“A occidente con la notte”, di Beryl Markham: autobiografia di una donna straordinaria

Questo romanzo completa  ciò che io definisco la mia personale “trilogia dell’Africa”. Tutto è cominciato quando qualche tempo fa lessi “Tra cielo e terra” di Paula McLain, sempre edito da Neri Pozza (lo trovate  QUI ) , un romanzo che mi piacque molto e che mi fece incontrare per la prima volta Beryl Markham, donna straordinaria ed autentica pioniera dell’emancipazione femminile. La McLain sviluppa alcuni aspetti della vita di Beryl componendo l’ideale prolungamento dell’autobiografia romanzata della donna, che scrisse “A occidente della notte” per suggellare tra le pagine il suo legame d’amore con il continente Africano. Quando lessi “Tra cielo e Terra” mossi una critica al romanzo, l’unica: non capivo perché l’autrice insistesse così tanto sul privato di Beryl, anche se movimentato ed intrigante, trascurando invece gli aspetti più interessanti della sua vita: fu la prima donna ad ottenere il brevetto come allevatrice di cavalli (aveva solo 17 anni) e la sua passione per il volo la portò a diventare un’aviatrice di professione. Il suo spirito di avventura la spinse persino a tentare un’impresa straordinaria per l’epoca: il volo transoceanico in solitaria, da Londra a New York.

Una volta terminata anche questa lettura ho però compreso: tutto quello che desideravo  sapere su questa donna così all’ avanguardia si trova in questo romanzo, scritto con le sue stesse mani, prima che i ricordi potessero essere cancellati dalla vecchiaia. E’ come se, leggendolo, ci soffermassimo a lungo ad ammirare una fotografia, incapaci di staccare gli occhi dalle immagini: la natura ancora vergine ed inospitale del Kenya, le capanne di fango dei primi coloni, i leoni distesi all’ ombra delle grandi acacie, gli elefanti che si spostano in branco seguendo i corsi d’acqua…La scrittura di Beryl è evocativa, di forte impatto, regala incredibili suggestioni ed è avara di dettagli. Tralascia volutamente tutto quello che con l’Africa non ha niente a che spartire: amori (tanti), amanti (uno su tutti, di cui parlerò più avanti) e mariti (tre) per farci immergere completamente nell’ atmosfera maliarda e sognante di un mondo ormai scomparso, che lei ha avuto il privilegio di dominare come e più di un uomo. La vita di Beryl Markham fu un turbinio di avventure, non si conformò ai dettami dell’epoca, fu spericolata nel lavoro come nella vita privata, assolutamente incapace di coltivare relazioni stabili e durature. La società coloniale dei primi del 1900 non differiva da quella vittoriana, non era altro che la sua proiezione: i pionieri si illusero di poter trasportare il loro bagaglio culturale anche in Kenya, credendo che fosse facile plasmare quella terra selvaggia e assoggettarla  ai loro “giusti” ideali politici, religiosi e sociali. Beryl rimase sempre piuttosto estranea a riguardo, conservando sempre, per tutta la vita, un punto di vista molto diverso da quello che ci si aspettava da una donna occidentale.  Non era  una presa di posizione, per lei era normale considerare l’Africa come una madre terra da rispettare, con i suoi ritmi, i suoi cicli, la sua perfetta simbiosi con le leggi immutabili della natura. Non era facile far convivere dentro di sè questo sentimento così forte di appartenenza con le necessità di vivere comunque in mezzo alla società bianca dell’epoca, che a Nairobi aveva il suo quartier generale: a volte era necessario scendere a qualche compromesso per poter sopravvivere.

Nel suo romanzo Beryl dedica poco tempo a parlare delle persone che popolarono la sua vita, fatta eccezione per alcuni uomini: suo padre, il suo grande amico indigeno Kibi, Tom Backer (l’aviatore inglese che le insegnò ogni cosa sul volo) e il barone Blixen, il marito della celeberrima Karen. Quest’ultimo era una  vera autorità a Nairobi:  appassionato cacciatore, l’aveva ingaggiata più volte per aiutarlo duranti i safari che organizzava per i suoi ricchi amici, affinché sorvolasse le zone circostanti al campo base in cerca di elefanti.  Il sogno dell’ uomo bianco, a quei tempi, erano le magnifiche zanne d’avorio dei mastodonti africani, che possedevano solo i maschi; ma il branco li proteggeva e, animali di straordinaria memoria ed intelligenza quali sono, imparavano a nascondersi in territori impervi, visibili solo dall’ alto. Beryl doveva avvistarli e segnalarli ai cacciatori, scrivendo le  coordinate su fogli di carta che poi lanciava a terra dentro scatole di latta. Ancora una volta Aveva trovato un modo straordinario per guadagnarsi da vivere.
L’idea di utilizzare l’aereo per i safari non fu però del barone Blixen, nè di Beryl Markham. Fu di Denis Finch – Atton, affascinante avventuriero, cacciatore e pioniere che si lasciò sedurre dall’Africa non meno che  dalle donne. Denis era l’amante della baronessa Blixen, ma le cronache mondane dell’epoca vogliono Beryl perdutamente innamorata di lui. Lui che, invece, restò sfuggente e fedele solo a se stesso, e morì libero, così come aveva sempre vissuto. Beryl lo conobbe in aeroporto a Nairobi, perché Finch-Atton era anche  un appassionato aviatore, esattamente come lei. Erano spiriti affini, e questo Beryl ce lo fa intuire attraverso rare parole.

La baronessa Blixen, come è ovvio che sia, non fu mai una sua grande amica: l’una sapeva dell’altra, e viceversa. Erano donne profondamente diverse, e sebbene entrambe abbiano tributato un grande omaggio al continente africano, la natura del loro innamoramento non fu mai la stessa. La Blixen arrivò in Africa in età adulta, in cerca di avventure come tutti i coloni dell’epoca, annoiati dalla loro nobiltà; ma poi il Kenya intrappolò il suo cuore in una presa mortale, che la segnò profondamente. Amò con tutta sè stessa quella natura selvaggia baciata da un clima straordinariamente mite,  l’immensa distesa di colline verdi che circondava Nairobi, i cieli senza crepuscolo, ogni cosa: ma nulla di tutto questo le  appartenne mai veramente. Fu solo un’amante, una donna bianca che sapeva capire, amare e rispettare  i riti antichi che governavano quel mondo; rimase però sempre un’estranea, con il dubbio che l’Africa le restituisse poco di quell’ amore che lei invece  le aveva donato incondizionatamente.
Beryl invece fu sempre parte integrante di quel mondo ancestrale. I suoi ricordi d’infanzia si perdono tra le quattro assi di una capanna di legno e fango tirata su nel cuore del nulla, intorno alla quale suo  padre si faceva largo con il machete, per dare forma al suo sogno. Una fattoria, i cavalli, una piantagione di caffè. La mamma non compare mai nei suoi ricordi, perché l’abbandonò subito dopo il suo arrivo: lei non era fatta per quell’ avventura al confine del mondo. Ciò che la Blixen apprende con gli anni, per Beryl fu una cosa del tutto naturale: parlava le lingue degli indigeni, giocava con loro, partecipava alle loro battute di caccia, alle loro feste. Così Beryl cresce, libera e selvaggia, imparando a cavalcare e a cacciare come un Kikuyo, fiera e rispettata sia dagli uomini del suo tempo che dagli stessi indigeni che l’avevano accolta. Non conosce altre radici che quelle africane, ed a queste  decide di rimanere ancorata anche  quando il sogno di suo padre va in frantumi: rimarrà in Africa, ad allevare cavalli, da sola. Si guadagnerà da vivere così, anche se ha appena 17 anni. Non so se sia stato il coraggio o la disperazione a guidare le scelte di Beryl, l’unica cosa certa è che questa sua intraprendenza le derivava da un amore viscerale per quella terra che l’aveva nutrita, prima che nel corpo, nell’ anima.

“I contendenti della conquista hanno trascurato l’anima vitale dell’Africa stessa, da cui emana la resistenza autentica alla conquista… l’Africa appartiene ad un’era antica e il sangue di molte delle sue genti è altrettanto venerabile e puro… quale razza di nuovi arrivati, spuntata da un secolo recente… può eguagliare in purezza il sangue di un singolo masai murani, il cui retaggio forse affonda le sue radici poco lontano dall’Eden?”

Questo suo spirito indomito e battagliero  la fece  considerare dai posteri come una specie di  femminista “ante litteram”: credo che questa definizione abbia fatto sorridere parecchio Beryl, quando alle soglie della vecchiaia ripercorse la sua vita per dare forma al romanzo. Perché in realtà Beryl non dovette mai combattere contro niente e contro nessuno: la sua presenza all’ interno della società coloniale, fatta prevalentemente da uomini, era accettata di buon grado come fosse una cosa naturale, inevitabile. Ricopriva dei ruoli che nessuno le contestò mai:  allevatrice di cavalli, aviatrice.  Il suo status fu sempre largamente accettato, condiviso e rispettato anche quando prese delle pieghe non proprio edificanti. La Blixen invece non riuscì mai ad elevarsi al di sopra dei pregiudizi che l’epoca vittoriana portò con sè anche al di là dell’Oceano: rimase sempre prigioniera del vecchio retaggio culturale di cui era figlia.
La  diversità  di  queste donne ci ha regalato due libri stupendi, che non dobbiamo mettere in contrapposizione l’uno con l’altro: sarebbe un errore, perché sono perfettamente  complementari. Quello che manca in uno, lo troviamo nell’ altro. Lo stile navigato della Blixen, che fece della scrittura la sua professione, non è paragonabile a quello appassionato e acerbo della Markham. Se si può fare una critica a questo romanzo, sta proprio nello stile spesso elaborato e nella ricerca continua del lirismo, anche quando la circostanza non lo richiede. A volte ho fatto fatica a seguire i suoi voli pindarici: quando si perde nelle descrizioni struggenti dei paesaggi africani  la scrittura diventa un fiume impetuoso di immagini e nomi, come quando si apre dopo tanto tempo la scatola dei ricordi. Ogni oggetto ha la sua storia, e tessere un filo temporale che tenga tutto in ordine cronologico è complicato ed inutile. Così mi sono lasciata trasportare dall’ onda della memoria che riaffiora, senza pormi troppe domande, godendo delle emozioni che la scrittura porta a galla.


E’ sbagliato definire il romanzo un’autobiografia, perché la cronistoria dei fatti, la descrizione dei personaggi e la loro collocazione nella storia sono di secondaria importanza rispetto al corpo della narrazione, che è basata su tutt’ altro. Viene rivelato solo lo stretto necessario a comprendere ciò che l’Africa ha rappresentato per questa donna: l’amore assoluto, il senso di appartenenza, il significato di una vita intera.


A occidente con la notte – Beryl Markham (Neri Pozza)

“La mia Africa”, di Karen Blixen: nel cuore del Kenya coloniale

Scordatevi il film, se l’avete visto. Scordatevi la storia d’amore con Denis Finch-Atton, scordatevi la scena sensualissima in cui Robert Redford lava i capelli a Meryl Streep nel bel mezzo di un safari. Scordatevi la vita intima di questa donna straordinaria e tenete con voi solo le immagini mozzafiato degli altopiani del Ngong: l’unico anello di congiunzione tra il film ed il libro da cui è stato liberamente tratto è la magnificenza del paesaggio. Il film di Sydney Pollack, datato 1985, resta senza dubbio il più grande tributo che Hollywood abbia mai riservato  al Kenya, ma  film e romanzo hanno due cuori molto diversi tra loro.  Il film racconta la vita   della scrittrice Karen Blixen durante l’epoca coloniale in Kenya, ed ha come interpreti Meryl Streep nel ruolo della protagonista e Robert Redford nel ruolo del suo amante Denys Finch-Hatton. Corredato da  una superba fotografia  e da un’intensa colonna sonora, il film fece conoscere questo paese  al pubblico di tutto il mondo, ottenendo un enorme successo e facendo incetta di premi Oscar. Il kolossal ha lasciato però sullo sfondo ciò che per la Blixen fu fondamentale: non già la sua storia d’amore con Finch-Atton, su cui ruota buona parte del film, ma quella che ebbe con il continente africano, autentica e viscerale. Il romanzo è la dichiarazione d’amore  di questa donna verso il paese a cui dedicò la maggior parte della sua vita, è il racconto  del rapporto simbiotico  con una terra che conservava ancora intatta una feroce bellezza, nonostante le ferite inflitte dai governi occidentali. Siamo nei primi anni venti, la carta geografica dell’Africa è  un immenso rattoppo  suddiviso tra le maggiori potenze europee. Inglesi, tedeschi, francesi, belgi, spagnoli, portoghesi, italiani: non esiste più una sola terra indipendente e libera. La Blixen, che per tutto il romanzo si terrà a debita distanza  da considerazioni politiche, compone un vero e proprio inno al continente:  una canzone d’amore  per la sua gente, per la sua natura maestosa, per i suoi conflitti, per quell’ intreccio indissolubile tra vita e morte, tra amare e uccidere, che da sempre domina la vita indigena.
Ora io so una canzone dell’Africa – pensavo – una canzone della giraffa e della luna nuova sdraiata sul dorso, dell’aratro nei campi e dei visi sudati degli uomini che raccoglievano il caffè – ma  sa l’Africa una canzone che parla di me? Vibra nell’ aria della pianura il barlume di un colore chi io ho portato, c’è fra i giochi dei bambini un gioco che abbia il mio nome, proietta la luna piena, sulla ghiaia del viale, un’ombra che mi somiglia, vanno in cerca di me le aquile del Ngong?
E’ questa la domanda che Karen Blixen rivolge ai cieli equatoriali, quando di notte si siede in veranda a studiare il firmamento, immenso e fulgido. Lei ha ascoltato la canzone del Kenya, una sinfonia  di sconfinata  bellezza, dove la vita degli uomini è un tutt’uno con le praterie in cui cacciano i Masai, ultimo baluardo delle popolazioni indigene. Una canzone che parla di  animali  selvaggi e del rituale antico della caccia, che si perde nella notte dei tempi. Un richiamo ancestrale a cui nemmeno lei, che è una donna bianca e aristocratica, riesce a sottrarsi: attraversa le sterminate pianure ai piedi del Ngong per appostarsi ed uccidere i leoni,  predatori impietosi dei suoi animali domestici, usando il fucile come un uomo, e provando lo stesso senso di eccitazione. Organizzava  battute di caccia memorabili, trascorrendo mesi interi nel cuore del Ngong insieme a servitori ed amici che in cambio  ricevevano pelli e carne; ma non erano queste le ricompense a cui ambivano gli uomini bianchi che si avventuravano con lei.  Giusto o sbagliato che fosse, lo facevano soprattutto per provare quel senso appartenenza al  primordiale cerchio della vita. Il leone, terribile predatore, era un nemico fiero e rispettato, e la sua uccisione portava con sè il senso stesso dell’esistenza:
…Quando il sole non era ancora sorto e la luna stava declinando, tornare a casa dopo l’eccidio attraverso la pianura grigia, lasciando nell’ argento dell’erba una stria scura, il muso ancora rosso fino alle orecchie; o durante la siesta nel meriggio, quando si riposava pacificamente in mezzo alla sua famiglia, sull’ erba bassa, all’ ombra delicata e primaverile delle grandi acacie, nel suo giardino d’Africa.
Questa è la canzone che l’Africa canta ai suoi avventori, per legarli indissolubilmente di un amore non ricambiato. Karen Blixen sa che la sua canzone per quelle terre invece non l’ascolterà mai nessuno. Gli scampoli di civiltà che ha portato dalla Danimarca non continueranno a vibrare nel vento, una volta abbandonata la fattoria. Le immense pianure, le montagne maestose,  le placide  colline che circondano la fattoria: a nulla importerà della sua storia di donna bianca, aristocratica pioniera in cerca di avventure. Quel paesaggio incastonato nella terra da migliaia di anni è indifferente di fronte alla sua avanguardistica piantagione di caffè, alle sue conoscenze mediche, alla sua bella casa piena di porcellane raffinate, libri importanti e di grammofoni. Lo sanno bene anche  i Masai, magnifici e fieri guerrieri delle pianure, che odiano la civiltà che lei rappresenta. Seppur rilegati in una riserva confinante con la fattoria, non si sono mai arresi alla schiavitù e alla supremazia degli europei al punto tale che perfino il governo inglese ( che in Kenya era mascherato da “protettorato”) li considerava appartenenti ad una sorta di aristocrazia tra i selvaggi, e a modo suo li rispettava. In caso di disordini non li punivano mai con la prigione, ma con ammende: i Masai  imprigionati si lasciavano morire nel giro di pochi mesi, come animali feriti.
La Blixen, così come il suo amante Finch-Atton, ebbero sempre un rapporto speciale con le popolazioni indigene, per cui nutrivano un profondo rispetto. Condivise la sua vita alla fattoria con i Kikuyu e i Somali, altre popolazioni locali, che a differenza dei Masai riuscirono ad adattarsi al cambiamento ed a convivere pacificamente con i coloni. Lei amava sinceramente  il  suo‘servo’-amico FarahKamante, il suo cuoco. Quando la Blixen arrivò in Kenya, Kamante era un  bambino ammalato ed affetto da gravi malformazioni, un  pastore di capre senza futuro destinato a morire prima dei dieci anni. Karen lo  salvò da morte certa, affidandolo alle cure dell’ospedale di Nairobi. Lo andò a trovare spesso, fino a quando non guarì del tutto. E Kamante la ricambiò di quell’ affetto scegliendo  di restare nella sua casa, al suo servizio, fino a quando non fu costretta a vendere la fattoria.
La Blixen scrive questo romanzo una volta tornata in Europa, in seguito alla crisi economica che fece crollare il costo del caffè e che rese improduttiva la sua piantagione. Cercò di salvarla ad ogni costo, contrattando con banche e governo fino all’ultimo, ma alla fine si arrese. Riuscì però  a garantire la proprietà di  un piccolo appezzamento di terra ai suoi amati Kikuyu: fu la sua ultima battaglia. Quel mondo così come l’aveva conosciuto stava scomparendo, portandosi via la scommessa della sua vita. Non solo la fattoria spegneva le luci su quelle pianure in mezzo al nulla, ma anche  la morte  si prese il suo grande amico Denis Finch-Hatton. Precipitò con il suo aereo mentre sorvolava l’altopiano, durante  gli ultimi giorni di permanenza in Kenya della baronessa. Come l’avverarsi di una  premonizione, come il compiersi di un destino ineluttabile. I kikuyu non temevano la morte, perché si sentivano parte di essa. Si consideravano parte di un grande disegno ed accettavano il loro destino senza cercare di plasmarlo. Come la terra, come gli animali. Denis Finch-Hatton visse e morì esattamente come uno di loro, molto più della Blixen. Il suo retaggio di donna bianca  le creava paure e pensieri che sapevano sciogliersi all’ ombra delle grandi acacie, durante i safari,  o durante le notti passate insonni ad osservare il firmamento. Ma non fu mai come loro.

Nel suo romanzo racconta un mondo  che non c’è più, con le sue regole imperfette,  senza mai giudicare. Lei faceva parte di quel sistema, il colonialismo era la realtà storica in cui viveva. Leggendo il suo amore per l’Africa possiamo tuttavia comprendere molte cose che per volontà, e non per ipocrisia, ha taciuto.  Scelse di non perdersi in  inutili disquisizioni socio-politiche. Non si esporrà mai, non affermerà mai di essere in disaccordo, non muoverà mai critiche nei confronti del governo inglese. Semplicemente, si limita a raccontare quella realtà vissuta dalla parte comoda ed ingiusta della storia.


Fin dalle prime righe si intuisce quanto la donna fosse consapevole di essere in realtà solo un’ospite ricca in un paese che apparteneva ad altri popoli. Gli indigeni frequentavano la sua casa, e lo facevano liberamente. Ospitava le loro danze  e spesso accendeva il grammofono per loro, facendo ascoltare Mozart e Beethoven agli squatters che si affacciavano curiosi quando la musica si spandeva intorno alla fattoria. Serviva ai suoi ospiti vini pregiati in calici di cristallo, insegnava a Kamanke a cucinare raffinati piatti europei, ma poi si mescolava alla vita nelle capanne Kikuyu per aiutare i malati, in mezzo alla sporcizia, al sangue e alla morte con la familiarità di chi ha capito quanto poco importi l’aristocrazia della vecchia europa in quelle terre.
Questo è uno di quei libri che non si dimentica. Rimarrà scolpito nella mia memoria. E’ stato come compiere un viaggio attraverso il tempo e lo spazio e mi ha riempito gli occhi di una bellezza rara . Ogni volta che vorrò immaginare l’Africa  rileggerò questa recensione, che scrivo essenzialmente per me stessa e per tutti coloro che vogliono dalla lettura qualcosa di più . Induce alla riflessione e alla lentezza, perché a volte è necessario soffermarsi un poco sulle pagine per avere il tempo  di vedere, di sentire, di comprendere. Ma si legge d’un fiato, trasportati dalla canzone dell’Africa, che ancora risuona senza sosta sugli altopiani del Ngong.

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