Georges Simenon è uno dei miei autori preferiti. I protagonisti delle sue storie sono quasi sempre uomini e donne in bilico, in lotta contro se stessi ed incapaci di accettare il finto perbenismo della vita borghese di quei tempi. I rituali consolidati, le apparenze che dovevano ingannare, la polvere nascosta sotto eleganti tappeti, i villini a schiera in cui riciclare le miserie di un’intimità domestica da tempo logora. Siamo negli anni cinquanta, e per la società conformista di quei tempi il mantenimento dello status quo era una questione di grande importanza. Una quieta sottomissione era di gran lunga preferibile a qualsiasi forma di rivolta : poco importava se poi, nel proprio intimo, una rabbia sorda corrodeva la quotidianità di alcuni, fino a trasformarla in un fardello impossibile da portare avanti senza sbandare.
Questa storia si apre con un’immagine forte, inaspettata: un uomo e una donna stanno percorrendo una strada di campagna, una pioggia lieve ma costante ha reso l’asfalto scivoloso ed il volante dell’auto è governato da una sola mano. Accanto a Lambert c’è Edmonde, la sua segretaria. Dietro di loro un autobus carico di bambini di ritorno da una gita scolastica sta terminando la stretta curva, quando improvvisamente appare di fronte all’autista l’autovettura di Lambert che procede lentamente a zig zag. Una manciata di minuti e accade la tragedia che spaccherà in due la vita di Lambert. Il pullman precipita in una scarpata ed immediatamente divampa un incendio, lasciando un’unica piccola superstite a combattere tra la vita e la morte. Lambert, nei pochi minuti a sua disposizione, compie una scelta suicida: decide infatti di non voltarsi indietro e fugge via dal rogo disastroso, lasciando l’impronta dei pneumatici sull’asfalto bagnato. Accanto a lui, EdmOnde non si scompone di un millimetro: non grida, non si agita, non lo guarda. Tutto quello che fa è abbassarsi con un gesto rapido e abitudinario la gonna, senza che trapeli la minima emozione. Quella fuga all’inizio destabilizza Lambert, che si interroga sul perché abbia istintivamente pestato sull’acceleratore anzichè prestare soccorsi ai feriti. Poi, poco alla volta, comprende la terribile verità. Lui ha bisogno di quella colpa, se la vuole sentire addosso totalmente aggravando la sua posizione con la fuga perché in questo modo costringe sè stesso a fare i conti con la propria vita, che tutto è fuorché esemplare. Lui non è un uomo perbene, non ha nulla dell’integrità morale che ci si aspetterebbe da una persona come lui, elemento di spicco all’interno della piccola comunità in cui vive. Insieme al fratello minore gestisce una società di costruzioni lasciata in eredità dal padre, un lavoro ben avviato e redditizio da cui forse riesce a trarre l’unica soddisfazione della sua esistenza. Edmonde è la segretaria dell’azienda. Da quando un giorno di alcuni anni prima la vide per la prima volta praticare autoerotismo nel suo ufficio, ignara di essere vista, un desiderio furioso ed ottuso si impossessa di lui. Sempre senza dirsi nulla o confessarsi alcunchè diventano l’uno per l’altro un gioco pericoloso, silenzioso e perverso. Un rituale che ha bisogno delle sue regole per svolgersi, e che non ha nulla nè dell’amore romantico o del sesso occasionale: diventano, per l’appunto, complici.
L’avrebbe comunque portata in campagna, in un posto qualsiasi, e l’avrebbe posseduta selvaggiamente. Ne aveva bisogno. Bisogno soprattutto di provare a se stesso che erano loro due ad avere ragione, che quello era un loro diritto, che non c’era niente di sporco o di colpevole nel piacere che si davano l’un l’altro…di che cosa erano colpevoli, alla fine? E se non lo erano, perché, da quando conosceva Edmonde, si sentiva così spesso preda di una sorda inquietudine?
Lambert ed Edmonde sono uniti nella loro bestialità, nel loro squallore, nella loro evasione da una quotidianità che non li appaga, insulsa, inutile, stanca. Quanto meno, questo è quello su cui riflette Lambert. Quello che pensa Edmonde non è dato saperlo: per tutta la durata del romanzo la ragazza è niente più che un oggetto inanimato, una donna che sembra non avere una vita interiore se non fosse per quel guizzo erotico che ogni tanto soddisfa da sola, o con l’aiuto di Lambert. Lambert ha bisogno di questa complicità anche dopo l’incidente, fin dai primi istanti, quando in quell’ attimo di indecisione prima di voltarsi indietro cerca in Edmonde uno sguardo di approvazione o di comprensione. Tutto quello che trova però sono due mani fredde, intente a sistemare l’orlo del vestito. E’ questo il punto più basso che raggiunge Lambert, il punto di non ritorno.
La sua vita è costellata di rapporti personali che non funzionano più, esauriti da tempo, logori e stanchi. Disprezza sè stesso e gli altri, con la stessa forza disperata. Dal momento dell’incidente i giorni si susseguono consapevole che prima o poi la polizia sarebbe giunta alla sua Citroen, ma quel pensiero non lo ossessiona. Non lo teme, anzi, quasi desidera che la questione si risolva presto, così finalmente pagherà per aver sciupato la sua vita, perchè – in fin dei conti – di quell’ incidente lui è solo il colpevole morale. Ben altri sono i suoi tormenti, le sue miserie, e le colpe che non può più espiare. L’unico motivo per cui tenta di sviare le indagini è per preservare quei momenti di intimità con Edmonde, gli unici istanti in cui gli sembrava di tornare a respirare. Come se quella fosse una porta che lo conducesse in un altro mondo, privo di regole bigotte, di felicità fittizie, di ipocrisie, di ruoli imposti e gabbie dorate.
Gli occhi di tutta la Francia sono rivolti a colui che credono l’assassino di 50 bambini, e mentre le indagini della polizia avanzano Lambert è costretto a ripercorrere ed analizzare tutta la sua vita: un matrimonio senza figli, una moglie che da anni lo rifiuta a letto, le prostitute che abitualmente frequenta, le amanti occasionali, il troppo bere, l’odio silente per il fratello dalla vita ineccepibile. Tutto gli appare privo di significato, insopportabile, ormai giunto al capolinea. L’ultimo fotogramma è l’esatto epilogo che mi aspettavo, l’unico possibile quando ormai il buio ha inghiottito l’anima dei disperati.
C’è qualcosa però in questo romanzo che non mi ha del tutto convinta, nonostante la straordinaria bravura dell’autore che come sempre ha saputo eviscerare alla perfezione sentimenti sbagliati e scomodi, tanto umani quanto abietti, creando atmosfere cariche di inquietudine e angoscia. Mi è sembrato che a volte il filo si spezzasse, ho colto delle incongruenze – soprattutto nel personaggio di Lambert – che mi hanno lasciata qualche perplessità. I suoi protagonisti sono sempre tutti un po’ maledetti, dei relitti, dei superstiti, talmente umani nelle loro fragilità che nonostante tutto ho sempre provato una specie di empatia nei loro confronti. Questa invece è la prima volta che non riesco ad entrare in sintonia con nessuno: troppo squallore, troppa miseria umana. Non ce l’ho fatta, non ho provato nessuna “humana pietas” ed ho detestato Edmonde e Lambert molto più del falso perbenismo contro il quale Simenon muove le sue critiche spietate.
I complici – Georges Simenon (Gli Adelphi)