“Le ragazze della libreria Bloomsbury “di Natalie Jenner : un tuffo nella Londra post bellica

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Natalie Jenner, dopo lo straordinario successo del suo romanzo d’esordio “Jane Austen Society”, pubblicato nel 2020, ci catapulta nuovamente nelle atmosfere inglesi dell’immediato dopo guerra raccontando attraverso il microcosmo della libreria Bloomsbury la storia delle commesse che qui lavorano: Vivien, Grace e Evie. Le tre donne sono molto diverse tra loro per carattere e background familiare, eppure le accomuna  una quotidianità molto simile: tutte tre devono lottare ogni giorno contro il radicato maschilismo che detta le regole non solo all’interno della libreria, gestita da un direttore vecchio stile imperturbabile al cambiamento, ma in ogni ambito della loro vita privata. Vivien ha perso il futuro marito in guerra e sogna di diventare una scrittrice; Grace si barcamena tra il lavoro di contabile in libreria, la cura delle famiglia e il peso di un marito frustrato e nullafacente; infine la neo assunta Evie,  tra le prime donne laureate di Cambridge, approda alla libreria come archivista dopo aver visto sfumare la sua carriera accademica in favore di un collega decisamente meno brillante di lei, ma privilegiato in quanto maschio. Saranno proprio la caparbietà e l’ intuizione di Evie le chiavi di volta che proietteranno la libreria Bloomsbury e  tutte le sue protagoniste verso  un cambiamento epocale ed un finale inaspettato (e felice).

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Questo romanzo è un vero e proprio inno al sodalizio femminile, un legame che se costruito e sfruttato in modo intelligente può trasformarsi nel più prezioso degli alleati. Sfidare preconcetti e anacronistiche convenzioni sociali richiede   coraggio, determinazione e anche molta incoscienza, per questo spesso restiamo all’angolo, perché non ci sentiamo abbastanza equipaggiate per affrontare tutte le difficoltà che comporta mettersi contro al pensiero dominante. Avventurarci in questo terreno così ostile con la consapevolezza di avere intorno una solida rete di protezione, invece, può fare davvero la differenza. E cambiare tutto.

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Tanti i riferimenti culturali (lo stesso titolo prende spunto dal “Circolo Bloomsbury” tra i cui membri spiccavano le sorelle Vanessa Bell e Virgina Woolf) e diversi gli omaggi che la Jenner offre a noi lettori, uno su tutti il cammeo dedicato a Daphne Du Maurier, che le protagoniste incontrano durante uno degli appuntamenti letterari organizzati dalla libreria. Fresca del successo di “Mia cugina Rachele” (pubblicato nel 1951), con le sue tematiche di rottura fu una delle prime autrici a raccontare la colpevolezza maschile, la dipendenza economica delle donne dagli uomini, la paura dell’autonomia femminile: non poteva che toccarle un posto d’onore.

🔖 TE LO CONSIGLIO SE:

– Le atmosfere squisitamente british ti mandano in solluchero

– Gli anni del boom economico sono la tua comfort era

– Ti identifichi nelle storie di chi si salva da solo in barba alle avversità

Buona lettura!

“La finestra dei Rouet”, di Georges Simenon: la solitudine dell’anima

Sono affascinata dai romanzi di Georges Simenon. Sono come una droga, ne finisco uno e subito mi viene voglia di leggerne un altro, desiderosa di farmi trasportare ancora da quell’onda emotiva che solo la sua penna è in grado di creare. La forza dei suoi romanzi non sta nelle vicende narrate, sempre ridotte all’ osso, ma nell’ accurata introspezione psicologica dei suoi protagonisti. Le descrizioni fisiche sono rarissime eppure quasi sempre abbiamo la netta percezione delle fisionomie dei suoi personaggi, ed una chiara visione del mondo che abitano:  Simenon concentra l’attenzione sugli sguardi, sulla gestualità, su rituali quotidiani che rivelano molto più di quello che potrebbero fare le parole. I suoi protagonisti sono sempre tormentati, malinconici ed irrisolti ma al tempo stesso fremono di vita e di passione, hanno l’urgenza fisica degli amanti ma potrebbero passare ore ad osservare la pioggia battente dall’ interno di un bistrot, senza nemmeno guardarsi negli occhi. Ecco, non so se ho reso l’idea di chi andiamo ad incontrare leggendo Simenon. Sicuramente è facile immedesimarsi nelle sue storie, perché parla di sentimenti universali, e per questo destinati a restare immortali. I suoi romanzi sono tutti risalenti agli anni quaranta eppure non c’è nulla nella struttura narrativa che resti vincolato a quell’epoca soltanto, sono pagine in movimento che  si adattano alle nostre sensazioni e si insinuano nel nostro vissuto aldilà dei dettagli che resteranno sempre  di secondaria importanza.

Questo romanzo parla di solitudine, uno stato d’animo che tutti conosciamo, il più universale dei sentimenti. La protagonista è Dominique, una donna di quarant’anni con un passato infelice ed un presente fatto di povertà e di abbandono. Si sente già vecchia, eppure il suo corpo ancora vergine trasuda di desiderio e di carezze, come quelle che osserva con un misto di invidia e repulsione spiando dal buco della serratura la giovane coppia di sposi ai quali è stata costretta ad affittare una camera del suo appartamento. Indossa da anni lo stesso vestito ormai logoro e trascorre le sue giornate tre le pareti della casa paterna, tra una faccenda domestica e l’altra  e rare uscite fugaci. Suo padre era un generale dell’esercito, un uomo coriaceo e severo che Dominique non ha mai amato ma che ha dovuto accudire per anni prima che morisse. Ha cominciato così a costruirsi la sua prigione, sacrificando la sua giovinezza alle cure di un moribondo, sgusciando fuori dalla vita reale giorno dopo giorno. Il lascito paterno l’ha sperperato al gioco, ed ormai da due anni versa in uno stato di indigenza che non le permetterebbe di godersi la vita nemmeno se lo volesse. Ma cosa vuole Dominique in realtà? Si sente morta dentro, sfiorita, vecchia, insignificante…eppure. Eppure qualcosa cova sotto la cenere, una fiamma debole, un anelito di vita quasi impercettibile che però la mantiene a galla, incitandola  a compiere azioni riprovevoli. Come quella di spiare l’intimità dei suoi  affittuari, o dei suoi dirimpettai, i signori Rouet. La finestra del suo appartamento si affaccia su un palazzo signorile, abitato da famiglie benestanti. Di fronte a lei ci sono i giovani Rouet, Antoinette e Hubert, vent’anni di differenza e una vita matrimoniale infelice. Hubert ha solo quarant’anni ma è molto malato, e i vecchi Rouet, che abitano al piano di sopra, gestiscono la vita della coppia come se fosse qualcosa di loro proprietà. Un giorno, mentre come di consueto Dominique osserva indisturbata i suoi dirimpettai, vede qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. Hubert muore in seguito ad una crisi respiratoria, e da quel giorno tutto cambia irrimediabilmente. Dominique comincia ad essere ossessionata dalla giovane vedova, spia ogni suo movimento, ogni suo spostamento, ogni espressione del suo viso. Quello che all’ inizio era una specie di gioco, una curiosità innocente,  si è trasformato in qualcosa di perverso e morboso che le  implode dentro,  lo stesso miscuglio di sensazioni rabbiose ed eccitate che prova quando sente i mugolii degli amanti nella stanza accanto.

Antoinette, così giovane ed esuberante, così innamorata della vita, così femmina e sensuale diventa per  Dominique quello che lei non ha mai avuto il coraggio di essere. Si immedesima in lei, vive la sua vita, la pedina senza preoccuparsi di essere notata, anzi: vorrebbe che lei la riconoscesse, che le si avvicinasse, che le rivolgesse almeno una volta parole complici…perchè Dominique sa cosa è successo in quella stanza, sa che la morte di suo marito non è stata casuale.


Il finale sarà inevitabile, prevedibile forse fin dalla prive pagine, ma non privo di emozione. Un destino che si compie tragicamente, una vita vissuta e terminata nella solitudine più desolante, perché ancora più desolante di un uomo solo c’è una donna sola. Una storia che mi è entrata dentro come un pugno, perchè più volte mi sono rispecchiata nei suoi gesti, nei suoi pensieri intrisi di malinconia, in quel senso di vuoto interiore contro cui non si può combattere. Perchè ci si può ribellare al dolore, ma al nulla no. Ha risvegliato in me sensazioni che avevo dimenticato, ricordandomi quanto labile e sottile sia il filo che tiene insieme i cocci di ognuno di noi, pronti a frangersi come cristallo non appena cadiamo vittima di storie sbagliate.


Si sentiva così infelice che avrebbe potuto mettersi a piangere per strada. Era sola, più sola di chiunque altro. Che sarebbe successo se fosse caduta sul marciapiede? Un passante sarebbe inciampato sul suo corpo, qualcuno si sarebbe fermato, l’avrebbero portata in una farmacia e un agente avrebbe tirato fuori dalla tasca un taccuino. “Chi è?”. Nessuno avrebbe saputo rispondere.

Mentre la solitudine di Dominique  ci soffoca pagina dopo pagina, sullo sfondo si muove una Parigi che è lo specchio delle sue inquietudini, con l’alternarsi delle stagioni ora roventi ora bagnate da una pioggia battente, il rumore del traffico notturno, i bistrot affollati. Una città che freme di vita, in cui  smarrirsi è un battito di ciglia.

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“Chocolat”, di Joanne Harris: che sapore ha la felicità?

Quando vidi il film “Chocolat“, con Juliette Binoche e Johnny Depp, mi innamorai del piccolo paesino francese di Lansquenet, in Provenza, e dell’incantevole Vianne Rocher. Ma il libro è proprio un’altra cosa. Prima di tutto alcuni elementi fondamentali sono stati cambiati, ma è soprattutto la passione fugace tra Vianne e Roux ad essere stata completamente trasformata: ciò che nel libro è velato e marginale nel film diventa il perno su cui ruota buona parte della sceneggiatura. A ben guardare infatti la locandina del film rappresenta un’ammiccante Juliette Binoche che offre un cioccolatino all’affasciante Johnny Depp, con un chiaro intento seduttivo. L’immagine richiama ad una maliziosa  passione tra i due, ma Joanne Harris ha previsto ben altro per Vianne. Il cioccolato per l’autrice non rappresenta un afrodisiaco che lega i due amanti, ma diventa uno strumento importante, quasi divinatorio, attraverso il quale la giovane donna riesce a donare  istanti di gioia  alle persone. Vianne riesce a leggere l’infelicità nei cuori degli altri: la intuisce, la vede,  la sente su di sè e trova il rimedio adatto per lenire i dolori di ognuno. Perchè  il cioccolato  inebria i sensi e regala istanti perfetti.
Vianne e la figlioletta Anouk arrivano a Lansquenet un giorno di febbraio,  durante il carnevale. Il vento fa vorticare gli ultimi fiocchi di neve in un turbinio di profumi che sanno di festa, per poi posarsi lievi sui marciapiedi lungo le strade. E’ martedì grasso, l’ultimo giorno prima della quaresima, periodo di rinunce di penitenza.Vianne sa che per lei la giornata assumerà un risvolto partocolare: quello che sta soffiando è un  vento diverso da ttuti gli altri, lo percepisce nitidamente annusando l’aria. E’ un vento che conosce bene, perché lo insegue  da tutta la vita. Quando quel vento soffia, significa che per lei ed Anouk  è giunto il momento di affrontare un nuovo percorso.
E’ deciso: si fermeranno a Lansquenet.
La vita nel piccolo paesino scorre placidamente, gli abitanti sono chiusi in una loro naturale ritrosia ed il capo spirituale della microscopica comunità, un giovane curato bigotto e ottuso,  identifica immediatamente Vianne come una figura negativa e pericolosa per l’equilibrio spirituale dei suoi parrocchiani. Francis Raynaud è attratto dal fascino della donna ma al tempo stesso ne è anche terrorizzato: in lei vede un’ autentica tentazione demoniaca. Non è sposata, è una ragazza madre, è decisa ad aprirsi un’attività tutta sua per mantenere se stessa e la figlia e non ha bisogno dell’aiuto di nessuno. Inoltre non è nemmeno credente! Non solo il parroco, ma anche la maggior parte degli abitanti di Lansquenet nutrono diffidenza e sospetto nei suoi confronti, e vedono la  provocazione dappertutto: nei suoi abiti colorati, nei suoi capelli lunghi e fluenti che porta sciolti,  in quegli occhi neri che  leggono dentro le persone…  Lo scompiglio che porta nell’immobilità di quel paese così insignificante da essere dimenticato persino dalle cartine geografiche è inevitabile. Ma Vianne lo sa, l’ha già sperimentato tante altre volte, e non se ne cura. Prende in affitto la vecchia panetteria del paese e la trasforma ne ”La Celeste Praline“, una cioccolateria festosa e piena di delizie. In pochi giorni il locale viene rimesso in sesto e reso accattivante dalle sapienti mani di Vianne e dalla piccola Anouk che con la sua gioia infantile dona un tocco ancora più magico all’insieme. Sono diversi i personaggi che da quel giorno in avanti cominceranno a gravitare intorno alla cioccolateria, dapprima timidamente e quasi sentendosi in colpa per quelle golose concessioni, per poi lasciarsi andare completamente ai piaceri del palato. Ogni dolcetto  viene scelto con cura da Vianne, perché sa esattamente quali sono i preferiti di ognuno: è una dote naturale, una specie di stregoneria. Ad ogni piccolo morso sembrano sciogliersi, come il cioccolato nei loro palati, fino a raggiungere il punto più segreto ed intimo della loro anima. In un crescendo quotidiano di amicizia e di nuove consapevolezze, i sentimenti vecchi e nuovi si mescolano ad innocenti peccati di gola, portando istanti di felicità a chi aveva smarrito la strada. Un uomo timido e solo, che ha come unico amico un cane ormai vecchio e malato; un’anziana signora in lotta da anni con la figlia, che vuole vivere e morire come meglio crede; una donna imprigionata in un matrimonio sbagliato con un uomo orribile, che deve ritrovare prima di tutto l’amore per sè; un gruppo di nomadi che vivono sulle barche ormeggiate lungo il fiume, rifiutati e disprezzati dalla comunità perché non hanno scelto di conformarsi alla vita del paese. Ed infine c’è Roux, lo zingaro scontroso e sfuggente con i capelli rossi come il diavolo, ma onesto e dal cuore grande. Questo è il caleidoscopio umano che l’autrice ci presenta, una varietà imperfetta e piena di tribolazioni, ma con un unico desiderio: riconoscere ancora il sapore della felicità.

“Mi piacerebbe … seguire il sole con nient’altro che una valigia e non avere la minima idea di dove sarò domani.”

Joanne Harris riesce a rendere l’atmosfera del romanzo unica. Gli argomenti affrontati non sono frivoli, tutt’altro: l’emarginazione, la diversità, la solitudine, l’amicizia, la malattia, la vecchiaia, il senso di perdita…tutto viene toccato con la giusta dose di profondità, ma anche stemperato da un senso di leggerezza che addolcisce le pene, esattamente come il cioccolato. Sfogliando le pagine si ha davvero una sensazione olfattiva molto intensa, che attinge dai nostri ricordi, perchè le parole hanno un potere evocativo fortissimo. Il cibo e lo spirito sono legati indissolubilmente, questo viene da pensare mentre abbiamo la certezza di sentire il profumo inebriante del pan au chocolat invadere la nostra stanza.

Chocolat, Joanne Harris (Garzanti)

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“La vedova Couderc”, di Georges Simenon: il lato oscuro della vita di provincia

Georges Simenon è stato un autore, oltre che geniale, anche estremamente prolifico, talmente prolifico che prima di arrivare alla conclusione della sua “Opera Omnia” ho davanti a me ancora moltissime letture. Circostanza che considero una fortuna non da poco, perché è tra i miei autori preferiti ed ogni suo romanzo è fonte di puro piacere letterario, e di profonde riflessioni.  La sua bravura non risiede nella costruzione di storie articolate o di strutture narrative complesse, ma nell’apparente semplicità stilistica, nella fluidità del racconto e nella facile immedesimazione che offre al lettore. E’ proprio questa la vera differenza tra uno scrittore normale ed uno straordinario come lui, ovvero la capacità di ridurre all’essenziale dialoghi ed avvenimenti, riuscendo nello stesso tempo a trasmettere messaggi profondi. Le parole, scelte con cura, saranno allora così pregne di significato da non necessitare d’altro.  La trama di per sè passa in secondo piano e tutta la nostra attenzione sarà catalizzata dalle vicende umane e dall’aspetto psicologico dei suoi protagonisti. Questo forse è l’unico elemento ricorrente in tutti i suoi romanzi: la tortuosità dell’animo umano contrapposta alla linearità delle storie narrate, a cui fa da sfondo un paesaggio spesso immobile, sempre uguale, come se fosse lo sfondo di un quadro che stiamo osservando rapiti.

Questa volta Simenon ci immerge nella campagna francese di provincia, un piccolo mondo rurale che sembra avulso dai cambiamenti e dal progresso. In questa staticità quasi innaturale le descrizioni del paesaggio, seppur minime, sono superbe e fanno calare con facilità noi lettori in un contesto particolare e suggestivo, in cui la bellezza pura ed incontaminata del mondo contadino si contrappone allo squallore delle vite narrate, creando contrasti forti e stridenti, che suscitano una persistente sensazione di fastidio e di disagio. I protagonisti principali sono due: Tati e Jean. Tati è una vedova di circa 45 anni che vive in una cascina nei pressi  di uno dei molti canali che attraversano la campagna parigina, e si guadagna da vivere allevando bestiame ed animali da cortile. Giunse qui appena quattordicenne, mandata dalla madre a servizio dalla famiglia Couderc; ha sempre vissuto lavorando e faticando molto in cambio di vitto e alloggio, alla stregua di una serva. Rimasta incinta del figlio del padrone, rimarrà in quella casa in seguito alla morte del marito, continuando a badare alla cascina e soddisfacendo ogni tanto le voglie dello suocero, che lei chiama senza remore “vecchio porco”. Una situazione di comodo che le ha permesso nel corso degli anni di mettere da parte una discreta somma di denaro, attirandosi addosso l’invidia e le ire delle sue cognate, che l’accusano senza mezzi termini di voler mettere  le mani sulla casa e su tutta la proprietà approfittando del loro padre, ormai anziano e fuori di testa. La vita che conduce è dunque amara e pregna di solitudine: il suo unico figlio infatti è un delinquente e al momento si trova lontano, in Africa, in un battaglione di punizione. Quando un giorno come tanti, dalla corriera che dal paese porta al mercato rionale, scende alla solita fermata anche il giovane Jean, Tati ha come un guizzo in petto.

Jean è un ragazzo di buona famiglia, uscito da poco di prigione, dove ha scontato una pena per aver commesso un delitto in circostanze giudicate attenuanti. Simenon non lo esplicita mai durante tutto il romanzo, ma leggendo tra le righe si intuisce che tra i due si crea fin da subito un legame carnale malato ed ossessivo. Tati diventa possessiva, offre a Jean vitto e alloggio in cambio di aiuto con i lavori in campagna, lo mette in guardia dalla giovane e seducente nipote perchè ne è gelosa, spande veleno sulle sue cognate e sulle loro famiglie perchè vuole che lui non la giudichi, ma che la veda anzi con occhi ammirati. Jean, dal canto suo, decide di rimanere a dare una mano a Tati non già per amore e neppure per desiderio, ma solo perché non desidera ricongiungersi con la sua famiglia, per la quale nutre un totale disprezzo. Tutti i protagonisti di questa storia sono sbagliati, miseri, aberranti: nessuno si salva.


La vita nel cascinale non ha nulla dell’incanto pastorale che ci si aspetta, anzi, è una fucina di sentimenti orribili, di parole sottaciute, di maldicenze, di asti covati silenziosamente per lunghi anni. Questo mondo rurale, in cui l’orologio del tempo sembra essersi fermato, è raccontato attraverso le passioni insane di una famiglia come tante, costretta ad abitare sotto lo stesso tetto perché la realtà contadina di quegli anni era un microcosmo in cui si condivideva il lavoro nei campi così come si condivideva la vita. Le miserie e le nefandezze di ogni membro della famiglia ricadevano allora su tutti, creando spirali micidiali di odio.


Tati, al centro di questa spirale, e Jean, lo straniero che improvvisamente irrompe in quella quotidianità malata, non riusciranno a sottrarsi al loro destino. Perfettamente calati nella loro parte non ci offriranno nessun tipo di redenzione, nessuna speranza di cambiamento, nessun pentimento o presa di coscienza… fino all’ ultimo tragico atto finale.

La vedova Couderc – Georges Simenon (Gli Adelphi)

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“I complici”, di Georges Simenon: una depravazione piccolo borghese

Georges Simenon è uno dei miei autori preferiti. I protagonisti delle sue storie sono quasi sempre uomini e donne in bilico, in lotta contro se stessi ed incapaci di accettare  il finto perbenismo della vita borghese di quei tempi. I  rituali consolidati, le apparenze che dovevano ingannare, la polvere nascosta sotto eleganti tappeti, i villini a schiera in cui riciclare le miserie di un’intimità domestica da tempo logora. Siamo negli anni cinquanta, e per la società conformista di quei tempi il mantenimento dello status quo era una questione di grande importanza. Una quieta sottomissione era di gran lunga preferibile a qualsiasi forma di rivolta : poco importava se poi, nel proprio intimo, una rabbia sorda corrodeva la quotidianità di alcuni, fino a  trasformarla in un fardello impossibile da portare avanti senza sbandare.
Questa storia si apre con un’immagine forte, inaspettata: un uomo e una donna stanno percorrendo una strada di campagna, una pioggia lieve ma costante ha  reso l’asfalto scivoloso ed il volante dell’auto è  governato da una sola mano. Accanto a Lambert  c’è Edmonde, la sua segretaria. Dietro di loro un autobus carico di bambini di ritorno da una gita scolastica sta terminando la  stretta curva, quando improvvisamente appare di fronte all’autista l’autovettura di Lambert che procede lentamente  a zig zag. Una manciata di minuti e accade la tragedia che spaccherà in due la vita di Lambert. Il pullman precipita in una scarpata ed immediatamente divampa  un incendio, lasciando un’unica piccola superstite a combattere tra la vita e la morte. Lambert, nei pochi minuti a sua disposizione, compie una scelta suicida: decide infatti di non voltarsi indietro e fugge via dal rogo disastroso, lasciando l’impronta dei pneumatici  sull’asfalto bagnato. Accanto a lui, EdmOnde non si scompone di un millimetro: non grida, non si agita, non lo guarda. Tutto quello che fa è abbassarsi con un gesto rapido e abitudinario la gonna, senza che trapeli la minima emozione. Quella fuga all’inizio destabilizza Lambert, che si interroga sul perché abbia istintivamente pestato sull’acceleratore anzichè prestare soccorsi ai feriti. Poi, poco alla volta, comprende la terribile verità. Lui ha bisogno di quella colpa, se la vuole sentire addosso totalmente aggravando la sua posizione con la fuga perché in questo modo costringe sè stesso a fare i conti con la propria vita, che tutto è fuorché esemplare. Lui non è un uomo perbene, non ha nulla dell’integrità morale che ci si aspetterebbe da una persona come lui, elemento di spicco all’interno della piccola comunità in cui vive. Insieme al fratello minore gestisce una  società di costruzioni lasciata in eredità dal padre, un lavoro ben avviato e redditizio da cui forse riesce a trarre l’unica  soddisfazione della sua esistenza. Edmonde è la segretaria dell’azienda. Da quando un giorno di alcuni anni prima la vide per la prima volta  praticare autoerotismo nel suo ufficio, ignara di essere vista, un desiderio furioso ed ottuso si impossessa di lui. Sempre senza dirsi nulla o confessarsi alcunchè diventano l’uno per l’altro  un gioco pericoloso, silenzioso e perverso. Un rituale che ha bisogno delle sue regole per svolgersi, e  che non ha nulla nè dell’amore romantico o del sesso occasionale: diventano, per l’appunto, complici.
L’avrebbe comunque portata in campagna, in un posto qualsiasi, e l’avrebbe posseduta selvaggiamente. Ne aveva bisogno. Bisogno soprattutto di provare a se stesso che erano loro due ad avere ragione, che quello era un loro diritto, che non c’era niente di sporco o di colpevole nel piacere che si davano l’un l’altro…di che cosa erano colpevoli, alla fine? E se non lo erano, perché, da quando conosceva Edmonde, si sentiva così spesso preda di una sorda inquietudine?

Lambert ed Edmonde sono uniti  nella loro bestialità, nel loro squallore, nella loro evasione da una quotidianità che non li appaga, insulsa, inutile, stanca. Quanto meno, questo è quello su cui riflette Lambert. Quello che pensa Edmonde non è dato saperlo: per tutta la durata del romanzo la ragazza è niente più che un oggetto inanimato, una donna che sembra non avere una vita interiore se non fosse per quel guizzo erotico che ogni tanto soddisfa da sola, o con l’aiuto di Lambert.  Lambert ha bisogno di questa complicità anche dopo l’incidente, fin dai primi istanti, quando in  quell’ attimo di indecisione prima di voltarsi indietro cerca in Edmonde uno sguardo di approvazione o di comprensione. Tutto quello che trova però sono due mani fredde,  intente a  sistemare l’orlo del vestito. E’ questo il punto più basso che raggiunge Lambert, il punto di non ritorno.

La sua vita è costellata di rapporti personali che non funzionano più, esauriti da tempo, logori e stanchi. Disprezza sè stesso e gli altri, con la stessa forza disperata. Dal momento dell’incidente i giorni si susseguono consapevole che prima o poi la polizia sarebbe giunta alla sua Citroen, ma quel pensiero non lo ossessiona. Non lo teme, anzi, quasi desidera che la questione si risolva presto, così finalmente pagherà per aver sciupato la sua vita, perchè – in fin dei conti – di quell’ incidente lui è solo il colpevole morale. Ben altri sono i suoi tormenti, le sue miserie, e le colpe che non può più espiare. L’unico motivo per cui tenta di sviare le indagini è per preservare quei momenti di intimità con Edmonde, gli unici istanti in cui gli sembrava di tornare a respirare. Come se quella fosse una porta che lo conducesse in un altro mondo, privo di regole bigotte, di felicità fittizie, di ipocrisie, di ruoli imposti e gabbie dorate.
Gli occhi di tutta la Francia sono rivolti a colui che credono l’assassino di 50 bambini, e mentre le indagini della polizia avanzano Lambert è costretto a ripercorrere ed analizzare tutta la sua vita: un matrimonio senza figli, una moglie che da anni lo rifiuta a letto, le prostitute che abitualmente frequenta, le amanti occasionali, il troppo bere, l’odio silente per il fratello dalla vita ineccepibile. Tutto gli appare privo di significato, insopportabile, ormai giunto al capolinea. L’ultimo fotogramma è l’esatto epilogo che mi aspettavo, l’unico possibile quando ormai il buio ha inghiottito l’anima dei disperati.
C’è qualcosa però in questo romanzo che non mi ha del tutto convinta, nonostante la straordinaria bravura dell’autore che come sempre   ha  saputo eviscerare alla perfezione sentimenti sbagliati e scomodi, tanto umani quanto abietti, creando atmosfere cariche di inquietudine e angoscia. Mi è sembrato che a volte il filo si spezzasse, ho colto delle incongruenze – soprattutto nel personaggio di Lambert – che mi hanno lasciata qualche perplessità. I suoi protagonisti sono sempre tutti un po’ maledetti, dei relitti, dei superstiti, talmente umani nelle loro fragilità che nonostante tutto ho sempre provato una specie di empatia nei loro confronti. Questa invece   è la prima volta che non riesco ad entrare in sintonia con nessuno: troppo squallore, troppa miseria umana. Non ce l’ho fatta, non ho provato nessuna “humana pietas” ed  ho detestato Edmonde e Lambert molto più del falso perbenismo contro il quale Simenon muove le sue critiche spietate.

I complici – Georges Simenon (Gli Adelphi)

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