“Il mio amico Maigret”, di Georges Simenon: un omicidio alle isole Porquerolles

La forza dei romanzi dedicati al Commissario Maigret risiede in due punti fondamentali: l’ambientazione, sempre particolarmente suggestiva, e lo spessore psicologico dei protagonisti. La trama e l’intreccio giallistico passano in secondo piano, perchè l’attenzione si sposta sempre verso l’aspetto umano più che su quello metodologico delle indagini. Simenon è stato l’autore che, negli anni trenta, ha rivoluzionato il genere del romanzo poliziesco: lo schema del giallo classico, tutto improntato sulla ricerca meticolosa del colpevole e sull’analisi minuziosa della scena del crimine,  viene abbandonato in favore di ambientazioni popolari e piccolo borhgesi, microcosmi proletari in cui sono gli esseri umani con i loro turbamenti ad essere scandagliati ed osservati, per arrivare infine a comprendre le motivazioni del delitto più che il movente in sè. Anche questa volta ritroviamo gli stessi elementi, amalgamati però in modo differente dal solito: il vero protagonista diventa il paesaggio isolano, che cattura i suoi avventori in un vortice di emozioni a cui nemmeno Maigret può sottrarsi. L’intreccio psicologico quasi non esiste, la trama è lineare e semplice, al punto che spesso durante la lettura non ci accorgiamo nemmeno che il commissario stia in realtà svolgendo un’indagine per omicidio: i colloqui sono scarni, rari, gli interrogatori rapidi e sembrano non portare a nulla, ancora più  del solito. I personaggi che incontriamo, seppur variegati, li abbiamo tutti più o meno già incontrati nella galleria umana di Simenon, ma questa volta anzichè sfuggire tra dimenticati bistrot della periferia parigina o lungo le strade della campagna francese sono tutti prigionieri della malìa dell’isola, che avvinghia e fa ammalare di “porquerollite”, come affermano gli abitanti stessi.

Maigret viene chiamato nel cuore del mediterraneo perché è stato assassinato un uomo, tale Marcelline, un malvivente da quattro soldi che la sera prima del delitto aveva dichiarato di essere amico del famoso commissario parigino. Maigret è ormai diventato un personaggio di spicco, uno che compare sui giornali nazionali e che fa molto parlare di sè per la brillante risoluzione di casi difficili. Addirittura la sua notorietà ha attraversato La Manica, destando curiosità persino tra i colleghi di Scotland Yard, che proprio nei giorni dell’assassinio decidono di spedire in visita al  Quai des Orfèvres il pari- grado commissario Pyke. Pyke viene accolto con sollecitudine dai colleghi francesi e messo alle costole di Maigret, affinché possa vedere con i suoi occhi in cosa consiste il suo tanto decantato metodo, che poi metodo non è.

Una volta approdato sull’isola Maigret si lascia completamente trasportare, vittima inconsapevole di quella strana malattia che gli abitanti del posto conoscono così bene. Il porticciolo con le sue imbarcazioni turistiche, le barche tirate in secca dai pescatori che quando c’è il Mistral stanno tutto il giorno a cucire le reti, la piazzetta su cui si affaccia l’unico ritrovo del posto, “L’Arche de Noe”: con poche sapienti pennellate Simenon descrive un paesaggio che sembra sbucato fuori da un quadro impressionista, regalando al lettore intense suggestioni. Il Mistral se n’è andato lo stesso giorno in cui Maigret è sbarcato in quel luogo incantato, in cui il tempo  sembra avere  un respiro differente rispetto a quello che scorre a Parigi. Il tempo qui si dilata fino a farti dimenticare di vestirti per uscire dalla tua stanza d’albergo, ritrovandoti in ciabatte e veste da camera ad osservare il via vai del porto. E poi l’odore della domenica, un profumo di caffè e nostalgia che Maigret riconoscerebbe ovunque e che qui sull’isola è così amplificato da sconfiggerlo inesorabilmente, un sentimento languido a cui vorrebbe potersi abbandonare. Eppure,  tra quelle viuzze bianche investite da colori e profumi mediterranei, è stato commesso un efferato omicidio. Ed il colpevole non se ne è mai andao. Si  aggira noncurante insieme agli altri abitanti dell’isola, trascorrendo oziose giornate al sole caldo della primavera provenzale, tra un bianchino consumato all’Arche de Noè ed una partita a petanque. Tocca quindi investigare, e quel che è peggio è che lo deve fare in presenza di Pyke, il quale forse si aspettava qualcosa di più da quel viaggio e invece gli tocca fare il turista. Perchè quando Maigret si mette all’opera non prende penna e taccuino e non scandaglia la scena del crimine come un radar, ma comincia ad osservare: scruta la varietà umana che per un motivo o per l’altro popola l’isola – ognuno con un buon motivo per restare ed altrettanti per andarsene – si immerge nelle atmosfere che lo circondano e si lascia guidare dalle sensazioni che gli arrivano fino a quando, finalmente, tutto gli sarà chiaro. Come si può spiegare all’inglese Pyke cosa è l’intuizione, e come arriva? ” Questo è il mio metodo”, gli spiega Maigret.  E noi, una volta di più, abbiamo la certezza che nulla come l’empatia verso i nostri simili sia la chiave per comprendere la complessità delle vicende umane.

“Il morso della vipera”, di Alice Basso: omicidi e dattilografe in erba

Doverosa premessa: io adoro Alice Basso. L’ho conosciuta per caso ad una presentazione in libreria qualche anno fa ma i suoi romanzi con protagonista Vani Sarca, la ghost writer detective per caso, li ho letti solo tra il 2019 e il 2020 (sono cinque e li ho acquistati tutti in blocco, poi li ho centellinati). La adoro perché scrive benissimo, è molto colta, ha una passione sfrenata per la musica rock, gli hard boiled americani degli anni trenta e possiede una tagliente ironia ed un acume spiccato che riesce a trasferire ai suoi protagonisti con grande abilità. Leggere i suoi libri equivale per me ad un vero e proprio spasso, anche se non mancano gli spunti di riflessione e i momenti più seri ed introspettivi. In ogni romanzo traspare il suo grande amore per la letteratura, in ogni sua forma. Secondo Alice i libri ci salvano, non in senso fisico ovviamente, ma in senso metaforico, perché il più delle volte ci salvano da noi stessi e dalla nostre piccole miserie quotidiane. Illuminano le nostre vite e la rendono migliore, infinitamente più ricca, allargano l’orizzonte della nostra scarsa visuale e spesso spalancano porte che non sapevamo nemmeno di aver chiuso. Dopo la conclusione della saga di Vani Sarca credevo che non fosse più possibile per l’autrice replicare creando un nuovo personaggio altrettanto originale e coinvolgente, con la stessa combinazione di leggerezza e sagacia. Ed invece mi sbagliavo, perché la nuova protagonista femminile di Alice Basso è, se possibile, ancora meglio. Anche con l’ambientazione ha fatto un passo avanti, perché il racconto è ambientato nella Torino degli anni trenta, precisamente nel 1936, e tutti noi sappiamo quanto cimentarsi in un romanzo storico sia decisamente più ostico per un autore.

In quegli anni l’Italia ancora non aveva capito bene se c’era o no da fidarsi di Mussolini, che i torinesi segretamente chiamavano “il Cerutti”, beffeggiandolo come se fosse stato un semplice governante del momento, come tanti ce n’erano stati prima di lui e tanti ce ne sarebbero stati dopo. Era l’Italia in cui il fascismo “ha fatto anche cose buone”, come le bonifiche e l’ammodernamento delle città, decorate con svettanti Torri Littorie che parevano grandi simboli fallici, trionfanti baluardi della virilità del perfetto patriota. Era l’Italia che ancora aleggiava sospesa in quella specie di limbo in cui “i fascisti ci hanno anche aiutato, cosa dovevamo fare…” , in cui “la rivoluzionaria” idea di società e famiglia, che premiava chi sfornava figli da gettare in pasto al neo proclamato Impero Fascista, era considerata giusta e perfettamente in linea con i precetti religiosi che volevano le donne sottomesse al marito, con l’unico scopo di allevare una prole numerosa ed educarla con rigore marziano. Lavoravano solo le ragazze nubili di umili origini che dovevano aiutare le famiglie in difficoltà e le vedove della grande guerra: nessun marito sano di mente avrebbe mai concesso alla propria moglie la libertà di lavorare, perché il lavoro creava indipendenza economica, e da lì a quella mentale il passo era breve. Troppo breve per un buon fascista. Questa è l’atmosfera che gravita intorno ad Anita Bo, una ragazza di ventun anni figlia di un commerciante locale, che in vita sua non ha mai fatto altro che essere bella. Ma non carina, proprio bella da mozzare il fiato, di quelle clessidre viventi con i capelli neri e lucidi, gli occhi enormi e una bocca a cuore fintamente truccata. E’ stata allevata con la convinzione che, essendo così sfacciatamente bella, poteva anche sfangarsi dalle fatiche scolastiche e restare irrimediabilmente ignorante e stupida, ché tanto per trovare un buon marito l’intelligenza e la cultura non erano doti necessarie. Il problema è che Anita stupida non lo è per niente, anzi. Diciamo che nessuno (tanto meno lei stessa) si è mai preso la briga di coltivare il suo atrofizzato cervellino, che tutto è fuorché un terreno arido. Solo la sua migliore amica e la sua ex insegnante di dattilografia hanno intuito che dietro l’aspetto da bambolina di Anita si nasconde qualcos’altro, un territorio inesplorato che a tratti si palesa con inaspettati colpi di astuzia ed intuizioni argute. E’ per questo che Anita, nonostante non conosca nemmeno la metà dei riferimenti culturali che comunemente utilizzano le sue amiche, è un’ottima compagnia per due donne così moderne e anticonformiste come Clara e Candida. Clara, ex compagna di classe di Anita, è bruttina ma estremamente intelligente e curiosa, e per mantenersi ed aiutare la famiglia lavora come dattilografa alla Reale Mutua. A Clara piace il suo lavoro, ama la sua indipendenza che le consente di non essere costretta a ripiegare su un uomo per vivere e ancora di più adora leggere, soprattutto quei libri così interessanti che le passa Candida la domenica pomeriggio. Candida, professoressa di dattilografia alla scuola per segretarie di San Donato, è una cinquantenne nubile fieramente contraria al regime, che fuma come una ciminiera e che nasconde in una cassapanca col doppio fondo i libri censurati dal Duce.

Anita, appena chiesta in moglie dall’aitante Corrado, che pare sbucato fuori da un collegio della gioventù Hitleriana, presa dal panico a sentire i suoi discorsi sulla quantità di figli che intende mettere al mondo insieme a lei, prende tempo e risponde all’ esterrefatto fidanzato che sì, il matrimonio va bene, però prima vorrebbe provare a lavorare per un po’ di tempo. Ed è così che Anita, imbranata com’è in qualsiasi cosa pratica della vita, riesce ad intortare Corrado (lui sì che è bello ma un po’ tonto) e a farsi assumere in una piccola casa editrice come dattilografa. Sbaragliata l’esigua concorrenza con un trucco da oscar comincia a lavorare alla rivista Saturnalia, che traduce e pubblica i racconti hard boiled direttamente provenienti dagli Stati Uniti. Un genere nuovo, che il pubblico italiano dimostra di apprezzare molto, seppur con le correzioni imposte della censura del regime. Anita comincia così a sondare il mondo della parola scritta, subendone il fascino e scoprendone il potere, fino ad appassionarsi realmente a quei gialli americani tutto fumo, whisky e piombo. Lei, che non ha mai letto un giallo prima d’ora, comincerà ad addentrarsi nelle menti dei detective in impermeabile che fanno ogni giorno a pugni con la vita, fino a quando si ritroverà a dover risolvere lei stessa un caso di omicidio. Non racconto di più perché non voglio spoilerare nulla, posso solo concludere rinnovando il mio plauso ad Alice Basso, che con grande dovizia di particolari ha ricostruito perfettamente un’epoca storica difficile, rievocandone le atmosfere, gli usi e i costumi in modo così verosimile che più volte mi sono stupita ritrovandomi ai piedi le sneakers anziché il mezzo tacco con la fibbietta, e i capelli come una massa informe anziché solcati da una perfetta ondina ricoperta di lacca.

“La figlia del boia”, di Oliver Potzsch: quando uccidere era un mestiere

“La figlia del boia” è un romanzo storico affascinante, dalla scrittura potente ed evocativa. Oliver Potzsch centra l’obiettivo e ci regala un affresco della Baviera del XVII secolo che difficilmente potremmo dimenticare. Il protagonista, a dispetto del titolo, è il boia della città di Schongau. La figlia del boia infatti (lo dico per quelli che come me pensavano di incappare in una figura femminile) resta marginale alla storia, al punto che sono ancora qui a chiedermi per quale motivo il romanzo si intitola in questo modo. Comunque, torniamo a noi. Il boia del paese, si diceva, è l’uomo attorno al quale ruota tutto il romanzo. Chi di noi ha mai pensato che il boia potesse essere una figura così importante per una comunità? Chi di noi se l’è mai immaginato come un essere umano normale, sotto quel cappuccio nero e quelle braccia nerborute fatte per tagliare teste? Un uomo con sentimenti, opinioni politiche, con una moglie e dei figli che ama? Direi nessuno. L’originalità del romanzo sta proprio in questo, nell’aver messo in luce le caratteristiche di un mestiere completamente ignorato dalla storia. Quello del boia all’ epoca era un mestiere esclusivo. Era ereditario, veniva portato in dono da una sorte malevola a cui nessuno si poteva sottrarre: il figlio di un boia avrebbe fatto il boia a sua volta, come suo padre prima di lui e come i figli a venire. Non c’era modo di ribellarsi, essere nati in una famiglia di boia significava avere il petto macchiato da un’onta terribile che nessun altro avrebbe mai portato per propria scelta. Era al tempo stesso un uomo temuto ma non rispettato: il popolo aveva paura di lui perché era la personificazione della morte, al suo passaggio c’era chi si faceva il segno della croce e chi abbassava lo sguardo. Ma era comunque un lavoro, e andava fatto. Così era la vita anche per Jakob Kuisl, il boia di Schongau, fino a quando la levatrice del paese viene arrestata con l’accusa di aver commesso l’omicidio di due bambini.

Il 12 ottobre era un buon giorno per uccidere. Aveva piovuto tutta la settimana, ma quel venerdì, dopo la festa parrocchiale, il buon Dio ci aveva ripensato. Nonostante fosse autunno, il sole splendeva tiepido in basso sul Pfaffenwinkel e dalla città in alto provenivano schiamazzi e risate. Si udivano rulli di tamburo, tintinnio di campanelle, note di violino. L’aroma di frittelle e carne arrosto si insinuava fino al maleodorante Gerberviertel, il rione dei conciatori. Sarebbe stata una bella esecuzione.”

Il periodo della caccia alle streghe è finito da poco ma in tutta la Baviera, così come nel resto dell’Europa, è ancora profondamente radicata la convinzione che alcune donne siano emissari del diavolo, sue amanti e complici. Le levatrici, a causa del loro mestiere, erano profonde conoscitrici delle erbe e del loro potere curativo e le usavano in grande quantità per alleviare i dolori del parto o per curare semplici problemi femminili. Tanto bastava per destare il sospetto. Martha viene immediatamente additata come strega e in quanto tale considerata colpevole delle barbare uccisioni. Viene affidata al boia il quale deve estorcerle regolare confessione affinché possa essere messa al rogo. Ma il nostro boia è un uomo molto diverso da quello che sembra e soprattutto non crede nella sua colpevolezza. E’ un uomo giusto e buono, che lotta contro i pregiudizi e che aiuterà Martha con tutti i mezzi a sua disposizione per lasciarla in vita fino a quando il vero colpevole non verrà trovato. In paese il boia non è il solo a credere all’innocenza della levatrice: sua figlia, una bella ragazza testarda e anticonformista e un giovane medico affascinato dalle conoscenze del boia e dalla sensualità giovane, inizieranno ad indagare per proprio conto per arrivare alla verità. La loro sarà una lotta contro il tempo per ribaltare una sentenza di morte già scritta solo per coprire persone per bene, per motivazioni politiche, per nascondere verità inconfessabili. L’accuratezza della ricostruzione storica e la stupefacente figura del boia, uomo erudito, esperto erborista e assai più lungimirante dei personaggi che governano il paese, rende questo romanzo storico un piccolo capolavoro da leggere senza indugi, se come me siete affascinati dalla storia nei suoi molteplici e spesso sconosciuti risvolti.

“La scelta decisiva”, di Charlotte Link: un’autrice che non sbaglia un colpo!

La nostra vita è fatta di scelte continue. Un incessante susseguirsi di bivi quotidiani traccia il percorso della nostra esistenza, ma nella maggior parte dei casi non ce ne rendiamo conto. Cosa succede però quando una delle tante decisioni che prendiamo quotidianamente, per una rocambolesca casualità del destino, diventa  fondamentale al punto da invertire drasticamente la rotta della nostra vita? La risposta è semplice ma destabilizzante: possiamo fatalmente ritrovarci nel posto sbagliato al momento sbagliato,  proprio come capita a Simon, il protagonista di questo nuovo, entusiasmante thriller psicologico firmato Charlotte Link.

📖

Questa volta abbiamo di fronte un surplus di protagonisti, tra i quali ne spiccano essenzialmente due: Simon,   che  come accennavo all’inizio a causa di una scelta sbagliata resta imbrigliato in una terribile vicenda, e Nathalie, una giovane ragazza in fuga che suo malgrado lo trascinerà in un incubo ad occhi aperti. Simon vive ad Amburgo, ha quarant’anni e si guadagna da vivere come traduttore free lance; ha una compagna, Kristina, una ex moglie che pare si diverta a mettergli continuamente il bastone tra le ruote e due figli con i quali, dopo il divorzio, non riesce più a relazionarsi. Proprio con loro avrebbe dovuto trascorrere le settimane antecedenti il Natale nella casa di famglia in Provenza, un programma a cui Simon teneva molto anche se – come sempre – la vacanza non avrebbe previsto la compagnia di Kristina, che i figli ancora non conoscono.   Poco prima della partenza, quando ormai Simon si trova già in Francia, i ragazzi cambiano idea e decidono di trascorrere il Natale con la madre ed il nuovo compagno, lasciandolo solo. Ormai è troppo tardi per ripiegare su Kristina, la quale non sta vivendo affatto bene la situazione di fidanzata part time, e nemmeno ha il coraggio di tornare ad Amburgo perchè significherebbe ammettere  l’ennesimo fallimento.  Abbattuto e in crisi profonda Simon si aggira sul lungomare quando si imbatte in Nathalie: la ragazza sta avendo un alterco con altri due uomini e Simon, istintivamente, cerca di aiutarla. Nathalie ha vent’anni, è spaventosamente magra ed infreddolita, non ha un posto in cui ripararsi dalla pioggia battente e soprattutto appare tremendamente spaventata. E’ così che Simon lancia la sua monetina, e prende la decisione che gli stravolgerà completamente la vita: decide di aiutarla.  Da questo momento in avanti Simon verrà trascinato in una spirale di orrore e violenza, in cui tutti coloro che hanno a che fare con la ragazza vengono uccisi barbaramente da killer spietati. Anche Nathalie è il pezzo di un domino, l’anello di una catena rosso sangue che unisce Parigi a Metz, Amburgo alla Provenza, per finire in Bulgaria, dove tutto ha inizio. A Sofia, nonostante l’ingresso in Europa, il progresso economico è ancora un miraggio per la maggior parte della popolazione. L’indigenza per alcune famiglie è tale che molti genitori sono costretti a vendere letteralmente le proprie figlie adolescenti (anche bambine, nel peggiore dei casi)  al mercato del sesso, illudendosi di dare loro un futuro migliore. Potenti organizzazioni criminali gestiscono un traffico spaventoso di esseri umani, facendo leva sulla disperazione di chi non ha più nulla, nemmeno gli occhi per vedere cosa si cela in realtà dietro fantomatiche agenzie di modelle: un subdolo  specchietto per allodole che fa presa sui più miserabili.

🔍

Lo spettro dei recenti attentati terroristici aleggia su tutta l’Europa, rendendo l’angoscia ancora più palpabile, più pressante, più dannatamente reale. Non c’è un attimo di respiro mentre seguiamo la corsa  di Nathalie e Simon, che poco alla volta riescono ad apprendere la verità.  Forse la Link, a livello di trama, ha scritto cose migliori e più originali, ma questo thriller ha molti punti di forza che lo rendono una validissima lettura. L’intreccio che l’autrice ha saputo creare è da dieci e lode: i capitoli si alternano di volta in volta seguendo due diversi centri di narrazione, uno che fa capo agli avvenimenti francesi ed un altro che segue le vicende di Selina e Ninka, due ragazze di Sofia cadute nella rete della prostituzione. L’incedere così incalzante, che all’ inizio lascia disorientati per l’apparente mancanza di collegamenti tra le due vicende, viene di tanto in tanto inframmezzato da alcune pagine  del diario di Nathalie. Questo si rivelerà fondamentale per capire come mai, ad un certo punto, la ragazza si ritrova  in una piccola località della costa francese completamente sola, senza un soldo in tasca e così terribilmente magra e spaventata. Ammaliante, come sempre, la descrizione dei paesaggi da cui trapela la desolazione dei sobborghi di Sofia e la solitudine del mare d’inverno, quando la pioggia ed il vento sferzano la costa. Infine l’autrice ci fa riflettere come sempre sulle fragilità umane, che mai come in questo romanzo appaiono la vera causa di ogni male, di ogni sbaglio, di ogni sofferenza inflitta o subita.

🔖TE LO CONSIGLIO SE:

  • I thriller psicologici sono la tua zona di comfort
  • ricerchi gialli di qualità
  • Lo splatter non fa per te

“Le belle Cece”, di Andrea Vitali: ritorno a Bellano degli anni 30

Questo è uno di quei romanzi che si legge velocemente, un volumetto da compagnia senza tante pretese che ha consolidato l’idea che mi ero fatta su Andrea Vitali. A costo di tirarmi dietro le ire di migliaia di lettori e critici letterari, ammetto di non amare molto questo scrittore, seppur abbia voluto riservargli una seconda chance dopo il celeberrimo “Olive comprese”. Non si tratta di snobismo nei confronti della  produzione italiana da classifica e nemmeno credo si tratti solo di gusti personali: la sua prosa, infatti, il più delle volte mi stanca e non riesce a strapparmi sorrisi come invece pare succeda a tanti. Uno stile frizzante ma che alla lunga annoia, anche se si trattasse di un solo lettore, meriterebbe un approfondimento, perché quando uno scrittore tecnicamente è bravo chi ama leggere lo apprezza a prescindere. Tutto il resto è opinabile, ma non questo. Partiamo però dai punti di forza di Vitali, che accomunano tutta la sua prolifica bibliografia: l’ambientazione e la rievocazione storica dell’Italia all’ alba dell’Impero fascista. Le storie di Vitali sono tutte ambientate a Bellano, sul lago di Como, un piccolo paese che oggi conta circa 3000 abitanti che è anche il luogo natìo dello scrittore. In questo piccolo borgo si muovono i suoi protagonisti, che ad oggi ammontano ad una cifra incalcolabile, i quali con le loro vicende  quotidiane movimentano il paese dando vita a situazioni esilaranti (insomma), a sottintesi e malintesi, a fraintendimenti di ogni tipo. Perché i peccati della gente per bene di Bellano non si devono sapere: sono lo specchio dell’italia sul finire degli anni 30, quando tutto quello che importava faceva capo alla Casa del fascio,  alla Chiesa e alla Caserma dei Carabinieri. Vitali non racconta mai storie straordinarie, perché punta tutto sulle vicende personali di quel piccolo microcosmo, spesso assai più fantasiose e divertenti. Leggere un suo romanzo è come guardare alla tv un vecchio film di Peppone e Don Camillo, in cui le divertenti diatribe tra il sindaco e il parroco portavano scompiglio giù nella Bassa. Questa è una delle critiche che mi sento di muovere all’autore, perché quello di cui parla in fondo non è che una rivisitazione dell’idea che Giovannino Guareschi ebbe molto tempo prima di lui. Certo, a Brescello c’era il Partito Comunista a dirigere la vita del paesino, e la seconda guerra mondiale si era già conclusa. Però l’idea di fondo, quella di dare voce ad  una Italia dimenticata, che rischiava di perdersi nella memoria dei nostri nonni, è la medesima.Anche “Le belle Cece” è una storia semplice, che di più non si potrebbe, perchè porta alla luce peccati che esistono dalla notte dei tempi: quelli di infedeltà. Si parla di corna e questo lo si intuisce perfettamente sin dalle prime pagine, quando incontriamo Verzetta ed Orbella Cece, madre e figlia con certi pruriti che non esitano a soddisfare. La trama però non è così lineare, anzi! Si parte con la geniale trovata di Fausto Semola, segretario del fascio locale, che per festeggiare la campagna d’Etiopia decide di organizzare un concerto di campane a cui avrebbero dovuto partecipare tutte le chiese del paese e zone limitrofe. La sera in cui Mussolini proclama la nascita dell’Impero Fascista, il 9 maggio del 1936, la sinfonia di campane non è però l’unica cosa ad animare la gente di Bellano. Partiamo quindi con un improbabile concerto  per arrivare ad un furto di mutande da signora, con le iniziali ricamate sopra ad indicare senza ombra di dubbio il nome della proprietaria. In questo veloce procedere di eventi, la storia del Semola si confonde con quella di un burbero ispettore di cotonificio, elemento di spicco nel paese, e la sua consorte Verzetta. Poi si arriva alla suocera, la signora Orbella, ma passando attraverso la storia dell’effemminato Dolcineo, da sempre vittima di terribili scherzi, e del suo amico di colore direttamente importato dalla campagna d’Africa. A dirimere il traffico di vicende, il già noto maresciallo dei Carabinieri Maccadò. Un vero guazzabuglio, un inizio che prometteva bene ed una fine che sembra tirata col mattarello, allungata fino allo sfinimento con  dialoghi che non aggiugono nulla alla trama. Trenta pagine a parlare di mutande! Era molto più interessante se Vitali avesse riservato i pruriti delle signore Cece ad un altro romanzo, concentrandosi invece per questa volta solo sul Semola e sulle sue astute idee per dare lustro alla sezione locale del Partito.

Ci sono tanti modi diversi di amare un libro, non è solo questione di come è scritto: c’è chi scrive talmente bene che è in grado di ammaliare anche quando la trama è inesistente, c’è chi è in grado di imbastire storie che tengono incollati alle pagine anche se dialoghi e sintassi lasciano a desiderare, c’è chi ha una scrittura emozionale che punta sulla rievocazione di ricordi e immagini del nostro passato, e  c’è chi, come Andrea  Vitali,   cerca di raccontare con ironia e leggerezza un’ Italia che non c’è più, calcando la mano su personaggi irreali e bizzarri, dai nomi improbabili, che però spesso sono talmente distanti dalla realtà  che il sorriso rimane una smorfia strascicata. Anche questo lo posso affermare con certezza, perché io provengo dalla Bassa, e laggiù ai tempi dei miei nonni di personaggi strampalati ce n’erano a bizzeffe, con nomi anche più assurdi di quelli che si inventa Vitali. Ma le loro storie  erano proprio un’altra cosa.

“Il respiro delle anime”, di Gigi Paoli: una Firenze che non ti aspetti

Gigi Paoli, bravo giornalista toscano e neo scrittore, con la sua opera prima – “Il rumore della pioggia” – mi ha letteralmente conquistata. I motivi per cui questo autore è entrato di prepotenza nella schiera dei miei preferiti sono diversi: prima di tutto, la qualità della scrittura. La sua penna scorre fluida, sobria, ma al tempo stesso è di forte impatto e tiene saldamente la presa sul lettore. Ha saputo attingere dalla sua ventennale esperienza di cronista senza ingessare la storia in un  resoconto giornalistico, uno scivolone in cui poteva facilmente incappare data la sua professione. Paoli ha aggirato l’ostacolo confezionando nuovamente un romanzo di genere perfetto, che incalza pagina dopo pagina senza la minima caduta di stile. L’altro elemento vincente è la scelta, assai azzeccata, del protagonista: Carlo Alberto Marchi, giornalista di cronaca giudiziaria al ”Nuovo” di Firenze e padre single di Donata, una dodicenne alle prese con le sue prime paturnie adolescenziali. Uomo positivo e concreto, abituato a compiere quotidianamente slalom giganti per non trascurare la figlia, Marchi altro non è che l’alter ego romanzesco dell’autore, con il quale ha in comune carriera, vita familiare, città e taglio di capelli. E’ un giornalista vecchio stampo sopravvissuto all’ era tecnologica e all’ avvento di internet, ancora animato dal sacro fuoco di una  professione antica e nobile, in nome della quale è disposto a macinare orari impossibili ed a sacrificare giorni liberi ed interi week end. Per lui andare a caccia di una buona notizia non significa “googlare” alla scrivania annoiati e stanchi, ma esattamente l’opposto: significa alzare le chiappe anche quando vorrebbe solo svenire sul divano di casa sua, aggirarsi lungo i corridoi  del Palazzo di Giustizia ad orari improbabili affrontando lunghe attese ed inscenando appostamenti degni di uno stalker, che spesso si concludono con  porte sbattute in faccia senza pietà. Perché quello che lui ha simpaticamente ribattezzato “Gotham” (in onore dell’ avveniristica architettura che tanto lo fa assomigliare alla città di Batman) è un mondo a parte ed ha le sue regole inamovibili. Una di queste è che per i giornalisti rompiscatole come Marchi non è sempre aria, ma un’altra è che altrettanto spesso all ’interno dell’arido edificio si riescono ad instaurare buoni rapporti personali di fiducia e collaborazione reciproca, che alcune volte si trasformano in amicizie vere e proprie. Sono queste le fonti predilette di Marchi, altro che  smanettamenti internettiani: nessuno più di lui sa che un buon informatore necessita quasi sempre di un caffè alle prime luci dell’alba o di una cena a notte fonda in qualche bettola della città.

Una Firenze oscura e segreta, al riparo dagli occhi curiosi dei turisti, fa da contorno ancora una volta alle sue indagini giornalistiche, e non potrebbe essere altrimenti: alla “giudiziaria” non c’è spazio per le storie  da cartolina. La prima volta che siamo arrivati in città insieme a Marchi era novembre, ed una pioggia  incessante e fredda strapazzava ogni vicolo, rendendolo buio ed inospitale. Questa volta invece  la ritroviamo soffocata dall’ afa di luglio, ancora una volta sfuggente e misteriosa. Paoli non ci presenta mai Firenze quando la sua straordinaria bellezza è al culmine, e nemmeno ci fa girare estasiati tra le sue strade millenarie, così ricche di storia e di fascino. No, lui preferisce condurci negli angoli dimenticati di una città che ogni giorno dell’anno è assalita da turisti provenienti da tutto il mondo, luoghi  che solo i fiorentini conoscono e dove non troveremo mai frotte di giapponesi che sventolano felici bastoni per selfie. Questo lato oscuro, esacerbato da un clima  inospitale, crea un contrasto stridente con la magnificenza dei suoi palazzi, delle sue chiese, dei suoi monumenti, dei suoi giardini: il risultato è un innamoramento ancora più forte per chi, come me, porta Firenze nel cuore da quando l’ha vista la prima volta ed una curiosità che cresce ad ogni capitolo.

Quale fatto di cronaca dovrà seguire questa volta il nostro giornalista d’assalto? Tutto ha inizio quando in redazione affidano a Marchi un pezzo sulle numerosi morti per overdose che da qualche tempo affliggono la città, fino a quando un incidente apparentemente casuale stuzzica il suo fiuto da segugio: nella notte appena trascorsa un ciclista di nazionalità americana, dirigente di una importante casa farmaceutica, viene travolto e ucciso da un’autovettura. Pirateria stradale? Marchi non ne è affatto convinto e come al solito decide di seguire di sua iniziativa una pista non richiesta.  

Arguto, ficcanaso ed irriverente riuscirà ad interagire con le forze dell’ordine e con la magistratura affinché si faccia luce sulla vicenda, sfruttando tutte le conoscenze acquisite in anni di onorato servizio. Poco alla volta le tessere dei due puzzle convergeranno ed andranno al loro posto, portando alla luce una storia davvero incredibile. E dannatamente reale.

Quando un’opera prima fa centro così come è stato per “Il rumore della pioggia”, replicare per l’autore non è cosa semplice. Deve riprendere le fila del discorso cercando però di non banalizzare la storia né stereotipare i protagonisti, perché noi lettori a volte siamo  dei gran rompiballe: abbiamo bisogno di essere sempre stuzzicati con qualcosa di nuovo, altrimenti i romanzi “seriali” ci annoiano.  Gigi Paoli riesce di fatto a superare sé stesso, e lo fa con classe. Il valore aggiunto, a parte una storia che ho trovato più intrigante e meglio sviluppata della precedente, sta nell’ averci fatto entrare un po’ di più nell’ intimo del suo protagonista, rivelando tutta la fragilità di un padre single che ogni giorno cerca disperatamente di incastrare i suoi mille impegni con le esigenze di una figlia ancora piccola, che al mondo ha soltanto lui, soffocando rimpianti e sensi di colpa come meglio può.

Facevo il giornalista, sì. Facevo il babbo, anche e soprattutto. Ma il tempo che mi restava per fare Carlo Alberto Marchi era davvero poco, pochissimo. E forse un giorno l’avrei rimpianto.

Classificazione: 4 su 5.

“Il rumore della pioggia” di Gigi Paoli: Una report-story tutta italiana

 “IL RUMORE DELLA PIOGGIA” di Gigi Paoli, un giornalista toscano che da anni lavora nell’ambiente giudiziario come cronista, è stata una autentica rivelazione. Il  mio istinto di giallista non ha sbagliato quando lo ha selezionato senza esitare dagli scaffali dei nuovi arrivi nella mia libreria di riferimento, regalandomi una lettura coinvolgente da cui non sono riuscita a staccarmi quasi mai. Tre giorni et voilà, l’ho spazzolato via e già riposto sullo scaffale della mia libreria, pronta per il suo seguito.

Il protagonista del giallo è l’alter ego del suo autore. Carlo Alberto Marchi è un giornalista che si occupa di cronaca giudiziaria nella redazione del “Nuovo” di Firenze, sulla quarantina, divorziato, vive con la figlia pre-adolescente ed una gatta nera in un piccolo appartamento da scapolo, ed ha un rapporto difficile con le donne. Per la prima volta da quando leggo gialli italiani mi sono trovata di fronte ad un protagonista che non è afflitto, non è tormentato, non è dolente. Alleluja. Il nostro Carlo ha solo una vita complicata ed una marea di casini da gestire, in quanto padre single con lo spirito da giornalista d’assalto. Questo significa che incastrare le esigenze di una figlia undicenne con la sua perenne “caccia all’ articolo” è un problema piuttosto ostico che spesso non riesce a risolvere. Risultato? La figlia si incazza, lui si sente in colpa e le notizie buone sono da rincorrere, letteralmente. Il nostro giornalista è quindi un uomo problematico ma positivo e concreto, che ama la sua vita, adora la figlia ma soprattutto ha una vera e propria dedizione per il proprio lavoro.

 
 
 
Volevo essere “Tutti gli uomini del presidente” ed ero finito a fare “Mrs. Doubtfire”. Bella prova. Pensavo a questo, abbruttendomi assai, mentre quella mattina di novembre stavo compìto e contrito, già in camicia blu e cravatta, nel ruolo che ultimamente mi si addiceva in modo magnifico. La lavastoviglie.”
 
 

Carlo Alberto Marchi svolge ancora la sua professione con quello spirito così particolare che oggi molti suoi colleghi hanno perso. Non si è mai adagiato su una scrivania per  redigere articoli a comando, buttando l’occhio di tanto in tanto all’ orario  impaziente ed annoiato come un dipendente qualsiasi: lui ha ancora una passione bruciante che lo anima, mette il cuore in quello che scrive, ha il fiuto da segugio e quando gli si presenta tra le mani una buona storia da raccontare va  in fibrillazione. Per lui il giornalismo è una missione per la quale è disposto a macinare orari impossibili, sacrificando giornate libere e week end interi. La  sua toscanità poi è la ciliegina sulla torta, perché dona al tutto un’ ironia irresistibile e dissacrante che strappa sorrisi e buonumore, rendendo l’empatia  facile ed immediata. Un protagonista azzeccatissimo insomma, come altrettanto azzeccati sono i personaggi che gli gravitano attorno: l’amico giornalista, quelli del palazzo di giustizia (simpaticamente ribattezzato Gotham perché la sua particolare struttura ricorda la città di Batman) e poi la figlia Donata, che sta combattendo le sue prime battaglie di indipendenza verso l’unico genitore che le è rimasto.  L’ambientazione scelta non poteva che essere la città toscana per eccellenza, ovvero Firenze. Questa volta però non siamo di fronte alla capitale dell’arte  per antonomasia, con i suoi monumenti e la sua opulente bellezza, che richiama frotte di turisti provenienti da ogni parte del mondo e ad ogni pagina del calendario. Questa volta l’autore ci mette in contatto con la parte più intima e riservata della città, quella che solo i fiorentini conoscono, ma non per questo meno suggestiva e affascinante, anzi. Gli angoli nascosti in cui Carlo ci conduce sono ancora più attraenti di quelli che conosco così bene, perché Firenze è una città che mi ha rapita il cuore e ci torno ogni volta che posso.

I personaggi che Gigi Paoli mette in scena si muovono all’ interno di questi angoli sconosciuti alla maggior parte di noi, rendendoci curiosi e complici di una storia buia ed opprimente come il clima novembrino in cui tutto ha inizio. Una pioggia battente sta tormentando la città da diversi giorni, Carlo è alle prese con un pezzo che dovrà scrivere sull’ arrivo imminente  del Presidente israeliano quando un collega del Nuovo lo informa di un terribile delitto accaduto poco prima nella via degli antiquari. Inizia così una  caccia all’ uomo (e all’ articolo) che Carlo conduce da vero segugio, guidato da un istinto giornalistico che lo tiene costantemente in allerta, con le antenne ben drizzate e pronte a captare il minimo segnale. L’omicidio è efferato e le piste che si aprono indagando sull’ accaduto sembrano tante – troppe a dire il vero – per essere valide. Dietro all’ uccisione di un anziano commesso di un negozio di antichità religiose paiono annidarsi segreti inconfessabili, mentre le ombre dell’ omosessualità, della Chiesa e della Massoneria si allungano come tentacoli. Ad ogni nuovo approfondimento di questa indagine a triplo binario si aprono nuovi scenari, in un susseguirsi di verità svelate e di colpi di scena che tengono avvinghiati alle pagine, come nella migliore tradizione giallista. La triplice pista è però seguita solo da Marchi, perchè per la procura di Firenze il caso è già stato praticamente risolto. Ovviamente il nostro cronista d’assalto  non ha nessun titolo per condurre l’inchiesta, perchè come gli ricordano spesso a Gotham lui è un giornalista, ed è meglio che smetta di giocare a fare l’investigatore. Marchi però non molla l’osso e continua ad indagare, aiutato da  amicizie e vecchie conoscenze coltivate in anni di appostamenti tra le stanze del palazzo di Giustizia, oltre ad una buona dose di sfrontatezza. Come nelle migliori report-story.

 

I segreti che ogni vita porta con sè sono molteplici, spesso sono pesanti fardelli, altrettanto spesso sono circondati da sensi di colpa e da sentimenti disgraziati che ci preoccupiamo di nascondere con cura. La verità invece è sempre a senso unico, ed il più delle volte è  semplice e disarmante.

 
 

“il passeggero del Polarlys”, di Georges Simenon: un delitto tra i fiordi

“Il passeggero del Polarlys” è uno dei primissimi romanzi di Simenon, pubblicato per la prima volta nel 1932, ovvero la bellezza di 88 anni fa. La datazione di un romanzo è spesso qualcosa di relativo, lo sappiamo bene, ma mai come in questo caso mi è parso evidente. La contemporaneità dello stile narrativo e delle vicende umane che intessono la trama rendono infatti questo noir un romanzo senza tempo, tanto perfetto e verosimile negli anni trenta quanto oggi. Nonostante rappresenti praticamente un esordio ritroviamo già tutti gli elementi cari all’ autore,  quelli che lo contraddistingueranno negli anni a venire e che renderanno immortale la sua intera produzione: la profonda conoscenza delle umane passioni,  l’attenta analisi psicologica dei personaggi, la predilezione per ambienti chiusi al limite del claustrofobico a cui sempre fa da sfondo un paesaggio suggestivo. E poi, naturalmente, uno o più  delitti a completare il quadro.

Il Polarlys è una nave mercantile la cui rotta è da anni sempre la stessa: parte da Amburgo con un carico di carne salata, frutta e macchinari per raggiungere via via tutte le piccole cittadine portuali della costa norvegese scambiando la merce trasportata con merluzzo, olio di foca e pelli d’orso. Nonostante sia un’imbarcazione nient’affatto ospitale è solita trasportare anche qualche passeggero, che approfittano della rotta per raggiungere luoghi isolati tra i fiordi. Quella mattina, quando  il Polarlys è ancora ormeggiato in porto, il capitano Petersen avverte nell’ aria glaciale ammantata di nebbia un presagio nefasto, quello che i lupi di mare come lui chiamano “Il malocchio“.  Non sarà uno dei soliti viaggi, di questo è certo. Quello che non comprende è il perché. Potrebbe dipendere, riflette, dal fatto che l’equipaggio è cambiato per la prima volta dopo anni: la compagnia gli ha mandato infatti un terzo ufficiale, un ragazzo imberbe appena uscito dalla scuola navale, dall’ aspetto smunto ma impeccabile che però non gradisce,  provando un’immediata diffidenza. Il suo capo macchinista ha poi letteralmente raccattato sul molo un vagabondo nulla facente per sostituire all’ ultimo minuto un carbonaio malato, che gli piace ancora meno del suo terzo ufficiale. Infine, ci sono i passeggeri: dei cinque che si sono registrati all’ imbarco uno è scomparso immediatamente dopo, lasciando solo il suo bagaglio a testimoniarne la presenza a bordo; un fatto quanto meno insolito, come ancora più insolito  è l’imbarco di Katia Storm, una giovane donna bionda, dai tratti infantili ma dalla bellezza conturbante. Una creatura misteriosa, ambigua, raffinata, in netto contrasto con lo stile semplice e rozzo della nave. Perché una donna così decide di imbarcarsi su un mercantile come il Polarlys, con la puzza di merluzzo che invade le cabine  ed il ponte costantemente ingombro di merci? Perchè quel viaggio tra i fiordi ghiacciati, con una temperatura polare che stringe le membra come in una morsa? 

Mano a mano che il mercantile prosegue il suo viaggio addentrandosi nel fitto di una tempesta di neve, l’oscuro presagio annusato nell’ aria dal capitano Peterson sembra trovare conferma nel misterioso delitto che viene compiuto a bordo, a cui seguono strani ritrovamenti che sembrano indicare un colpevole ma che, invece, servono solo a deviare i sospetti. Un altro assassinio, avvenuto tempo prima a Parigi, pare essere collegato con l’omicidio compiuto a bordo: un miglio alla volta il mistero si dipana, ma l’atmosfera cupa  e spettrale continuerà a gravare su quel disgraziato mercantile come una maledizione. Peterson, marinaio di lungo corso, è uno dei protagonisti più indovinati e meglio tratteggiati dalla penna di Simenon. Dalla corporatura tarchiata e robusta, energico e concreto, prende in mano la situazione cercando di capire cosa stia succedendo durante quella traversata, indaga, interroga il suo equipaggio, si pone mille dubbi e cerca risposte alle sue domande osservando, o meglio scrutando, la vita di bordo. In particolare si arrovella su una certa frase, buttata lì quasi per caso dal carbonaio improvvisato, della quale non riesce a comprendere il significato e che pure suona come un monito, un avvertimento. Anche Katia Storm  è una figura perfettamente delineata, una dark lady dall’ aria innocente ma dalla personalità viziosa e disturbata fatta apposta per scombinare gli equilibri di passeggeri ed equipaggio.

Chiudendo gli occhi pare anche a noi di scorgere  in lontananza la nave mercantile mentre cerca il suo spazio all’ interno dei fiordi, con il suo scambio di averi e di uomini che avviene puntuale in ogni  minuscolo porticciolo della Norvegia, altrimenti isolato. La fitta nebbia, densa e ghiacciata come glassa, avviluppa il Polarlys trasformandolo in una macchia di luce evanescente nel buio della notte polare,  pulsante di solitudine, smarrimento ed inquietudine.

 

Il passeggero del Polarlys, Georges Simenon – Gli Adelphi

phpthumb_generated_thumbnailjpg

“La sposa scomparsa”, di Rosa Teruzzi: tre “Miss Marple” della periferia milanese e un femminicidio

Prima di leggere questo romanzo ho fatto quello che non si dovrebbe mai fare: leggere prima il suo seguito. Ma non ho saputo resistere, perché quando ho ordinato il libreria “La sposa scomparsa” era appena uscito “la fioraia del Giambellino” e purtroppo certi richiami sono il mio debole. Mi sono resa conto subito che avevo commesso uno sbaglio, perché anche se Rosa Teruzzi è indulgente con chi non ha conosciuto dall’inizio le tre investigatrici dilettanti, certi particolari della loro storia (intima e non) li avrei saputi cogliere e comprendere meglio se avessi letto per primo questo romanzo, apprezzandoli come meritavano. Ad ogni modo l’innamoramento è scattato subito: Iole, Libera e Vittoria sono personaggi dotati di una forza narrativa sorprendente, e costituiscono l’elemento vincente di questo romanzo. Solitamente nei romanzi gialli i veri protagonisti sono l’assassino, la storia, la suspense e l’originalità della trama, che più è intricata e più diverte noi lettori. Rosa Teruzzi invece, attingendo a piene mani dalla sua esperienza di caporedattore della trasmissione di cronaca nera Quarto Grado, ha puntato tutto su questo trittico al femminile: tre generazioni a confronto, tre donne che più diverse non potrebbero essere. Quello che le accomuna è ciò che manca ai protagonisti dei gialli che siamo abituati a leggere: l’istinto femminile e quella sensibilità speciale che solo le donne possiedono, che guiderà il gruppo verso la risoluzione dei casi.

Nel frattempo la saga delle Miss Marple milanesi è giunta a quota quattro: dopo “La sposa scomparsa” e ” La fioraia del Giambellino” sono stati pubblicati “Non si uccide per amore” e il recentissimo “Ultimo tango all’Ortica”. Li ho letti tutti e quattro, e nessuno mi ha delusa. Poche pagine, una storia che prende alla pancia e tre protagoniste che vorresti avere come amiche.

Nel quartiere milanese del Giambellino, alla periferia della città, in un vecchio casello ferroviario in disuso, abitano le tre donne inventate dalla penna dell’autrice. Iole è una settantenne ex figlia dei fiori che non ha mai smesso di vivere da sessantottina, e che continua ad affermare con fierezza il suo spirito libero e anticonformista: nonostante l’età infatti l’eccentrica signora non si priva di nulla, godendosi la vita esattamente come quando aveva vent ’anni e metteva fiori nei cannoni per dire no alla guerra, sì alle canne e molti più sì all’ amore libero. Iole è la madre di Libera, una quarantaseienne dall’ indole dolce e malinconica alla quale è stato dato un nome che la caratterizza ben poco. Libera ha un passato da libraia ma per vivere si arrangia creando bouquet per spose, particolari e ricercati; è vedova di un poliziotto, Saverio, rimasto ucciso molti anni prima in un agguato di cui si è sempre saputo pochissimo. A dire il vero Libera non ha mai voluto cercare la verità ad ogni costo, accontentandosi di quel poco che a suo tempo emerse dalle indagini: al tempo della tragedia la figlia Vittoria, ormai più che ventenne, era solo una bambina e forse per un senso di protezione estremo nei confronti della figlia e di sé stessa decise che le cose dovevano restare così, con luci e ombre. Poteva accettarlo, doveva farlo. Vittoria crescendo ha seguito le orme del padre ed oggi è una poliziotta innamorata del proprio lavoro che però, a differenza della mamma e soprattutto della nonna, ha un carattere chiuso e riottoso. Non ama ingerenze nella propria vita privata e mal sopporta le iniziative da detective dilettanti della sua famiglia. In questa cornice così particolare si snoda una vicenda complessa, un caso irrisolto da più di trent’anni che improvvisamente torna a chiedere attenzione. In un mese di luglio stranamente piovoso, una donna vestita a lutto ed ingrigita dagli anni bussa alla porta del casello ferroviario in cerca di aiuto. E’ una Rosalia Minardi, una madre ormai anziana che non si rassegna e continua a chiedere giustizia per sua figlia Carmen, scomparsa molti anni prima a causa di una storia con molti punto oscuri e piena di sofferenza. Si è spinta fino al casello sperando di ottenere l’attenzione di Vittoria, ma la ragazza non ne vuole sapere. Considera la signora un’illusa e c’è un caso urgente al quale sta lavorando: non ha tempo da perdere con un “cold case”. Libera però, sensibile ed emotiva, non può non provare una stretta al cuore pensando a cosa ne sarebbe di lei se fosse sua figlia a sparire per sempre in un giorno qualunque. Sarebbe insopportabile. E così Libera, aiutata dall’ eccentrica Iole, intercede con Vittoria in favore di Rosalia e riesce a far riaprire il caso, facendo luce sulle misteriose vicende legate alla scomparsa di Carmen. La sparizione della ragazza dall’ apparente vita irreprensibile e monotona è avvenuta proprio il giorno in cui avrebbe dovuto sposarsi: un macabro regalo per nozze che non si sarebbero mai celebrate.


Come spesso succede nella vita reale, la verità il più delle volte è una cosa semplice e al tempo stesso terribile. La realtà ha molta più immaginazione della fantasia, e spesso è anche più crudele. Fa più male, ed è la peggiore delle bastarde.


Ho intravvisto nella vicenda di Carmen i riflessi di tante donne che in questi ultimi anni hanno riempito le pagine di cronaca nera del nostro Paese: mogli, madri, fidanzate, sorelle che ad un certo punto vengono inghiottite nel nulla lasciando in chi le ha amate solo il ricordo di un ultimo abbraccio frettoloso, dato per abitudine. Non esistono donne scomparse, esistono solo donne uccise. E questo Libera lo sa. Lo sa Libera perchè glielo dice l’ istinto, lo sa Iole perchè ha vissuto molto ed intensamente, ed in fondo lo sa anche Vittoria nonostante la sua indole da poliziotta la tenga ancorata ai fatti più che alle sensazioni.

La realtà è che sua figlia è scomparsa da trent’ anni ed è sicuramente morta. Ma non riusciremo mai a trovare il suo corpo perché chi l’ha uccisa l’ha fatta franca, anche se lei non vuole rassegnarsi.

La storia di fondo è tutt’ altro che leggera, ma Rosa Teruzzi stempera la crudeltà dei fatti con uno stile garbato e con una grande abilità narrativa. Ad aiutarla in questo può essere una battuta sagace di Iole, allergica alla biancheria intima e alla tristezza, oppure uno di quei momenti in cui Libera sceglie con cura i fiori e le erbe per i suoi bouquet speciali, o ancora quando sprigiona il suo estro culinario sfornando ricette vegetariane che mettono appetito e buonumore. Ma è soprattutto l’immagine che l’autrice ci regala di quel casello ferroviario disperso in una Milano sconosciuta ed affascinante, intriso di profumi ed aromi, ad avermi incantata, rincuorata e rinfrancata.

La sposa scomparsa, Rosa Teruzzi – Sonzogno

“Una lontana follia”, di Kate Morton: tra storia e suggestioni gotiche

Dopo aver riposto sullo scaffale l’inquietante “Dracul” di Dacre Stoker, avevo voglia di immergermi in tutt’a ltre atmosfere. Desideravo ambientazioni squisitamente “british”, avevo voglia di perdermi tra le antiche dimore del Kent o del Derbyshire, di giardini inglesi, di storie lontane e suggestive… qualcosa insomma di molto “brontiano”. Ed è arrivata l’ispirazione giusta. Nella mia libreria transitava da tempo nel limbo dei “non-letti” questo libro di Kate Morton, “Una lontana follia
L’ avevo acquistato parecchio tempo fa, immediatamente dopo aver letto “Il giardino dei segreti”, travolta dall’ entusiasmo per questa scrittrice appena scoperta.
Così mi sono avventurata in questo romanzo, certa che avrei trovato quello che cercavo.
 
Sotto questo punto di vista non mi ha affatto delusa anche se alcuni aspetti della trama mi hanno lasciata un po’ perplessa; inoltre vi sono alcuni momenti di immobilità nella storia in cui mi sono un po’ arenata. Nonostante queste piccole falle la lettura è scorsa piacevolmente, perché l’autrice  arricchisce queste soste con descrizioni molto suggestive: il castello e la sua vita all’ interno, nel presente come nel passato, l’aria dolce e malinconica delle estati nel Kent, quando i presagi della guerra imminente erano solo pensieri che si potevano facilmente scacciare osservando la natura nel pieno della sua bellezza.
Kate Morton imbastisce una storia con ambientazioni perfette, che fa rivivere in modo molto efficace grazie alle sue doti di narratrice. Poche pagine e veniamo   subito trasportati  nel Kent, davanti alle mura di un castello ottocentesco. Questo luogo sarà il fulcro di vicende che abbracciano un arco temporale molto vasto, che va dai primi del 1900 fino al 1992, anno in cui tutto comincia. Vicende che poco alla volta si incastreranno tra loro fino a giungere ad una verità tenuta nascosta per cinquanta lunghissimi anni. Sono gli anni della seconda guerra mondiale, quando una Londra sotto attacco cercò rifugio per i propri bambini nelle campagne circostanti, nell’ intento di proteggerli dai massivi bombardamenti tedeschi. Sono gli anni in cui le persone un po’ diverse dagli altri, gli spiriti anticonformisti e troppo sensibili venivano considerati “pazzi” e rinchiusi nei manicomi con molta facilità, storditi da tranquillanti e lasciati soli ad impazzire ancora di più, vittime di paure e traumi che nessuno era in grado di comprendere. Sono gli anni in cui la vita per le donne sole era realmente difficile, perché priva di qualsiasi scelta. Nessuna donna poteva decidere la propria felicità, il matrimonio e la totale devozione alla famiglia di origine erano una consuetudine a cui non ci si poteva sottrarre. Chi non lo faceva, ne pagava le conseguenze.
Tre anziane sorelle abitano ancora quel castello isolato, alimentando da anni le chiacchiere del paese. Le mura che lo circondano, di fronte alle quali la giovane Edith si perde in domande che non trovano risposta, custodiscono la memoria di quello che accadde molti anni prima. L’inquietudine che sente Edith è l’eco della follia di un padre che è ricaduta inesorabile sulle sue figlie, come una colpa da espiare. Ci sono persone che non sono in grado di confrontarsi con la realtà, perché non riescono a venire a patti con il dolore della vita. Forse sono solo anime troppo sensibili, che assorbono come spugne il male di vivere, caricandosi fardelli che a volte nemmeno appartengono loro. Rinchiudono i traumi del passato in un angolo delle loro menti e vivono sospesi, come in un’attesa continua. Ma ogni tanto l’eco della paura ritorna, i pensieri ossessivi diventano voci reali che nessun altro può sentire. Quando la tragedia inevitabilmente arriva, (perché nelle vite di tutti capita qualcosa di tremendo) il passato con i suoi mostri non si accontenta più di un angolo polveroso della mente; mangia il cuore di quelle anime fragili e succhia loro quel po’ di vita a cui erano riuscite faticosamente ad aggrapparsi, trasportandole chissà dove… probabilmente in un luogo in cui i ricordi felici sono la sola realtà con cui dover convivere.
Chi può dire allora che siano loro, i folli?
 
 

9788873394266_0_221_0_75