Libri in pillole: “Un albero cresce a Brooklyn” di Betty Smith

Ambientato nel quartiere popolare di Brooklyn nei primi anni del 1900, il romanzo ha per protagonista Francie Nolan e la sua famiglia di immigrati irlandesi, costretta a combattere ogni giorno contro le durissime condizioni di vita dovute alla crisi economica in cui versa l’intero paese, e la conseguente mancanza di lavoro. La madre, una donna dolce ma determinata, per sbarcare il lunario lava i pavimenti dei palazzi vicini; il papà invece, che Francie adora, ha problemi di alcolismo e nonostante ami molto la sua famiglia purtroppo non riesce a contribuire concretamente al suo sostentamento. Nel cortile della vecchia e consunta palizzata in cui abitano i Nolan troneggia un albero dalla folta e rigogliosa chioma che in quell’estate assolata del 1912, anno in cui comincia la nostra storia, offre ombra e riparo alla famiglia e riempie di meraviglia i curiosi occhi di Francie. Sono in molti a chiamarlo “l’Albero del Paradiso” perché è l’unica pianta che riesce a germogliare tra il cemento dei quartieri popolari, come un dono di Dio in mezzo alle disgrazie degli uomini. Francie Nolan è come quell’ albero, che resiste alla mancanza di luce ed acqua, che invece di morire di stenti sembra combattere una lotta disperata per continuare a protendere i suoi rami verso il cielo. Francie Nolan è la povertà vista attraverso gli occhi di una ragazzina che usa l’immaginazione, il suo spirito di osservazione e l’amore sconfinato per i libri per riscattarsi da un mondo che sembra non avere un posto per lei. La sua determinazione e il suo desiderio infinito di imparare, dai libri come dalla vita, la porteranno in alto, come fosse il prolungamento di quell’albero ostinato che cresce solitario tra il cemento del suo quartiere.

Nonostante la vita dei Nolan sia oggettivamente amara e terribilmente difficile noi lettori non proveremo mai sentimenti di commiserazione o compassione, perché tutti gli accadimenti, le lotte disperate e le privazioni che subiscono sono filtrate dall’intensa gioia di vivere di Francie e dall’amore della sua disgregata famiglia.

“Nominato dalla New York Public Library come uno dei grandi libri del secolo appena trascorso, “Un albero cresce a Brooklyn” è una magnifica storia di miseria e riscatto, di sofferenza ed emancipazione di bruciante attualità.”

Buona lettura!

Libri in pillole: “I pascoli del cielo” di John Steinbeck

Steinbeck non mi delude mai, è uno degli scrittori che amo di più in assoluto. “Pascoli del Cielo” è il nome di una valle della California, chiamata così per la dolcezza del paesaggio, talmente bello da sembrare quasi divino, e talmente invitante da ispirare nelle persone fiducia nel destino che li ha condotti fino a lì. La suggestiva bellezza della vallata però è solo una cornice che è in aspro contrasto con la vita delle persone che la abitano: uomini e donne con i loro segreti inconfessabili, i loro tormenti, il loro dolore, con la loro follia e la loro straordinaria semplicità. La grandezza di Steinbeck sta proprio in questo, nel rendere le storie più comuni degne di essere raccontate, nel dare spessore alle vite più umili, nel trasformare in pura poesia le banalità del quotidiano vivere.

E’ un romanzo corale un po’ atipico perché ogni capitolo è una storia a sè, in cui la costante non è rappresentata dai personaggi ma dall’ambientazione, che richiama l’idea, totalmente illusoria, di una vita idilliaca, spesa a contatto con la natura e nel semplice rispetto delle sue leggi. Ma il male non fa sconti a nessuno e lo vediamo insinuarsi, strisciare e contaminare ogni vita raccontata, semplicemente perché è parte imprescindibile dell’essere umano.

Libri in pillole: “Tenera è la notte” di Francis Scott Fitzgerald

Francis Scott Fitzgerald, fin dalle prime battute di questo suo romanzo- simbolo (in assoluto il suo lavoro più ambizioso) catapulta noi lettori nel mondo dorato della Costa Azzurra degli anni venti, dove il giovane Dick e la bellissima moglie Nicole sembrano incarnare lo splendore e la freschezza di quell’epoca ruggente a cavallo tra le due guerre. Ma a poco a poco entriamo nella vita della coppia, attorno alla quale ruotano altri personaggi eccentrici e problematici, e scopriamo così che Dick è uno psichiatra e Nicole è una malata di mente che l’incesto paterno subito da adolescente ha reso schizofrenica. Moglie e marito, medico e paziente, tra i due esiste un rapporto d’amore tanto forte quanto esigente e distruttivo, simbiotico e pericoloso, che condurrà i due ad un triste ma inevitabile epilogo. L’incredibile di questo romanzo è come Fitzgerald riesca a farci sentire la solitudine e il turbamento interiore di tutti i personaggi come se fossimo noi a viverla, con lo stesso trasporto e la stessa commozione. Ed è altrettanto stupefacente come anche gli aspetti concreti della vicenda siano resi estremamente vivi e reali, tanto che molte volte pare  sentire davvero l’estate sulla pelle in quell’epoca lontana e mai vissuta, la musica jazz nelle sere stellate, le bravate tra amici, le risate, i lunghi discorsi inconcludenti tra un drink e l’altro.  E’ un libro molto delicato, per nulla melodrammatico nonostante i temi attorno ai quali si svolge, che pagina dopo pagina  lascia un gusto piacevolmente amaro, una tristezza non angosciante ma molto sottile. Un vero gioiello della letteratura che all’epoca della pubblicazione non ottenne un grande successo, che conosce cinque differenti versioni,  e che è essenzialmente un’opera autobiografica. La protagonista femminile del romanzo è infatti la trasposizione letteraria di Zelda, la moglie nevrotica e perennemente infelice di Fitzgerald che negli anni si ammalò di schizofrenia, proprio come la Nicoledel libro.

Ho appena chiuso il libro e l’ho riposto nella mia libreria accanto a “Il Grande Gatsby”, ma so già che sarà uno di quei rari romanzi che rileggerò negli anni.

Tre libri dalla parte delle donne

(Tempo di lettura: 7 minuti)

il “femminismo”, inteso come movimento socio culturale, ha segnato l’epoca moderna e ancora oggi continua ad essere il promotore di numerose battaglie per l’affermazione dei diritti di genere. Non dovrebbe essere una questione ancora aperta, ma il fatto che nel 2022 continui a fomentare dibattiti, a promuovere manifestazioni e istigare movimenti a tutela delle donne (dal recente “me too moviment” alla difesa del diritto all’aborto, minacciato dai governi più conservatori) la dice lunga su quanto in realtà siamo ancora molto lontani dal raggiungimento del suo obiettivo fondamentale: una presa di coscienza collettiva, forte e coesa, in grado di insinuarsi nella struttura patriarcale della nostra società. L’asservimento delle donne alla figura maschile è una realtà sociale ancora molto radicata, soprattutto in ambito familiare, ma spesso non ne siamo consapevoli. Inconsciamente mettiamo in atto meccanismi che ci riportano indietro di cent’anni, con buona pace di Emmeline Pankhurst e di Simone de Beuvoir, che col suo trattato “Il secondo sesso” fece tremare la classe politica di allora e scomodò persino il Vaticano. Per questo motivo vale la pena leggere ( o rileggere, perché no) questi tre saggi: perché ci insegnano a riappropriarci della nostra individualità, messa in crisi da anni di relazioni prevaricanti (in ogni ambito della vita), ribadendo i concetti che stanno alla base di una “mentalità femminista” sana e necessaria, che rifugge dagli estremismi e dalla violenza verbale del passato.

  1. UNA STANZA TUTTA PER SE’ di Virginia Woolf

Una delle opere più amate e conosciute di Virginia Woolf è il saggio breve “Una stanza tutta per sè”. Pubblicato per la prima volta nel 1929 e rivolto inizialmente alle sole studentesse di Cambridge, nel tempo è diventato un vero e proprio manifesto culturale del femminismo. Quello buono, sano e giusto. Quando lo lessi per la prima volta avevo circa vent’anni e mi era sembrato che la Woolf si stesse rivolgendo proprio a me, spronandomi a perseverare nei miei obiettivi e a non abbandonare i miei sogni di ragazzina, anche se la mia vita stava prendendo una piega decisamente diversa.  Ho riletto questo suo saggio di recente ed ho compreso che, se interpretato nel modo giusto, può contribuire a migliorare la quotidianità anche di donne già mature, che con la vita sono dovute scendere a patti. In uno dei suoi passi più significativi l’autrice sprona le sue lettrici a rendersi economicamente indipendenti, a ritagliarsi uno spazio proprio, sia fisico che mentale, nel quale esercitarsi a scrivere in piena autonomia di pensiero. Tendiamo infatti a tralasciare quello che per la Woolf è invece essenziale: Il coraggio di esprimersi liberamente. Quella forza creativa che, se risvegliata dal torpore, è in grado di ridare vita alle scrittrici  invisibili, morte senza essere mai nate veramente, inghiottite da un mondo di uomini fatto su misura per gli uomini. Come l’immaginaria sorella di Shakespeare, che la Woolf assurge a simbolo massimo del genio e della creatività femminile rimasti inespressi poiché schiacciati dalle società patriarcali che da sempre dominano la storia. Come quella che vive e freme  in ognuna di noi, sotto pile di indumenti da stirare.

“Una stanza tutta per sè” non deve quindi essere percepito come un luogo fisico, perché la Woolf parla di un luogo dell’anima. Così come le poetesse sconosciute a cui ridare vita non sono altro che la sua personale metafora sull’ emancipazione femminile, fondamentale punto di arrivo (o forse di partenza) per le donne di qualsiasi generazione.

2. STAI ZITTA di Michela Murgia

“…e altre nove frasi che non vogliamo sentire più.

Al netto di alcune esagerazioni di troppo ritengo che il lavoro di Michela Murgia sia piuttosto interessante, perché riesce sbugiardare molte espressioni tipiche del nostro linguaggio comune, rivelandone la natura fortemente maschilista e misogina. La Murgia elenca con precisione queste dinamiche linguistiche e le eviscera una ad una, fino a dimostrare come certi modi di dire siano entrati talmente tanto a far parte del nostro parlato quotidiano da non farci più percepire il loro vero significato. Secondo l’autrice tra le ingiustizie che subiamo in quanto donne e le parole che ci vengono quotidianamente rivolte esiste un legame profondo, avvilente e mortificante, che con questo breve saggio cerca di mettere a fuoco. Ad esempio, quando si parla di una donna che svolge egregiamente una professione importante, si fa sempre riferimento al suo essere o non essere madre, come se il fatto di avere o meno dei figli sia determinante per riconoscerne il valore sociale. “E’ molto brava nel suo lavoro, ed è anche mamma” è la frase simbolo che ogni tre per due viene sciorinata dal giornalista di turno. Basti pensare alla povera Samanta Cristoforetti che si è dovuta sorbire soprannomi del tipo “Astromamma”, con relativi commenti poco edificanti sulle sue scelte professionali a discapito della famiglia: aggettivi inutili e fuorvianti che inevitabilmente portano in secondo piano l’eccezionalità della sua carriera. Che in realtà è ancora scivolata in terza posizione, visto gli insulti ricevuti per essersi mostrata al mondo con una capigliatura da assenza di gravità che secondo alcuni “luminari” la denigrava come donna. Come detto all’inizio del post in alcuni punti ho trovato lo scagliarsi della Murgia contro queste frasi di uso comune un po’ eccessivo e ridondante, con esempi e passaggi ricchi di autocompiacimento, tuttavia ne consiglio la lettura perché contiene molti spunti di riflessione, da rielaborare per un nostro accrescimento personale.

3. DOVREMMO ESSERE TUTTI FEMMINISTI di Chimamanda Ngozi Adichie

Questo saggio, pubblicato nel 2014, è l’adattamento di una conferenza che l’autrice tenne qualche anno prima durante l’evento TEDxEuston. TED è un’organizzazione no profit americana che ha come obiettivo la diffusione di idee innovative e stimolanti che possono cambiare la vita delle persone e il modo in cui esse si relazionano l’una con l’altra. Nessuno meglio di Chimamanda avrebbe potuto rappresentare questo progetto: il suo intervento ha letteralmente segnato un punto di svolta nella storia del femminismo, arrivando al cuore delle persone con una forza e una semplicità unica. Il suo speech conta ad oggi qualcosa come 5 milioni di visualizzazioni ed è stato pubblicato e tradotto in 28 lingue; il Time, nel 2015, inserisce la scrittrice nigeriana tra le 100 persone più influenti del mondo. Il successo di questo saggio sta nella diversità del suo approccio rispetto alla questione femminista: Chimamanda si definisce una “femminista africana felice”, che ama indossare il rossetto e i tacchi alti perché così si piace di più e che non odia affatto gli uomini, perché un’ attivista non deve essere necessariamente arrabbiata, in lotta perenne con il mondo. La sua non è una chiamata alle armi per affrontare l’ennesima battaglia, ma vuole far comprendere a tutti, uomini e donne, che esiste un serio problema con la differenziazione di genere e che tale situazione può essere risolta solo attraverso la consapevolezza e la volontà di smantellare i vecchi costrutti sociali. Afferma Chimamanda: “La mia definizione di “femminista” è questa: un uomo o una donna che dice sì, esiste un problema con il genere così com’è concepito oggi e dobbiamo risolverlo, dobbiamo fare meglio. Tutti noi, donne e uomini, dobbiamo fare meglio”. E’ proprio questo il punto. Educare i maschi e le femmine al valore dell’altro sesso, senza preconcetti, senza quei retaggi culturali da cui noi adulti ci stiamo liberando a fatica. Grazie all’intelligenza e alla grazia di questa scrittrice immensa il femminismo ha perso definitivamente la sua accezione negativa, dimostrando quanto non sia più necessario fare la barricadera per difendere i propri diritti, ma è sufficiente aprirsi al cambiamento ed accoglierlo al meglio.

Tre libri da leggere in autunno

(Tempo di lettura: 5 minuti)

Per scivolare pigramente tra le braccia dell’autunno appena arrivato, non c’è niente di meglio che abbandonarsi alla lettura. Le ombre della sera si allungano, le domeniche pomeriggio si fanno quiete e silenziose, avvolte da una soffusa luce dorata; agosto, con la sua sfacciataggine, lo abbiamo accomodato ormai fuori dalla porta. E’ ora di mettere su una tazza di the, di accoccolarci in poltrona e sprofondare in una storia che ci rapirà letteralmente l’anima.

1. L’OMBRA DEL VENTO di Carlos Ruis Zafròn

Pubblicato per la prima volta nel 2004, è il tipico esempio di un best seller che ce l’ha fatta, sopravvivendo a se stesso. Nel giro di qualche anno è diventato un vero e proprio classico della narrativa contemporanea tanto da guadagnarsi, per il suo quindicesimo anniversario, una nuova edizione riccamente corredata dalle suggestive immagini del fotografo Francesc Catalá-Roca, dedicate alla Barcellona post bellica in cui il romanzo è ambientato. Zafron, scomparso prematuramente nel 2020, ha imbastito una trama piuttosto originale che strizza l’occhio ad una molteplicità di generi: romanzo storico, mistery, giallo classico con spunti thrilleristici e notevoli incursioni nel gotico. Il tutto condito con elementi sovrannaturali che faranno storcere il naso alle menti più razionali e manderanno invece in solluchero tutte le altre. Ambientato a Barcellona del 1946, la storia ha come protagonista un ragazzino di undici anni, Daniel, il cui padre, proprietario di un piccolo negozio di libri usati, lo inizierà all’amore per la lettura e lo condurrà nei meandri di un mistero che si annida tra le pagine di alcuni vecchi testi. Durante la lettura attraverseremo insieme a Daniel i vicoli della città vecchia alla scoperta di antichi libri dimenticati ed orribili segreti, immersi in atmosfere plumbee e suggestive che renderanno la lettura di questo romanzo la compagnia perfetta per i nostri pomeriggi ottobrini.

2. I FALO’ DELL’AUTUNNO di Irène Nemirovski

La scrittura di Irene Nemirovski dispensa sempre momenti di pura gioia letteraria. Delicata e profonda, oltre che stilisticamente perfetta, la sua prosa evoca istanti di rara bellezza ed intensità, lasciandoci immersi in nostalgiche visioni, come se stessimo osservando rapiti un quadro impressionista. E’ davvero complicato riassumere in poche righe i motivi per cui vale la pena leggere questo romanzo, anche se una narrazione di così alto livello da sola potrebbe bastare come unica ragione. I protagonisti sono molteplici e differenti piani temporali scandiscono quella che è a tutti gli effetti un’opera corale, ambientata a Parigi negli anni a cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale. Tuttavia è la complessa storia d’amore tra Thérèse e Bernard a costituire il centro del romanzo, giovani vittime di un tempo feroce ed ingiusto. Le loro vite incarnano l’eterno conflitto dell’umanità tra il bene ed il male, qui rappresentati dall’amore ostinato di Thérèse e dal cinismo di Bernard, che torna dal fronte totalmente trasformato, come se la guerra gli avesse strappato via l’anima. La coralità delle voci protagoniste e la suddivisone della trama in “blocchi” narrativi, nonché le tematiche affrontate, verranno poi riprese e sviluppate dall’autrice nel suo capolavoro “Suite Francese“, rimasto incompiuto. L’autrice era un’ebrea ucraina naturalizzata francese, e come tale subì le terribili conseguenze della Shoah. Venne deportata Auschwitz, dove fu uccisa il 17 agosto del 1942.

” Vedi,” dice la nonna alla nipote, immaginando di prenderla per mano e condurla attraverso vasti campi in cui vengono bruciate le stoppie “sono i falò dell’autunno, che purificano la terra e la preparano per nuove sementi.

3. LE NOSTRE ANIME DI NOTTE di Kent Haruf

In questo romanzo non è l’autunno in senso fisico ad essere evocato dalla narrazione, ma l’autunno percepito come fase della vita, quella parte dell’esistenza che ci accompagna piano piano alla fine del nostro cammino terreno. Kent Haruf, dopo la pubblicazione postuma della sua famosa “Trilogia della pianura“, ci conduce ancora una volta nell’immaginaria cittadina di Holt, Colorado, facendoci conoscere due anziani vedovi, Addie e Louis. Un giorno come tanti Addie bussa alla porta di Louis proponendogli di dormire con lei per quella notte e per altre a venire, solo per farsi compagnia, per non sentire troppo il peso della solitudine. Nonostante le perplessità iniziali Louis accetta: nasce così un tenero sentimento fatto di notti trascorse a raccontarsi la vita a fior di labbra, mano nella mano, in attesa che arrivi il sonno. Nella quiete domestica di quelle sere le confidenze dei due diventano sempre più intime; attraverso confessioni, ricordi e rimpianti le loro anime affiorano in superficie in un modo nuovo, privo di giudizio, totalmente inaspettato. Naturalmente questa relazione non viene compresa dalla piccola comunità di Holt che ritiene decisamente inopportuni quegli incontri, se non addirittura scandalosi; ma, soprattutto, verrà osteggiata dai rispettivi figli, i quali considerano la convivenza notturna dei genitori una specie di follia senile. Nessuno riesce a percepire l’essenza di questo legame, l’atto di coraggio e di libertà che in realtà rappresenta. La vecchiaia per Haruf si trasforma in un’occasione di rinascita e la scelta di Luis ed Addie esprime il legittimo desiderio di essere nuovamente felici, contrariamente ad un’assurda regola sociale che vorrebbe gli anziani stare seduti al loro posto senza più disturbare, mentre attraversano con nostalgia e solitudine l’autunno della vita.

Vale la pena sottolineare però che lo stile di Haruf non è adatto a tutti: la trama è scarna e l’atmosfera rarefatta, i dialoghi sono ridotti all’essenziale e tutto contribuisce a proiettarci in una dimensione quasi spirituale, in cui gli avvenimenti restano sullo sfondo, superflui.

“Il mio amico Maigret”, di Georges Simenon: un omicidio alle isole Porquerolles

La forza dei romanzi dedicati al Commissario Maigret risiede in due punti fondamentali: l’ambientazione, sempre particolarmente suggestiva, e lo spessore psicologico dei protagonisti. La trama e l’intreccio giallistico passano in secondo piano, perchè l’attenzione si sposta sempre verso l’aspetto umano più che su quello metodologico delle indagini. Simenon è stato l’autore che, negli anni trenta, ha rivoluzionato il genere del romanzo poliziesco: lo schema del giallo classico, tutto improntato sulla ricerca meticolosa del colpevole e sull’analisi minuziosa della scena del crimine,  viene abbandonato in favore di ambientazioni popolari e piccolo borhgesi, microcosmi proletari in cui sono gli esseri umani con i loro turbamenti ad essere scandagliati ed osservati, per arrivare infine a comprendre le motivazioni del delitto più che il movente in sè. Anche questa volta ritroviamo gli stessi elementi, amalgamati però in modo differente dal solito: il vero protagonista diventa il paesaggio isolano, che cattura i suoi avventori in un vortice di emozioni a cui nemmeno Maigret può sottrarsi. L’intreccio psicologico quasi non esiste, la trama è lineare e semplice, al punto che spesso durante la lettura non ci accorgiamo nemmeno che il commissario stia in realtà svolgendo un’indagine per omicidio: i colloqui sono scarni, rari, gli interrogatori rapidi e sembrano non portare a nulla, ancora più  del solito. I personaggi che incontriamo, seppur variegati, li abbiamo tutti più o meno già incontrati nella galleria umana di Simenon, ma questa volta anzichè sfuggire tra dimenticati bistrot della periferia parigina o lungo le strade della campagna francese sono tutti prigionieri della malìa dell’isola, che avvinghia e fa ammalare di “porquerollite”, come affermano gli abitanti stessi.

Maigret viene chiamato nel cuore del mediterraneo perché è stato assassinato un uomo, tale Marcelline, un malvivente da quattro soldi che la sera prima del delitto aveva dichiarato di essere amico del famoso commissario parigino. Maigret è ormai diventato un personaggio di spicco, uno che compare sui giornali nazionali e che fa molto parlare di sè per la brillante risoluzione di casi difficili. Addirittura la sua notorietà ha attraversato La Manica, destando curiosità persino tra i colleghi di Scotland Yard, che proprio nei giorni dell’assassinio decidono di spedire in visita al  Quai des Orfèvres il pari- grado commissario Pyke. Pyke viene accolto con sollecitudine dai colleghi francesi e messo alle costole di Maigret, affinché possa vedere con i suoi occhi in cosa consiste il suo tanto decantato metodo, che poi metodo non è.

Una volta approdato sull’isola Maigret si lascia completamente trasportare, vittima inconsapevole di quella strana malattia che gli abitanti del posto conoscono così bene. Il porticciolo con le sue imbarcazioni turistiche, le barche tirate in secca dai pescatori che quando c’è il Mistral stanno tutto il giorno a cucire le reti, la piazzetta su cui si affaccia l’unico ritrovo del posto, “L’Arche de Noe”: con poche sapienti pennellate Simenon descrive un paesaggio che sembra sbucato fuori da un quadro impressionista, regalando al lettore intense suggestioni. Il Mistral se n’è andato lo stesso giorno in cui Maigret è sbarcato in quel luogo incantato, in cui il tempo  sembra avere  un respiro differente rispetto a quello che scorre a Parigi. Il tempo qui si dilata fino a farti dimenticare di vestirti per uscire dalla tua stanza d’albergo, ritrovandoti in ciabatte e veste da camera ad osservare il via vai del porto. E poi l’odore della domenica, un profumo di caffè e nostalgia che Maigret riconoscerebbe ovunque e che qui sull’isola è così amplificato da sconfiggerlo inesorabilmente, un sentimento languido a cui vorrebbe potersi abbandonare. Eppure,  tra quelle viuzze bianche investite da colori e profumi mediterranei, è stato commesso un efferato omicidio. Ed il colpevole non se ne è mai andao. Si  aggira noncurante insieme agli altri abitanti dell’isola, trascorrendo oziose giornate al sole caldo della primavera provenzale, tra un bianchino consumato all’Arche de Noè ed una partita a petanque. Tocca quindi investigare, e quel che è peggio è che lo deve fare in presenza di Pyke, il quale forse si aspettava qualcosa di più da quel viaggio e invece gli tocca fare il turista. Perchè quando Maigret si mette all’opera non prende penna e taccuino e non scandaglia la scena del crimine come un radar, ma comincia ad osservare: scruta la varietà umana che per un motivo o per l’altro popola l’isola – ognuno con un buon motivo per restare ed altrettanti per andarsene – si immerge nelle atmosfere che lo circondano e si lascia guidare dalle sensazioni che gli arrivano fino a quando, finalmente, tutto gli sarà chiaro. Come si può spiegare all’inglese Pyke cosa è l’intuizione, e come arriva? ” Questo è il mio metodo”, gli spiega Maigret.  E noi, una volta di più, abbiamo la certezza che nulla come l’empatia verso i nostri simili sia la chiave per comprendere la complessità delle vicende umane.

“il passeggero del Polarlys”, di Georges Simenon: un delitto tra i fiordi

“Il passeggero del Polarlys” è uno dei primissimi romanzi di Simenon, pubblicato per la prima volta nel 1932, ovvero la bellezza di 88 anni fa. La datazione di un romanzo è spesso qualcosa di relativo, lo sappiamo bene, ma mai come in questo caso mi è parso evidente. La contemporaneità dello stile narrativo e delle vicende umane che intessono la trama rendono infatti questo noir un romanzo senza tempo, tanto perfetto e verosimile negli anni trenta quanto oggi. Nonostante rappresenti praticamente un esordio ritroviamo già tutti gli elementi cari all’ autore,  quelli che lo contraddistingueranno negli anni a venire e che renderanno immortale la sua intera produzione: la profonda conoscenza delle umane passioni,  l’attenta analisi psicologica dei personaggi, la predilezione per ambienti chiusi al limite del claustrofobico a cui sempre fa da sfondo un paesaggio suggestivo. E poi, naturalmente, uno o più  delitti a completare il quadro.

Il Polarlys è una nave mercantile la cui rotta è da anni sempre la stessa: parte da Amburgo con un carico di carne salata, frutta e macchinari per raggiungere via via tutte le piccole cittadine portuali della costa norvegese scambiando la merce trasportata con merluzzo, olio di foca e pelli d’orso. Nonostante sia un’imbarcazione nient’affatto ospitale è solita trasportare anche qualche passeggero, che approfittano della rotta per raggiungere luoghi isolati tra i fiordi. Quella mattina, quando  il Polarlys è ancora ormeggiato in porto, il capitano Petersen avverte nell’ aria glaciale ammantata di nebbia un presagio nefasto, quello che i lupi di mare come lui chiamano “Il malocchio“.  Non sarà uno dei soliti viaggi, di questo è certo. Quello che non comprende è il perché. Potrebbe dipendere, riflette, dal fatto che l’equipaggio è cambiato per la prima volta dopo anni: la compagnia gli ha mandato infatti un terzo ufficiale, un ragazzo imberbe appena uscito dalla scuola navale, dall’ aspetto smunto ma impeccabile che però non gradisce,  provando un’immediata diffidenza. Il suo capo macchinista ha poi letteralmente raccattato sul molo un vagabondo nulla facente per sostituire all’ ultimo minuto un carbonaio malato, che gli piace ancora meno del suo terzo ufficiale. Infine, ci sono i passeggeri: dei cinque che si sono registrati all’ imbarco uno è scomparso immediatamente dopo, lasciando solo il suo bagaglio a testimoniarne la presenza a bordo; un fatto quanto meno insolito, come ancora più insolito  è l’imbarco di Katia Storm, una giovane donna bionda, dai tratti infantili ma dalla bellezza conturbante. Una creatura misteriosa, ambigua, raffinata, in netto contrasto con lo stile semplice e rozzo della nave. Perché una donna così decide di imbarcarsi su un mercantile come il Polarlys, con la puzza di merluzzo che invade le cabine  ed il ponte costantemente ingombro di merci? Perchè quel viaggio tra i fiordi ghiacciati, con una temperatura polare che stringe le membra come in una morsa? 

Mano a mano che il mercantile prosegue il suo viaggio addentrandosi nel fitto di una tempesta di neve, l’oscuro presagio annusato nell’ aria dal capitano Peterson sembra trovare conferma nel misterioso delitto che viene compiuto a bordo, a cui seguono strani ritrovamenti che sembrano indicare un colpevole ma che, invece, servono solo a deviare i sospetti. Un altro assassinio, avvenuto tempo prima a Parigi, pare essere collegato con l’omicidio compiuto a bordo: un miglio alla volta il mistero si dipana, ma l’atmosfera cupa  e spettrale continuerà a gravare su quel disgraziato mercantile come una maledizione. Peterson, marinaio di lungo corso, è uno dei protagonisti più indovinati e meglio tratteggiati dalla penna di Simenon. Dalla corporatura tarchiata e robusta, energico e concreto, prende in mano la situazione cercando di capire cosa stia succedendo durante quella traversata, indaga, interroga il suo equipaggio, si pone mille dubbi e cerca risposte alle sue domande osservando, o meglio scrutando, la vita di bordo. In particolare si arrovella su una certa frase, buttata lì quasi per caso dal carbonaio improvvisato, della quale non riesce a comprendere il significato e che pure suona come un monito, un avvertimento. Anche Katia Storm  è una figura perfettamente delineata, una dark lady dall’ aria innocente ma dalla personalità viziosa e disturbata fatta apposta per scombinare gli equilibri di passeggeri ed equipaggio.

Chiudendo gli occhi pare anche a noi di scorgere  in lontananza la nave mercantile mentre cerca il suo spazio all’ interno dei fiordi, con il suo scambio di averi e di uomini che avviene puntuale in ogni  minuscolo porticciolo della Norvegia, altrimenti isolato. La fitta nebbia, densa e ghiacciata come glassa, avviluppa il Polarlys trasformandolo in una macchia di luce evanescente nel buio della notte polare,  pulsante di solitudine, smarrimento ed inquietudine.

 

Il passeggero del Polarlys, Georges Simenon – Gli Adelphi

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“Strade di notte”, di Gajito Gazdanov: l’esilio dell’anima

Per chi già ha conosciuto ed amato Gajito Gazdanov in “Incontrarsi a Parigi”, in questo romanzo troverà la riconferma del suo grande talento letterario. Gazdanov nacque a San Pietroburgo agli albori del 1900, e dopo aver trascorso la giovinezza in Siberia ed Ucraina prende parte alla guerra civile russa arruolandosi nelle file dell’armata bianca. Nel 1920, in seguito alla sconfitta dei controrivoluzionari, fu costretto all’ esilio e si rifugiò a Parigi. Qui Gaznadov conduce un’esistenza precaria, svolgendo innumerevoli lavori che non gli permettono di coltivare a tempo pieno il suo talento letterario. Tra le varie mansioni che svolse in gioventù  vi fu anche quella di tassista notturno, e sarà  proprio questa l’esperienza da cui  trarrà ispirazione per comporre “Strade di notte”.

Le strade che ripercorre scrivendo sono quelle che una notte dopo l’altra l’hanno portato ad attraversare  il cuore nero di Parigi, quello popolato da miserabili e reietti, prostitute ed alcolizzati cronici capaci di sperperare tutto il guadagno di un mese  in un solo night club. La città vista attraverso i suoi occhi è nuda e scarna, è una giostra che ha finito la sua corsa e che non ha nulla del fascino de “La Ville Lumière”. E’ un altro sguardo quello che  ci offre Gaznadov, forse più sincero, sicuramente del tutto impermeabile alle suggestioni che Parigi offre ai suoi avventori. E’ uno sguardo distaccato, intriso di una invincibile nostalgia per la sua amata Russia che lo accompagna costantemente, fino a quando giunge l’ora di caricare anche l’ultimo vagabondo di Les Halles. Prima di prendere la licenza come tassista Gaznadov lavorò nella fabbrica della Renault per qualche tempo, ma dopo poco si licenziò perchè non riusciva a sopportare  quell’ esistenza da topo in gabbia, fatta di giornate sempre uguali, scandite dal suono della sirena ed inframmezzata da qualche sigaretta fumata insieme ai colleghi. Non riusciva a comprendere come facessero gli altri  operai a trascorrere una vita intera in quelle condizioni di staticità e di monotonia  che tanto facevano a cazzotti con la sua natura curiosa e ricca di sfumature.

Se avevo detto addio alla fabbrica non era per il troppo lavoro: ero sanissimo e non sapevo, o quasi, cosa fosse la stanchezza. Però non sopportavo di starmene rinchiuso in reparto, mi sentivo in gabbia e mi chiedevo come facessero gli altri a passare la vita, decine di anni, in quelle condizioni.

Il lavoro di tassista notturno gli permetteva se non altro di entrare in contatto con altri esseri umani, uomini e donne sull’ orlo del baratro che però muovono qualcosa dentro di lui. Sono, in fondo, i molti  riflessi di sè stesso, la compagnia perfetta per la sua solitudine, una  consolazione alla sua tristezza di esule.  Gaznadov riconosce nelle loro storie in bilico una disperazione che li è familiare,  in grado di donargli un conforto di cui ha assoluto bisogno. Non è necessario ascoltare le loro storie per conoscere le loro vite, non sempre: all’autore basta soffermarsi ad osservare i loro visi erosi dal tempo, inespressivi, rassegnati a non avere più prospettive, capaci solo di vivere il momento con un’intensità spaventosa, al tempo stesso tragica ed affascinante.

Ricordo in eterno il viso di una donna che ho incrociato una volta soltanto, tengo a mente per anni emozioni e pensieri di una singola giornata. L’unica cosa che dimentico con facilità sono le formule matematiche, le trame e i contenuti dei libri e manuali letti nel tempo. Le persone, invece, le ricordo tutte quante, anche se la stragrande maggioranza di loro non ha avuto alcun ruolo nella mia esistenza.

Qualcuno inevitabilmente attira più di altri la curiosità dell’autore, spingendolo a cercare la loro compagnia anche quando la corsa finisce: è così per la Raldi, una prostituta ormai sul viale del tramonto che ai tempi de La Belle Epoque era la più desiderata di Parigi, corteggiata da uomini ricchi e potenti, a cui ora non resta che qualche misero orpello a ricordarle i fasti di una vita passata.  E poi c’è Platone, un alcolizzato che Gaznadov incontra praticamente tutte le notti, alcune volte per caso, altre per scelta: è un uomo colto, che ama parlare di filosofia e che non ha nessuna speranza di redimersi. Forse, nemmeno la cerca. Una donna ed un uomo allo sbando, loro come  tanti altri che Gaznadov osserva dallo specchietto retrovisore, o sul ciglio della strada mentre aspettano di essere trascinati ancora un po’ lungo le strade buie dei quartieri suburbani. Ogni notte queste creature inconsapevolmente umane cercano la forza per andare avanti dissolvendosi tra bettole fumose e squallidi caffè, prima che il giorno li respinga ancora una volta nei bassifondi, inchiodati all’ angolo dallo sguardo impietoso della gente perbene.


Il senso di questo romanzo è tutto qui: offrire a noi lettori una prospettiva diversa, aiutarci a comprendere come la vita sia spesso attraversata da un gomitolo di strade malamente illuminate, come quelle che percorre lui ogni notte, così diverse dai lussureggianti boulevard del centro, ma non per questo meno degne di essere percorse. Ognuno dei suoi avventori ha una storia alla spalle che merita di essere raccontata ed ascoltata, da cui trarre profondi insegnamenti a dispetto delle apparenze: quello che Gaznadov impara, e noi lettori  con lui, non è altro che la vita stessa, con i suoi percorsi tortuosi, i suoi successi e le sue rovinose cadute, spesso annunciate ed inevitabili, alle quali assistiamo impotenti.

“Lessico famigliare”, di Natalia Ginzburg: i ricordi straordinari della famiglia Levi

Il titolo del capolavoro di Natalia Ginzburg è la prima cosa che colpisce, che cattura, e segna la chiave d’ingresso nel mondo dell’autrice. Si tratta di una storia semplice nella sua struttura, ma eccezionale per il contesto in cui si svolge: sono i ricordi della famiglia Levi, ebrei ed antifascisti,  che in una Torino piena di fermento culturale e politico trascorrono gli anni a cavallo della seconda guerra mondiale, tra il 1930 e il 1950. Il padre Giuseppe,  professore universitario di biologia, è senza dubbio la figura cardine su cui ruota la prima parte del romanzo, quando i cinque fratelli Levi sono ancora ragazzini e vivono tutti nella grande casa di via Pallamaglio. Scienziato di grande cultura, appassionato di montagna, fervente antifascista, ebbe tra i suoi studenti tre Premi Nobel: Salvador Luria, Renato Dulbecco e Rita Levi-Montalcini.
Il capofamiglia Levi è di certo un uomo che non vuole passare inosservato, ed è un’autentica fucina di espressioni meravigliose ed uniche che riempiono l’infanzia di Natalia e dei suoi fratelli Gino, Mario, Paola ed Alberto. Anche la madre Livia è una donna di un certo spessore, che la Ginzburg descrive come uno spirito lieto in grado di alleviare anche  i momenti più cupi che la famiglia è costretta ad attraversare a causa delle persecuzioni fasciste, delle leggi anti ebraiche e della guerra. Da sempre Livia frequenta salotti culturali importanti, grazie ai quali instaura rapporti di profonda amicizia con Anna Kuliscioff, Filippo Turati ed i fratelli Rosselli. La sorella di lei, zia Drusilla, è la moglie di Eugenio Montale. I ricordi d’infanzia di Natalia gravitano quindi attorno a queste figure misteriose e leggendarie, di cui si sapeva poco e nulla. La Ginzburg racconta come se avesse vissuto una specie di sogno ad occhi aperti i giorni eccezionali in cui la sua famiglia  si trovò ad ospitare sotto falso nome Filippo Turati prima della fuga in Corsica, avvenuta notte tempo dal “Molo lanternino verde” di Savona, l’11 dicembre 1926. I ricordi sono quelli di una bambina completamente ignara della portata storica che quegli avvenimenti ebbero in realtà, ma tuttavia noi lettori riusciamo a comprendere perfettamente lo stato d’animo di tutti, un misto di eccitazione e paura per quella complicità politica che comunque era necessaria, per una famiglia come la loro. Il socialismo della famiglia Levi è molto più di una scelta politica: è un retaggio culturale, è uno stile di vita, è un fatto assodato che si contrappone all’ innaturalità del regime fascista, verso il quale il professore Giuseppe Levi ha solo parole di scherno. Per lui, Mussolini era “l’asino di Predappio“, e sempre lo sarebbe stato nonostante l’ascesa al potere e la promulgazione delle leggi razziali che lo costrinsero ad espatriare in Belgio. L’antifascismo non era un’ opinione, era qualcosa che faceva parte della sua stessa natura. E’ in questo clima familiare dunque che si formano le menti dei ragazzi Levi, che a differenza del padre non si limitano ad osservare il socialismo ma cavalcano il fermento politico di quegli anni diventando attivisti, ognuno a suo modo. Le conoscenze importanti della famiglia si allargano: entrano a far parte delle amicizie dei Levi Adriano Olivetti, ed in seguito Felice Balbo e Cesare Pavese, con i quali Natalia lavorò a stretto contatto all’ allora neonata e misconosciuta casa editrice Einaudi.
La seconda parte del romanzo è  quella più malinconica e più significativa, in cui l’autrice parla in prima persona e fa correre liberi i suoi ricordi più difficili e dolorosi: la prigionia dei fratelli, quella del padre, gli anni della guerra, il suo breve matrimonio con Leone Ginzburg e la tragedia che lo colpì.

I fatti storici restano comunque sempre in secondo piano, rievocati saltuariamente attraverso immagini fugaci ed espressioni colorite, quelle tipiche della famiglia: è sempre il lessico stravagante usato dai genitori il filo conduttore del romanzo, che la Ginzburg rielabora facendolo diventare il simbolo di un’Italia perduta e di una storia che non andrebbe mai dimenticata.
 
 
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Il Lessico dei Levi è il cuore pulsante di una famiglia intera , perché basta pronunciare una di quelle frasi strampalate per richiamare in un attimo  legami indissolubili fatti di anima e sangue, potenti e salvifici. 

Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’ estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c’incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti, o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase, una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire ‘Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna’ o ‘De cosa spussa l’acido cloridrico’, per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole.”

 

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Agatha Christie: una vita appassionante come i suoi gialli

Agatha Christie è la donna che, dopo Lucrezia Borgia, è vissuta più a lungo a contatto col crimine.”

Winston Churchill

Agatha Mary Clarissa Miller nasce nel 1890 a Torquay, in Inghilterra, da padre americano e madre britannica. Il padre, che la lasciò orfana a soli undici anni, era più dedito al cricket e al gioco d’azzardo che alla famiglia, motivi per i quali fin dalla più tenera età la piccola Agatha viene allevata dalla   madre e dalla nonna, due figure femminili forti e indipendenti che assicurano alla bimba e ad i suoi due fratelli un’infanzia felice, seppur particolare. Crebbe in un ambiente domestico fortemente influenzato  da credenze esoteriche, al punto tale che tutti i fratelli Christie erano   certi che  la loro madre Clara, spiritista convinta, fosse una medium con abilità straordinarie.  A causa delle idee eccentriche della famiglia non fu mai mandata a scuola e della sua educazione  si occupò la madre stessa, coadiuvata dalle varie goveranti di casa; per il resto, la sua fu un’infanzia borghese tradizionale, trascorsa tra l’Inghilterra e Parigi, dove, in seguito alla morte del padre, viene mandata a studiare in un collegio per signorine, allo  scopo di ricevere un’educazione formale. Tornò in Inghilterra nel 1910, e come tutte le ragazze di buona famiglia dell’epoca, si dedicò alla vita di società. Si sposò nel 1914 con Archibald Christie, un ufficiale dell’esercito della Royal Air Force  di origine indiana, dal quale ebbe la sua unica figlia, e dal quale si separa nel 1926. Manterrà il cognome Christie solo per motivi commerciali, poichè proprio in quegli anni iniziò ad ottenere un certo riscontro come autrice di gialli. Per il primo grande successo dovrà aspettare però il 1926, quando diede alle stampe L’assassinio di Roger Ackroyd – altrimentri tradotto come “Dalle nove alle dieci”un caposaldo della letteratura di genere.  Nel 1928 si risposa con un archeologo di 13 anni più giovane di lei (hai capito, la Agatha?), Max Mallowan, un connubio felice che durò dal 1930 fino alla morte della donna, avvenuta nel 1976. Lo incontrò durante un viaggio verso Baghdad a bordo dell’Orient Express: indovinate un po’ dove trasse ispirazione per comporre una delle sue opere più famose!

Nel 1947, in occasione dei festeggiamenti per gli ottant’anni della regina Mary, la BBC manda in onda un radio-dramma sfornato dalla Christie apposta per l’occasione. La regina infatti, grande fan della scrittrice, alla domanda dell’emittente radiofonica su cosa avrebbe gradito ascoltare il giorno del suo compleanno, rispose: “un nuovo lavoro di Agatha Christie”. Fu così che, all’apice della sua popolarità, la Christie diede  alla luce “Tre topolini ciechi”, tra i racconti più noti e apprezzati, che in seguito  riadattò per il teatro. Il compenso che ricevette dalla BBC per il radio-dramma fu donato interamente all’ospedale pediatrico di Southport. Il romanzo, edito nel 1950 negli Stati Uniti insieme ad altri otto racconti (Tre topolini ciechi  ed altre storie), non è mai stato pubblicato in Gran Bretagna per volere della stessa Christie, affinchè non confliggesse con l’adattamento teatrale: “finchè sarà in scena nel West End di Londra il breve romanzo non potrà esser pubblicato». E così è da oltre 60 anni.

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I suoi gialli sono stati tradotti in 103 lingue, ed in alcuni paesi è diventata talmente popolare da sfiorare la leggenda. In Nicaragua, ad esempio, venne addirittura emesso un francobollo con l’effigie di Poirot. Nel 1971 le viene assegnata la massima onorificenza concessa dalla Gran Bretagna ad una donna: il D.B.E. (Dama dell’Impero Britannico).

Nel 1975 viene dato alle stampe il romanzo “Sipario”, in cui la Christie decide di far morire l’ormai celeberrimo investigatore Hercule Poirot. Poco dopo, il 12 gennaio 1976, all’età di 85 anni, muore anche lei nella sua villa di campagna a Wallingford, per cause naturali. Agatha Christie in vita guadagnò circa 20 milioni di sterline, ovvero circa 23 milioni di euro.

DIECI “PICCOLI” ANEDDOTI:

1- La madre di Agatha sosteneva che la figlia non dovesse imparare a leggere prima degli  8 anni: riuscite ad immaginare la vastità della perdita che avremmo subito? Per fortuna Agatha, sveglia e precoce com’era, imparò da sola ben prima di quell’età.

2 – Poirot a Styles Court”, il primo vero romanzo giallo di Agatha, è stato scritto per  scommessa con la sorella Madge. Intuendo l’abilità della sorella per la scrittura, per spronarla la volle sfidare a comporre un romanzo vero e proprio, anzichè racconti brevi. Come accadde quasi sempre per tutte le sue opere, per comporlo si ispirò alle vicende della vita reale: all’epoca infatti lavorava in un ospedale come infermiera nel dispensario, a contatto con i veleni.  E’ il romanzo che segna l’esordio della sua carriera di giallista: per la prima volta fa la sua comparsa  il  personaggio di Hercule Poirot, l’investigatore privato belga  che la renderà celebre in tutto il mondo.

3 – Hercule Poirot è ispirato ad una persona realmente esistita: un belga che la stessa Christie vide scendere da un pullman nei primi anni ’10. La sua camminata stramba e la particolarità del suo volto e dei suoi baffi colpirono la scrittrice al punto che decise di utilizzarlo come protagonista per i suoi romanzi. “Poirot era un ometto dall’aspetto straordinario. Era alto un metro e sessantacinque, ma aveva un portamento molto eretto e dignitoso. La testa era a forma di uovo, costantementeinclinata da un lato. Le labbra erano ornate da un paio di baffi rigidi, alla militare. Il suo abbigliamento era inappuntabile.

4 – Fin dai primi romanzi si intuisce come Agatha Christie non ami affatto la violenza. La maggior parte degli omicidi infatti avviene per avvelenamento ed in rari casi il killer di turno utilizza qualche arma da fuoco o uccide in modo efferato. Ed io la ringrazio per questo!

5 – Nell’immaginario collettivo  Agatha Christie è quasi sempre una donna di mezza età dall’aria severa, china 24 ore su 24 sulla sua macchina da scrivere. Invece possedava un’anima  poliedrica, era una donna brillante e molto arguta, seppur timida e riservata. Durante l’infanzia e l’adolscenza studiò musica e canto lirico, al quale dovette rinunciare proprio perchè non amava esibirsi in pubblico. Ebbe comunque un’intensa vita sociale, viaggiò moltissimo in tutto il mondo e, udite udite,  adorava surfare. Andò spesso in cerca della “grande onda” con il suo primo marito Archie  in Sud Africa e addirittura ad Honolulu, ed è stata probabilmente uno dei primi europei ad imparare a fare surf stando in piedi sulla tavola. Questo sì che è un colpo di scena, cara Agatha!

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“Ho imparato a diventare esperta, o in ogni caso esperta dal punto di vista di un europeo. Oh, il momento di completo trionfo nel giorno in cui sono riuscita a stare in equilibrio e sono arrivata a riva in piedi sulla tavola!”

6 – Nel 1926, quando ormai godeva di una discreta fama, scomparve per 10 giorni. Un serio litigio con il  marito e la morte della madre  la portarono a far perdere le sue tracce per un po’. Scattò immediatamente l’allarme, e la sua scomparsa diventò un caso internazionale, che occupò anche la prima pagina del New York Times. Oltre mille agenti di polizia, 15.000 volontari e diversi aerei perlustrarono la campagna circostante al luogo in cui venne ritrovata la sua auto, con all’interno la sua patente scaduta ed alcuni vestiti. Persino Sir Arthur Conan Doyle, suo collega ad amico,  si diede da fare: regalò ad una medium uno dei guanti della Christie affinchè riuscisse a ritrovare la donna scomparsa. Nonostante la vasta ricerca per dieci giorni non si seppe nulla di lei, fino a quando un investigatore privato scoprì che alloggiava in un hotel Termale di Harrogate sotto  falso di nome.  Secondo i medici che la visitarono in seguito al suo ritrovamento, una perdita di memoria totale l’aveva portata a fingersi un’altra persona, tale Theresa Neele (guarda a caso lo stesso cognome della nuova amichetta del marito…coincidenza? Io non credo!)

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Questa la versione ufficiale, che da già da sola potrebbe sembrare la trama di uno dei suoi famosi gialli.  Vi sono però varie teorie sul vero motivo della sparizione; tra le  più accreditate dalla stampa e dall’opinione pubblica vi fu quella che metteva al centro di tutto  la volontà della scrittrice di voler far incolpare il marito fedigrafo per la sua scomparsa, per vederlo messo alla berlina sui giornali e magari accusato del suo omicidio e occultamento di cadavere. Deformazione professionale!

La famiglia non ha mai avvalorato questa affascinante teoria, ma resta il fatto che durante tutto il tempo della sua scomparsa la Christie realizzò la sua  piccola vendetta personale: la storia d’amore del marito con l’amante Nancy Neele venne sbandierata su tutti i giornali, e lei  ne uscì come una vittima. Da genio dell’intrigo quale era, l’ipotesi non è poi così surreale…

7 – Aveva un alias. Mary Westmacott, nome nato dall’unione del suo secondo nome, Mary, e dal cognome di alcuni suoi parenti, è lo pseudonimo con il quale pubblicò ben sei romanzi “rosa” intorno al 1930. Sono romanzi d’amore che si discostano completamente dalla tradizione giallistica che la rese famosa,  scritti semplicemente per “divertimento”: la stessa Agatha Christie, nella sua autobiografia, afferma che “voleva fare qualcosa che non fosse proprio il suo lavoro”; disse di aver scritto il primo romanzo con un “leggero senso di colpa” e ne fu estremamente soddisfatta, anche perchè il primo di questi lavori, un’opera prima a tutti gli effetti, ottenne un buon successo di critica e pubblico. Nel 1949 che la Christie rivelò di essere Mary Westmacott, senza che questo intaccò minimamente il suo seguito di pubblico.

8 – Il New York Times ha dedicato una copertina a Poirot. In occasione della pubblicazione di “Sipario”, opera in cui muore il noto investigatore belga, il quotidiano americano dedicò un necrologio in prima pagina a questo iconico personaggio.

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Era il 12 ottobre del 1975. Ormai stanca del personaggio di Poirot, definito da lei stessa  “un pesante fardello“, decise di pubblicare l’ultima avventura del famoso personaggio da lei creato, che aveva già scritto diversi anni prima. Come se Poirot fosse stato la proiezione di un’importante parte di sè, alla morte della sua creatura-simbolo seguirà poco dopo anche la sua: la chiusa perfetta di una vita dedicata alla letteratura.

9 – La casa dove Agatha Christie ha passato gran parte della sua vita si trova a Devonshire, in Inghilterra. Attualmente è disabitata ma potete affittarla per circa 500€ a notte.

10 – Tra le tante (e sconosciute ai più) passioni della nostra Agatha, un posto d’onore merita senza dubbio l’archeologia. Dopo il divorzio da Archie, Agatha si innamorò di un giovane archeologo, Max Mallowan, che sposò nel 1930.  Si incontrarono durante un soggiorno in Iraq, dove lui faceva da guida nei siti di interesse storico. Spesso accompagnava il marito nelle sue spedizioni archeologiche e i suo viaggi con lui contribuirono a fare da sfondo a molti dei suoi romanzi ambientati in Medio Oriente.

“Un archeologo è il miglior marito che una donna possa avere: più lei diventa vecchia, più lui s’interessa a lei.” – Agatha Christie

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“Assassinio sull’Orient Express”, pubblicato nel 1934, fu scritto durante la sua permanenza all’Hotel “Pera Palas” di Istanbul, il capolinea meridionale della famosa linea ferroviaria. L’Hotel ancora oggi conserva la stanza di Agatha Christie come un memoriale per l’autrice.

Ancora oggi, nonostate siano passati quasi cent’anni dalla pubblicazione del suo primo romanzo, la sua classe, la sua arguzia, la sua ironia, ed i suoi geniali colpi di scena restano inarrivabili ed inimitabili. Grazie, Agatha!