“Dracul” di Dacre Stoker & J.D. Barker: tra miti e antiche leggende

Vlad III di Valacchia, Voivoda discendente dei Drakul conosciuto col nome patronimico “Dracula”, passato agli onori delle cronache come “Vlad Tepes”, che in rumeno significa “L’impalatore”:  la leggenda più famosa del mondo, un personaggio realmente esistito che Bram Stoker prende in prestito dalla storia per dare vita ad una delle figure letterarie più famose e indimenticabili, quella del vampiro “Dracula”. Come sappiamo, Bram Stoker si ispirò al principe rumeno, noto per la sua brutalità, per creare l’ultimo, e probabilmente il più grandioso, dei romanzi gotici. Ad alimentare la fantasia dell’autore vi era anche quel nome così intriso di significati occulti, perché “Drakul” in lingua rumena significa “demoni”. Una coincidenza perfetta , un incastro tra storia e finzione narrativa che avrebbe funzionato alla perfezione…forse persino troppo, per essere solo frutto di una fantasia. Quello che  molti ignorano, e che io ho scoperto soltanto oggi (molti anni dopo averlo letto), è che Bram Stoker nella prefazione originale all’opera sosteneva la piena veridicità delle vicende narrate. Quando l’editore londinese di Stoker lesse le pagine di presentazione si rifiutò categoricamente di pubblicare il manoscritto come storia vera: Londra era ancora sconvolta dalle terribili vicende di “Jack Lo squartatore” e dare alle stampe un romanzo-verità in cui il protagonista uccideva le proprie vittime per cibarsi di sangue umano avrebbe certamente suscitato ondate di panico. Quella che è arrivata fino a noi è quindi una seconda versione del manoscritto, amputata dalle affermazioni sull’esistenza del Principe Vlad, aristocratico vampiro dalla leggendaria efferatezza. Le pagine mancanti sono circa un centinaio: cosa contenevano?

Ribadisco che la misteriosa tragedia qui descritta sia totalmente vera in tutti i suoi aspetti esterni. (Prefazione originale di “Dracula”)

In quale ordine di successione siano presentate queste carte risulterà evidente a chi le leggerà. Tutti i fatti superflui sono stati eliminati, in maniera che una storia apparentemente inverosimile e quasi incompatibile con le credenze di oggi possa reggere come una semplice realtà. (Prefazione a “Dracula”)

A questo punto viene naturale porsi una domanda: come mai un uomo così colto e concreto come Stoker, che studiò al Trinity College di Dublino sia materie umanistiche che scientifiche, laureandosi poi a pieni voti in matematica, appassionato recensore di spettacoli teatrali e dedito alla carriera nella pubblica amministrazione, avrebbe dovuto credere ad una leggenda popolare al punto tale da ritenere necessario divulgare le sue convinzioni? Quale messaggio voleva trasmettere al mondo, quale sconcertante verità doveva rivelare? E’ proprio questo il perno su cui ruota “Dracul”: l’ossessione dell’antenato Stoker per i vampiri, giustificata dall’inconfutabile certezza della loro esistenza. In questo senso il romanzo può considerarsi un prequel: qui troveremo la risposta ai tormenti di Stoker, poiché il protagonista è lui stesso. Viaggeremo tra i suoi ricordi, frugheremo tra i segreti della sua famiglia e affronteremo i suoi incubi. Analogamente a “Dracula” , anche “Dracul” è strutturato come un romanzo epistolare, in cui ai numerosi carteggi si alternano pagine di diari privati che servono al lettore per calarsi nella storia e per comprenderne meglio le dinamiche. Bram Stoker era un bambino con una salute molto cagionevole, gracile e sfortunato, che molto spesso si ritrovò a sfiorare la morte. Trascorse buona parte della sua infanzia rinchiuso in una stanza e allettato, a subire i salassi dello zio medico nella speranza che le sanguisughe lo epurassero dal sangue malato. Incontriamo il piccolo Bram mentre combatte contro la più grave delle sue ricadute, una strenua lotta in cui gli sforzi dello zio parevano vani più del solito. Durante i suoi deliri febbrili il ragazzino ha però la netta percezione che la tata della famiglia Stoker, Ellen Crone, gli stia prestando cure particolari, come se qualcosa di terrificante e sconosciuto stesse per riportarlo alla vita. Tata Ellen è una giovane donna dotata di una bellezza tanto straordinaria quanto inquietante, molto amata dai ragazzi Stoker. Ma Ellen, in realtà, è un vampiro. O meglio: è una Dearg Due.

“Dearg Due”, che in irlandese significa “pollone rosso sangue”, è un demone di natura femminile che seduce gli uomini e poi li prosciuga del loro sangue. Secondo la leggenda celtica, una giovane donna conosciuta in tutto il paese per la sua bellezza, si innamorò di un contadino locale, cosa inaccettabile per suo padre. Egli la costrinse a sposare un ricco nobiluomo molto più anziano di lei, dal quale subì maltrattamenti di ogni sorta, fino a quando non sopportò più la sua disgrazia e decise di suicidarsi gettandosi dall’alto della torre in cui viveva rinchiusa. Fu sepolta vicino a Strongbows Tree nella contea di Waterford, ma la notte successiva alla sua tumulazione risorse dalla tomba per vendicarsi di suo padre e di suo marito, succhiando il loro sangue fino alla morte. Da quel momento la ragazza venne chiamata “Dearg Due” e continuò ad usare la sua straordinaria bellezza per attirare a sè gli uomini ed ucciderli, in un’eterna vendetta per i soprusi subiti.

Ma torniamo a noi. Tata Ellen, intenerita dalle sofferenze del piccolo Bram, quella notte gli offre il suo sangue immortale, guarendolo da una malattia crudele che lo avrebbe certamente ucciso prima di raggiungere l’età adulta. Poi sparirà per sempre. Passano gli anni e Bram inspiegabilmente non accusa più nessun problema di salute, anzi, cresce forte e robusto e pare avere acquisito addirittura la capacità di rimarginare le proprie ferite straordinariamente in fretta. Oramai diventato adulto, incapace di dimenticare quella notte misteriosa, si mette sulle tracce di Tata Ellen, coinvolgendo nelle sue ricerche anche la sorella Matilda ed il fratello maggiore Thornley, angosciato per l’improvvisa e inspiegabile follia della moglie. Pagina dopo pagina veniamo risucchiati nelle spire di una storia orrorifica, in cui le leggende dei non – morti si mescolano alla storia personale della famiglia Stoker. L’autore, abile a tessere trame come un ragno con la sua tela, prende in prestito le più terrificanti leggende popolari mischiando Dearg Due irlandesi e Strigoi rumeni, a dimostrazione del fatto che i Vampiri sono miti trasversali il cui ceppo, però, è uno solo. Dracul. Non è un caso che il Principe Vlad qui venga nominato senza la “a” finale: è lui il padre di tutti i demoni, e la risposta al perché dell’ossessione di Bram Stoker. Dracul e la Dearg Due sono legati da un filo rosso d’amore e morte che scopriremo andando avanti con la storia, lo stesso che ha unito per sempre tata Ellen al piccolo Bram…e lo stesso per il quale ora Dracul vuole il giovane per sè. Nell’inquietante incipit, degno della migliore tradizione, troviamo Bram assediato all’ interno della torre di un’abbazia sconsacrata, circondato da crocefissi e rose bianche per tener fuori il “mostro”, con riserve di acqua santa ed in mano un fucile carico. Stremato da quella lotta e temendo di non arrivare vivo all’ alba, prende carta e penna e comincia a scrivere quanto accaduto fino ad allora, a cominciare da quella notte di tanti anni prima, quando Tata Ellen sparì strappandolo alla morte.

Non sapremo mai quanto Bram Stoker credesse nella propria storia, pare comunque che questa sua ossessione lo perseguitasse abbastanza da scegliere la cremazione per la propria sepoltura. Una pratica che, nel 1912, non era certamente così diffusa come oggi. Verrebbe quasi da pensare che l’abbia fatto proprio per evitare di trasformarsi in un non-morto al servizio di forze oscure, che vanno ben oltre la comprensione umana.


Aldilà di queste illazioni, ciò che resta è un romanzo ben costruito, che pur restando molto fedele all’impostazione del Dracula originale riesce a mantenere la sua individualità. Avventuroso ed angosciante, ricalca perfettamente le regole del gotico e, ovviamente, anche dell’horror più raffinato. Attraverso  uno stile impeccabile  gli autori riescono a conferire alla narrazione un ritmo incalzante, che fa lievitare la tensione pagina dopo pagina, fino a culminare in una lotta allegorica tra forze del bene e forze del male.


Tuttavia non mi sento di consigliare questo romanzo ai soli amanti del gotico ed ai nostalgici di Stoker, perché dietro la sua stesura c’è un grande lavoro di ricostruzione che merita di essere conosciuto e apprezzato, anche e soprattutto dal punto di vista filologico. Dacre Stoker, a più di un secolo di distanza, si è messo alla ricerca dei dettagli, delle note e dei diari del proprio antenato per cercare di capire quanto ci fosse di vero, quanto la fervida immaginazione di Bram bambino avesse influito sulla creazione di Dracula e quanto l’autore effettivamente credesse all’esistenza dei non-morti. Le ultime pagine, ricche di annotazioni degli autori, sono le più intriganti di tutto il volume e lasciano noi lettori piuttosto sgomenti, a domandarci se forse Bram Stoker non avesse avuto ragione ritenendo la leggenda più antica e più diffusa del mondo assai più vicina a noi di quello che immaginiamo.

Dracul, Dacre Stoker & J.D. Barker – Nord

burst

“Cujo”, di Stephen King: il labile confine tra orrore e quotidianità

“Cujo” è un romanzo che Stephen King diede alle stampe nel 1981, edito in Italia nello stesso anno. Essendo all’epoca solo seienne non mi preoccupavo ancora di chi fosse quest’uomo che sentivo nominare solo di tanto in tanto da mio fratello e mio cugino, e soprattutto cosa facesse per essere così famoso. Siamo in pieni anni ’80 e King è all’apice del suo successo, con all’attivo libri fenomenali come “Shining”  e “Le notti di Salem”: è, in poche parole, l’idolo della cultura popolare di quel periodo. Ed ora io, che l’ho scoperto solo con la maturità, sto cercando di leggere tutte le sue opere più datate, tra le quali non poteva mancare questo agghiacciante romanzo in cui l’orrore è rappresentato dal migliore amico dell’uomo: un cane domestico. E  questo lo rende ancora più terrificante. Ma procediamo con ordine: Cujo è il bizzarro nome del cane San Bernardo che da anni è il compagno fedele della famiglia Camber, un gigante buono con una stazza di quasi cento chili conosciuto da tutti gli abitanti dell’immaginaria cittadina di Castle Rock, nel Maine. Ha una natura docile e giocosa, e passa  tranquillamente le sue giornate  tra il capanno degli attrezzi di Joe Camber e la casa in cui la famiglia vive.
Un giorno, rincorrendo un coniglio che  per sfuggirgli si intrufola in una tana di pipistrelli, viene morso sul muso da uno di questi. Purtroppo l’animale trasmette la rabbia a Cujo, che da placido cagnone dagli occhi buoni si trasforma poco alla volta in una belva feroce. La terribile malattia gli distrugge ora dopo ora il sistema nervoso centrale, rendendolo idrofobo ma al contempo terribilmente assetato, iper sensibile ai suoni acuti e ottenebrato da pensieri omicidi. Mentre Cujo avverte impotente questi cambiamenti verificarsi nel suo cervello, una diversa vicenda  sconvolge le mura domestiche apparentemente tranquille di un’altra famiglia, quella dei Tranton. Donna e Vic, marito e moglie, sono nel pieno di una crisi coniugale, che raggiunge l’apice nel momento in cui noi lettori iniziamo ad addentrarci nella storia. Vic scopre infatti che Donna l’ha tradito con un poco di buono del paese, un omuncolo da nulla che però scardina completamente un rapporto già traballante. Il loro bimbo di appena 4 anni percepisce il disagio dei genitori, nonostante essi cerchino in tutti i modi di rassicurarlo e proteggerlo. La sua mente infantile trasforma il dolore e la tensione che tutti stanno vivendo in incubi notturni ricorrenti, in cui crede di scorgere dentro al suo armadio un terribile mostro dagli occhi rossi. Pagina dopo pagina, in un crescendo di tensione come solo King sa dispensare, i tragici destini dei Camber e dei Trenton convergeranno sotto l’impietosa violenza del San Bernardo.
Entrambe le storie raggiugono il loro culmine  quando Vic  si trova fuori città per lavoro mentre Donna, insieme  al piccolo Tad, decide di portare la loro vecchia auto  all’officina di Joe Camber per farla riparare. Siccome gli incubi in cui ci getta King  sono sempre una reazione a catena di follia, l’autore deciderà di far fermare la macchina dei Trenton proprio lì davanti, oramai con il motore completamente in panne. Dove, completamente impazzito, si aggira Cujo con i suoi istinti sanguinari. Da questo momento in poi è come se la storia si congelasse in un unico, lentissimo fotogramma che ha come sfondo l’abitacolo di un’auto scassata. Le ore, addirittura i minuti vengono scanditi da un ritmo sempre più dilatato che tende l’angoscia come un elastico e risucchia in una voragine di terrore i protagonisti, istante dopo istante.
Due sono gli elementi che mi hanno particolarmente colpito in questo romanzo: uno è il fatto che questa volta l’autore non ricorre ad elementi sovrannaturali per eviscerare le nostre paure (ricordiamolo sempre: King non insinua la paura in noi, ma sono le nostre paure a prendere forma leggendo quello che scrive) ma punta tutta la storia su qualcosa di molto semplice e naturale, ovvero una malattia diffusa e conosciuta come la rabbia. Qualcosa quindi di plausibile, di estremamente reale, che dimostra quanto la finzione narrativa sia spesso meno orrorifica della vita quotidiana. Stiamo parlando di un autore che riesce sempre e comunque  a disseminare nei suoi romanzi qualche colpo da maestro, quel guizzo geniale che lo contraddistingue e che non ci fa mai pentire dei soldi spesi per rincorrere la sua prolifica produzione: solo lui saprebbe dare forma ai pensieri di un cane il cui cervello si sta ottenebrando, rendendo quelle sensazioni talmente veritiere da far provare in chi legge una stretta al cuore. E’ questo il secondo elemento che mi ha notevolmente impressionata, perché non solo chi scrive riesce a non scivolare nel ridicolo (se ci pensiamo bene, sarebbe bastata una parola di troppo) ma sono fermamente convinta che se un cane ammalato di rabbia avesse dei pensieri, e avesse potuto esprimerli, l’avrebbe fatto esattamente in quel modo. Noi lettori vediamo Cujo come un mostro ma al contempo, quando attraverso i suoi occhi un tempo così buoni assistiamo agli sforzi che inizialmente  compie per non attaccare nessuno della sua famiglia, proviamo compassione e tenerezza. Un prodigio tutto kingiano, che ci dimostra ancora una volta quanto il confine tra il bene ed il male non sia mai così netto, anzi: è talmente labile e sottile che spesso non ci rendiamo conto di attraversarlo.
Era tutta una bugia. Il mondo era pieno di mostri e non c’era niente che potesse impedirgli di mordere gli innocenti e gli incauti.
Un tradimento tra coniugi, un bambino in preda a brutti sogni, una famiglia piena di conflitti, una vincita alla lotteria, un’auto che ha bisogno di riparazione: sono tutti accadimenti comuni, sono storie di persone normali che ad un certo punto si trasformano nel peggiore degli incubi: l’orrore non si nasconde solo in crudeli assassini, in creature border line, zombie o anime possedute dal Male, ma può celarsi anche nella più banale tranquillità domestica. E’ questo il messaggio, ed è quello su cui fa riflettere King. La paura del piccolo Tad, quel mostro che credeva di vedere nell’armadio con gli occhi infuocati, forse non è solo una innocua fantasia infantile quando è il proprio cane, un gigante dall’indole pacifica e adatto a salvare vite umane, a trasformarsi nel più crudele degli assassini.
Ma è qualcosa di dannatamente reale.

1342119407

“L’incubo di Hill House”, di Shirley Jackson: una storia da brivido

Shirley Jackson, scrittrice  e giornalista statunitense del secolo scorso, da qualche anno sta vivendo una nuova popolarità. La sua produzione letteraria si concentra prevalentemente in racconti brevi, per i quali ottenne  diversi riconoscimenti tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta. I suoi romanzi di maggior successo, Abbiamo sempre vissuto nel castello (1962) e L’incubo di Hill House (1959), la consacrarono alla fama definitiva in patria. Rimase però sempre una scrittrice d’èlite, riservata ad un pubblico raffinato, fino a quando nel 2007 viene istituito a suo nome un prestigioso premio letterario che diffonde la sua fama a macchia d’olio. Il Shirley Jackson Award” è il  premio annuale per la letteratura horror, dark e di suspense psicologico che negli Stati Uniti è diventata negli anni una vera e propria istituzione. Ma è il contributo di Stephen King, suo profondo estimatore, ad essere decisivo per l’incremento della  popolarità della scrittrice.  Quello che negli anni sessanta rimase un fenomeno di nicchia, riservato ai connazionali appassionati del genere gotico/psicologico, grazie alle dichiarazioni di King travalica l’oceano accendendo la curiosità dei suoi innumerevoli lettori. L’autorevolezza di uno scrittore di culto come Stephen King segna inevitabilmente un punto di svolta nella fama postuma della Jackson:  in Italia la casa editrice Adelphi comincia nel 2012 a dare alle stampe le sue opere più celebri, le quali ottengono rapidamente  un ampio consenso. Stephen King  ha dichiarato di essere stato ispirato dai racconti della Jackson in più di un’occasione,   affermazione che trova facile riscontro in molti dei suoi romanzi più famosi. Mi viene in mente, uno su tutti, “Shining” : claustrofobico ed angosciante, ha molti tratti in comune con “L’incubo di Hill House”.

Prima di leggere il romanzo è bene conoscere almeno sommariamente la vita dell’autrice, perché le sue vicende personali influenzarono enormemente i suoi scritti. Shirley Jackson fu tragicamente segnata da traumi infantili importanti, che la resero psicologicamente fragile ed inquieta. Finì tra le braccia di un marito sbagliato, al quale si aggrappò in cerca pace e protezione, ottenendo invece in cambio solo altre umiliazioni. La supportò nel suo lavoro di giornalista e scrittrice perché aveva fiducia nelle sue capacità, ma l’infedeltà continua di lui insieme agli irrisolti problemi con la madre la portarono ad abusare di tranquillanti, anfetamine ed  alcol. Un percorso difficile, lastricato di paure e fobie che sfociarono infine in un brutto esaurimento nervoso, dal quale si riprese lentamente. Non fece però in tempo a godersi la ritrovata libertà mentale, perché un infarto la colse nella notte a soli 48 anni. Shirley Jackson fu una donna molto sfortunata, vittima di abusi psicologici che costituirono l’imprinting di tutte le sue opere: il rifiuto della madre, il maschilismo retrogrado del marito, un ruolo di moglie e di madre dal quale si sentiva schiacciata crearono dentro di lei una prigione mentale ed una condizione di sudditanza psicologica che non le permise mai di sentirsi realizzata ed appagata,  nemmeno dal proprio lavoro.

La protagonista di questo romanzo è Eleanor Vance, una ragazza  con alle spalle un passato infelice, permeato di solitudine e dolore. Per anni costretta ad accudire la madre malata, una volta morta la genitrice decide di dare una svolta alla sua esistenza rispondendo all’annuncio del professor John Montague. Il professore, laureato in antropologia e appassionato studioso di fenomeni paranormali, decide di prendere in affitto l’antica ed isolata dimora di Hill House perché infestata da strane presenze. Il suo progetto di ricerca prevede l’ausilio di alcuni volontari dotati di particolari abilità psichiche, ma il gruppo iniziale composto da  cinque prescelti si riduce a tre: Luke Sanderson, nipote dell’attuale proprietaria della villa, l’artista Theodora ed infine Eleonor, entrambe con  esperienze paranormali alle spalle. Eleonor infatti è convinta di aver sentito sua madre chiamarla durante la notte, invocando il suo aiuto, quando oramai era morta da giorni. Theodora è esuberante ed eccentrica, mentre Eleanor è timida ed insicura ed ancora profondamente turbata dalla morte della madre, della quale si sente in qualche modo responsabile. Comincia così questa storia, una storia di fantasmi ricca di elementi gotici che è considerata giustamente un caposaldo della letteratura di genere.

“Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà; perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni. hill house, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; si ergeva così da ottant’anni e avrebbe potuto continuare per altri ottanta. dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di hill house, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola.”

pjimage-7-1

I primi giorni scorrono senza che accada nulla, ma proprio quando l’esperimento ristagna e la permanenza degli ospiti a Hill House sembra essere nulla più che un banale soggiorno in una vecchia dimora di campagna, qualcosa comincia a strisciare all’interno, ad insinuarsi  nei meandri delle antiche mura, qualcosa di vivo e malvagio che lentamente, ora dopo ora, comincia ad intaccare la stabilità mentale degli occupanti. La Jackson è avara di dettagli orrorifici e punta tutto sull’immaginazione, stimolando la paura attraverso ciò che – appositamente – non viene rivelato.


E’ la suggestione a dominare il racconto, un’ inquietudine che viene continuamente alimentata da avvenimenti  scientificamente inspiegabili, quanto meno non del tutto. Attraverso un’abile  prosa ad effetto,  l’autrice fa oscillare pagina dopo pagina i suoi protagonisti tra normale e paranormale, tra l’elemento razionale e quello sovrannaturale confondendo, stordendo, disorientando.


Anche le dinamiche all’interno del gruppo si modificano in continuazione, fino a quando convergeranno in un’unica direzione: l’allontanamento forzato di Eleanor, giudicata da tutti oramai troppo instabile mentalmente per proseguire con l’esperimento. E’ Eleonor infatti la vittima prescelta dalle sinistre presenze che abitano la casa, una dimora antica come antichi sono i demoni che la popolano. Non già creature spaventose con le sembianze dei mostri dell’infanzia, ma un’entità maligna  che riesce ad insinuarsi nelle menti più labili, fino a possederle del tutto. E’ la casa stessa a volere Eleonor, la povera, indifesa, triste e sola Eleonor che lentamente impazzisce, perdendo la percezione di sè stessa e sentendo Hill House come se fosse il suo corpo:  “E’ dentro di me, è nella mia testa, ed ora esce, esce, esce…” 

Cosa differenzia questo romanzo così datato da tutti gli altri capolavori di genere? Prima di tutto il background psicologico della scrittrice  fornisce la base ideale per un’opera gotica: gli stereotipi ci sono tutti, e nonostante attingano a piene mano dal suo vissuto la Jackson riesce a  giocarci con grande abilità. L’eroina infelice, psicologicamente fragile e disturbata non è altro che la proiezione di sè stessa. Secondariamente, ma non per importanza, la Jackson utilizza una prosa pressochè perfetta. Si potrebbe trovare  da ridire sulla trama scarna o sul ritmo poco incalzante, ma è proprio nell’apparente staticità degli accadimenti che Hill House – in realtà – si muove. Le scene di stasi e di descrizione del paesaggio risultano essere perfino più angoscianti di quelle in cui si manifesta il paranormale, grazie ad una tecnica narrativa da dieci e lode che riesce a creare eccezionali suggestioni. Si ha sempre la sensazione che qualcosa di terribile stia per accadere, strisciando intorno ad Eleonor, fuori e dentro di lei, anche quando semplicemente osserva il tramonto o cammina lungo il sentiero che conduce alla casa.

Nonostante sia universalmente riconosciuto come un capolavoro, questo romanzo ancora oggi non è immune da pesanti critiche e c’è perfino chi , appassionato di horror spiccio, lo trova noioso ed inconcludente, prolisso e al tempo stesso pieno di buchi nella trama. Probabilmente non siamo abituati a trovare tanta profondità in una storia di fantasmi e di paura, e la cosa forse può   essere fuorviante.


“L’incubo di Hill House” è prima di tutto una storia di solitudine estrema,  straziante e crudele, raccontata con una raffinatezza ed una eleganza inusuale. Il terrore, la paura e l’angoscia arrivano quando la sofferenza ed i conflitti interiori hanno già spezzato in due la vita dei protagonisti, prendendosi quel che resta. Il messaggio di fondo è uno solo, una verità incontrovertibile: sono i nostri fantasmi interiori quelli che fanno più paura, assai più spaventosi e crudeli di quelli che popolano le case infestate.


L’incubo di Hill House – Shirley Jackson (Gli Adelphi)

“The Quick”, di Lauren Owen: misteri, vampiri e sale da the

The Quick” è stato l’esordio folgorante di una giovane autrice, Lauren Owen. Questa ragazza, poco più che trentenne, è riuscita ad imbastire una storia di vampiri “vecchio stile” che cattura fin dalle prime righe, trasportando il lettore in un mondo antico ed arcaico, in cui la fantasia domina la realtà rendendo molto difficile  distinguere ciò che è  leggenda da ciò che è  storia. I vampiri, figure mitologiche le cui origini si perdono nella notte dei tempi, non smetteranno mai di affascinare i lettori di ogni generazione e di essere la fonte principale di ispirazione per chi di mestiere scrive storie da brivido: a cominciare da Bram Stoker, capostipite del genere e creatore di Dracula, fino a Stephen King, che ci ha condotto per mano lungo le stradine buie di Jerusalem’s Lot  facendoci tremare le viscere.
Le saghe più recenti (Twilght in testa) hanno rivisitato la figura dei Vampiri giocando molto sul loro aspetto fascinoso, umanizzandoli al punto  da instillare in loro il sentimento per antonomasia: l’amore. Per me si tratta di blasfemia e su questa considerazione mi fermo, perché non voglio infierire su ciò che è già triste di suo. I vampiri hanno una loro dignità ed una storia millenaria che li ha sempre resi i protagonisti indiscussi delle nostre paure: Lauren Owen restituisce loro un’immagine di spietatezza,  e di questo le sono davvero grata. I vampiri bellocci che si innamorano di adolescenti non fanno  proprio per me.
Lo sfondo in cui l’autrice colloca i suoi protagonisti è la Londra vittoriana di fine ottocento, un’ambientazione molto suggestiva che aiuta il lettore a calarsi perfettamente nella storia. La capitale inglese alla  fine del XIX secolo rappresentava uno dei maggiori fulcri di stabilità e di benessere economico: rivoluzione industriale, espansione coloniale, assenza di guerre. Ma questa nuova ricchezza portò con se anche molti aspetti negativi, creando lacerazioni profonde nel tessuto sociale.
I risvolti  delle nuove politiche economiche furono devastanti: il divario tra nuova borghesia e nuovi poveri non fu mai così ampio come ai tempi della Regina Vittoria. I contrasti interni erano stridenti, il tasso di delinquenza  elevatissimo,  i sobborghi erano fogne a cielo aperto  impestate di malattie e di prostituzione. L’epoca vittoriana diventò  tristemente nota per la diffusione del lavoro minorile ed il conseguente analfabetismo.
I nobili ed i banchieri arricchiti si trinceravano nei loro club esclusivi a parlare di affari e a sorseggiare tè con superficiale ottimismo, forti di una condizione non sarebbe mai mutata, mentre a due passi dalla City la fame mieteva vittime e cresceva orfani. Questo aspetto storico è una parte fondamentale del libro, perché  i Vampiri, seguendo l’ombra delle vite che hanno strappato, rimangono legati loro malgrado al susseguirsi degli eventi e si conformano alla società del tempo. Sono creature che si adattano ai tempi in cui vivono perché ne sono la macabra prosecuzione, ma disprezzano profondamente gli uomini e rifuggono il contatto con essi. Li considerano esseri inutili, inferiori. Sentono il loro tanfo a diversi passi di distanza e ne sono infastiditi, i loro luoghi di aggregazione li inorridiscono. L’unico istinto che li guida verso l’uomo è il bisogno di sangue, di cui non possono fare a meno. L’uomo comune, stolto e pusillanime, è solo un enorme sacca  da cui trarre alimento e nient’altro. Nessuna emozione potrà mai guidarli verso altre strade.
La nostra storia inizia in una decadente dimora della campagna inglese,  in cui vivono due ragazzini: Charlotte e James. I due fratelli dopo la morte della madre crescono molto uniti ma terribilmente soli, con un padre quasi sempre assente per lavoro e l’anziana governante. Il padre in realtà tornerà da loro, ma solo perché la sua salute non gli consente più alcun tipo di spostamento: morirà poco dopo. L’ambiente isolato ed i pochissimi contatti umani alimentano nei due giovani un forte desiderio di evasione, attratti dalla vitalità e dal fermento culturale di Londra : James si sente particolarmente portato per la scrittura, e decide così di approfittare della rendita paterna per recarsi a studiare nella grande città. A questo punto le vite dei due protagonisti si dividono: lasciamo da parte Charlotte, ancora immersa nei doveri verso la famiglia, per avventurarci insieme a James nella sua nuova esistenza. I primi giorni a Londra sono molto confusi per lui, ingenuo ragazzo di campagna, fino a quando incontrerà Christopher Paige. Christopher, un dandy affascinante dedito un po’ troppo all’alcol e ad altri vizi,  appartiene ad una ricca famiglia della città e stringerà con James una forte amicizia. Andranno a vivere insieme da un’affittuaria e sarà proprio Christopher ad introdurre James nel cuore della vita mondana londinese. Cene eleganti, teatri, club esclusivi… James viene iniziato ai piaceri della vita cittadina e la sua carriera come commediografo stenta sempre di più a decollare. Sono due gli avvenimenti che segneranno inesorabilmente il suo destino: l’incontro con il presidente dell’esclusivo club “AEgolius” e la scoperta dell’amore, laddove non l’avrebbe mai cercato. Dopo poco, James scompare. Charlotte è molto preoccupata perché suo fratello non risponde più da mesi alle sue lettere e così, finalmente libera da impegni domestici, decide di partire alla volta di Londra per cercare di capire cosa sta succedendo a James.
Charlotte scoprirà come tra le vie di Londra si annidi un sottobosco di creature ibride, chiamate gli “Spenti”, in contrapposizione con gli “Animati”, appartenenti invece al genere umano. Dal momento che i vampiri sono costretti a seguire l’evoluzione umana, la stratificazione sociale della Londra vittoriana si rifletterà anche nel loro mondo e darà vita a feroci lotte tra i vari clan presenti nel territorio urbano. Gli esponenti della nobiltà in decadenza e i nuovi ricchi fanno tutti capo al misterioso AEgolius, di cui James ha già scoperto l’esistenza. Il loro scopo, oltre a quello banale della mera sopravvivenza, è  attirare nelle proprie fila i personaggi più in vista della città e giovani promettenti con determinate qualità intellettuali: vogliono cambiare le cose per sempre, instaurando una vera e propria egemonia di Spenti. Questo nuovo ordine  avrebbe dominato da principio  l’intera Londra, per poi espandersi ovunque. La loro sete di potere, unita al desiderio di mantenere intatti i privilegi di cui godono, guida il loro implacabile istinto sanguinario. Dall’altra parte del Tamigi, tra i fumi delle industrie e la puzza di marcio delle vie suburbane, vivono  gli Alia. Gli Alia sono i miserabili, i pezzenti, sono rozzi succhiasangue privi di qualsiasi regola morale. I loro capo è una donna, che offre loro riparo e mezzi di sostentamento in cambio di totale abnegazione.
Fra gli Alia vi sono molti bambini, un tempo orfani, dimenticati o creduti morti dai loro genitori. Scorrazzano per la città in cerca di sangue fresco e obbediscono agli ordini della loro padrona, sono privi di qualsiasi tenerezza infantile   e giocano tra gli Animati sperando di riuscire ad addentarli quando la fame si fa sentire. Perché non è così facile distinguere gli Spenti dagli Animati. Si confondono perfettamente nella folla, ma la loro velocità di spostamento è sovrumana. Hanno ferite impercettibili sul corpo, segno delle loro appartenenza, ed occhi immobili in cui galleggia il vuoto. Hanno fame, e spesso questo li tradisce, ma per il resto sono perfettamente integrati nella società. E soprattutto nessuno di loro accetta di essere chiamato per quello che è veramente: un vampiro.
Chi ha rapito James? Perché i membri dell’AEgolius si avvalgono di uno studioso che usa alcuni di loro come cavie? Cosa hanno scoperto sui vampiri moderni? Cos’è lo “scambio” e perché è una regola così pericolosa da contravvenire?
Charlotte si ritroverà suo malgrado coinvolta in queste lotte di classe per salvare se stessa e  suo fratello da un terribile destino, e nel farlo verrà aiutata da una strana coppia di cacciatori di vampiri e da un sopravvissuto al piano dell’ AEgolius.
C’è forse un sovraccarico di misteri e di inversioni di rotta in questo romanzo, ma il tutto è ampiamente compensato da una scrittura fluida, perfetta, pulita. Ogni descrizione, da quelle della malinconica e dolce  campagna inglese fino a quelle della cupa e fumosa  Londra di fine ottocento,  ci fanno immergere completamente nelle atmosfere gotiche di questa storia.

I vampiri sono un tema ampiamente sfruttato dalla letteratura di tutti i tempi, eppure in questo romanzo non vi stancherete mai di sentir parlare di loro, anzi: ne vorrete sapere sempre di più, incollati a pagine che sfoglierete avidi una dopo l’altra. Troverete comunque qualcosa di nuovo, di appetitoso, di stuzzicante e al tempo stesso di terrificante. Sentirete sempre un sottile senso di angoscia strisciare tra le mura di casa vostra. Scapperete anche voi tra i vicoli fuligginosi di Londra in cerca di un nascondiglio, perché il buio  non riuscirà ad offrirvi abbastanza riparo; e quando leggendo dei bambini vampiri passerete aldilà del Tamigi, sentirete uno sbuffo gelido alitarvi sul collo.

The Quick, Lauren Owen (Fazi)

9788876257377_0_536_0_75