infelice, permeato di solitudine e dolore. Per anni costretta ad accudire la madre malata, una volta morta la genitrice decide di dare una svolta alla sua esistenza rispondendo all’annuncio del professor John Montague. Il professore, laureato in antropologia e appassionato studioso di fenomeni paranormali, decide di prendere in affitto l’antica ed isolata dimora di Hill House perché infestata da strane presenze. Il suo progetto di ricerca prevede l’ausilio di alcuni volontari dotati di particolari abilità psichiche, ma il gruppo iniziale composto da  cinque prescelti si riduce a tre: Luke Sanderson, nipote dell’attuale proprietaria della villa, l’artista Theodora ed infine Eleonor, entrambe con  esperienze paranormali alle spalle. Eleonor infatti è convinta di aver sentito sua madre chiamarla durante la notte, invocando il suo aiuto, quando oramai era morta da giorni. Theodora è esuberante ed eccentrica, mentre Eleanor è timida ed insicura ed ancora profondamente turbata dalla morte della madre, della quale si sente in qualche modo responsabile. Comincia così questa storia, una storia di fantasmi ricca di elementi gotici che è considerata giustamente un caposaldo della letteratura di genere.

“Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni. hill house, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; si ergeva così da ottant’anni e avrebbe potuto continuare per altri ottanta. dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di hill house, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola.”

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I primi giorni scorrono senza che accada nulla, ma proprio quando l’esperimento ristagna e la permanenza degli ospiti a Hill House sembra essere nulla più che un banale soggiorno in una vecchia dimora di campagna, qualcosa comincia a strisciare all’interno, ad insinuarsi  nei meandri delle antiche mura, qualcosa di vivo e malvagio che lentamente, ora dopo ora, comincia ad intaccare la stabilità mentale degli occupanti. La Jackson è avara di dettagli orrorifici e punta tutto sull’immaginazione, stimolando la paura attraverso ciò che – appositamente – non viene rivelato.


E’ la suggestione a dominare il racconto, un’ inquietudine che viene continuamente alimentata da avvenimenti  scientificamente inspiegabili, quanto meno non del tutto. Attraverso un’abile  prosa ad effetto,  l’autrice fa oscillare pagina dopo pagina i suoi protagonisti tra normale e paranormale, tra l’elemento razionale e quello sovrannaturale confondendo, stordendo, disorientando.


Anche le dinamiche all’interno del gruppo si modificano in continuazione, fino a quando convergeranno in un’unica direzione: l’allontanamento forzato di Eleanor, giudicata da tutti oramai troppo instabile mentalmente per proseguire con l’esperimento. E’ Eleonor infatti la vittima prescelta dalle sinistre presenze che abitano la casa, una dimora antica come antichi sono i demoni che la popolano. Non già creature spaventose con le sembianze dei mostri dell’infanzia, ma un’entità maligna  che riesce ad insinuarsi nelle menti più labili, fino a possederle del tutto. E’ la casa stessa a volere Eleonor, la povera, indifesa, triste e sola Eleonor che lentamente impazzisce, perdendo la percezione di sè stessa e sentendo Hill House come se fosse il suo corpo:  “E’ dentro di me, è nella mia testa, ed ora esce, esce, esce…” 

Cosa differenzia questo romanzo così datato da tutti gli altri capolavori di genere? Prima di tutto il background psicologico della scrittrice  fornisce la base ideale per un’opera gotica: gli stereotipi ci sono tutti, e nonostante attingano a piene mano dal suo vissuto la Jackson riesce a  giocarci con grande abilità. L’eroina infelice, psicologicamente fragile e disturbata non è altro che la proiezione di sè stessa. Secondariamente, ma non per importanza, la Jackson utilizza una prosa pressochè perfetta. Si potrebbe trovare  da ridire sulla trama scarna o sul ritmo poco incalzante, ma è proprio nell’apparente staticità degli accadimenti che Hill House – in realtà – si muove. Le scene di stasi e di descrizione del paesaggio risultano essere perfino più angoscianti di quelle in cui si manifesta il paranormale, grazie ad una tecnica narrativa da dieci e lode che riesce a creare eccezionali suggestioni. Si ha sempre la sensazione che qualcosa di terribile stia per accadere, strisciando intorno ad Eleonor, fuori e dentro di lei, anche quando semplicemente osserva il tramonto o cammina lungo il sentiero che conduce alla casa.

Nonostante sia universalmente riconosciuto come un capolavoro, questo romanzo ancora oggi non è immune da pesanti critiche e c’è perfino chi , appassionato di horror spiccio, lo trova noioso ed inconcludente, prolisso e al tempo stesso pieno di buchi nella trama. Probabilmente non siamo abituati a trovare tanta profondità in una storia di fantasmi e di paura, e la cosa forse può   essere fuorviante.


“L’incubo di Hill House” è prima di tutto una storia di solitudine estrema,  straziante e crudele, raccontata con una raffinatezza ed una eleganza inusuale. Il terrore, la paura e l’angoscia arrivano quando la sofferenza ed i conflitti interiori hanno già spezzato in due la vita dei protagonisti, prendendosi quel che resta. Il messaggio di fondo è uno solo, una verità incontrovertibile: sono i nostri fantasmi interiori quelli che fanno più paura, assai più spaventosi e crudeli di quelli che popolano le case infestate.


L’incubo di Hill House – Shirley Jackson (Gli Adelphi)