“Memorie di una Geisha”, di Arthur Golden: l’arte e la seduzione nel Giappone del ‘900

Per molto tempo ho desiderato leggere questo romanzo, incuriosita sia dalla particolarità dell’argomento trattato sia dai commenti entusiastici che lo hanno accompagnato da quando è stato pubblicato: ne sono rimasta totalmente affascinata. Arthur Golden attraverso la straordinaria vita di Sayuri svela a noi occidentali il mondo delle Geishe in tutta la sua straziante bellezza, una realtà troppo distante dalla nostra cultura per essere compresa appieno, eppure così ammaliante da lasciare senza fiato. Con il suo stile intimo e raffinato l’autore ci conduce fin dalle prime pagine in un mondo così lontano nello spazio e nel tempo da sembrare quasi una favola, nonostante la brutalità degli eventi che scandiscono la vita della protagonista. Tutto il romanzo è costantemente pervaso da un’ aura di magia che stempera con delicatezza ogni dolore, regalandoci un’ esperienza di lettura indimenticabile.

Quando facciamo la sua conoscenza Sayuri (allora Chiyo) è una bambina di appena nove anni che vive con la sorella maggiore e i genitori in un piccolo villaggio di pescatori; quando la madre, gravemente malata, muore lasciando la famiglia nell’ indigenza più assoluta, il padre decide di vendere le bambine ad un trafficante di prostitute. Giunte dinanzi alla vecchia tenutaria di un bordello, nel quartiere a luci rosse di Kyoto, le due sorelle vengono divise. Sayuri, decisamente più attraente della sorella già assegnata ad un comune postribolo, viene ritenuta adatta per essere affidata alla “Casa delle geishe” ed iniziare così un percorso differente, in cui il piacere non era brutalizzato e soprattutto non era un obbligo. Nel quartiere di Gion l’intrattenimento sessuale sfumava in una più raffinata compagnia che veniva offerta agli uomini, improntata sull’ espressione artistica e sulla conversazione. All’inizio, in cambio di vitto e alloggio, lavora come domestica, ma dopo i primi durissimi anni inizierà a frequentare una scuola in cui imparerà l’arte della danza, della musica e di tutto ciò che si poteva offrire all’universo maschile. Sayuri però ha un’ arma in più rispetto alle altre ragazze della casa, che la faranno emergere da quel contesto pieno di invidie, cattiverie e solitudine estrema: il colore degli occhi, un azzurro fuori dal comune dal quale gli uomini orientali sono attratti irresistibilmente, ed una grazia innata che aveva solo bisogno di affinarsi per sbocciare.

Essere una Geisha era molto di più di una raffinata compagnia, di un elaborato Kimono di seta o di un viso di porcellana perfettamente truccato: dietro quell’apparenza quasi divina c’erano anni di sacrifici estremi, di lacrime, di silenzi, di obbedienza, di privazioni sentimentali di qualsiasi genere. Sayuri proverà più volte a sfuggire al suo destino, fino a quando non comprende che per ottenere ciò che più desidera al mondo è necessario assecondare quella vita: una scelta sofferta da cui non farà più ritorno e che, grazie alla forza di volontà e alla dura disciplina, la porterà a diventare la geisha più famosa e desiderata del Giappone. ”Non diventiamo geishe perché desideriamo una vita felice, ma perché non abbiamo altra scelta”. Questo fu il primo e il più importante insegnamento che la grande Geisha Mamhea impartì ad una Sayuri ancora bambina, rivelando in una sola frase l’essenza del loro mondo. Un romanzo avvincente e toccante, un’ intenso ed impietoso ritratto della cultura giapponese del novecento che, dopo l’avvento della seconda guerra mondiale, non sopravviverà alle incursioni del mondo occidentale, sgretolandosi per sempre.

Lei si dipinge il viso per nasconder il viso. I suoi occhi sono acqua profonda. Non è per una geisha desiderare. Non è per una geisha provare sentimenti. La geisha è un’artista del mondo, che fluttua, danza, canta, vi intrattiene. Tutto quello che volete. Il resto è ombra. Il resto è silenzio.

TE LO CONSIGLIO SE:

✔️Ti affascina la cultura orientale

✔️ Ami i romanzi storici

✔️Desideri compiere un viaggio indimenticabile

Libri in pillole: “Il giardino delle bestie” di Erik Larson

“Il giardino delle bestie” è un riuscitissimo amalgama tra cronaca e romanzo storico, anche se non ha la pesantezza e la freddezza di questi generi. Il protagonista, William Dodd, è infatti realmente esistito e Larson racconta la sua esperienza di ambasciatore americano nella culla del terzo Reich. Tutto si svolge nell’anno 1934, periodo cruciale che cambiò per sempre il volto di Berlino e della Germania intera: è questo l’anno della rivoluzione dei giovani nazisti e dell’ascesa al potere di Hitler. L’originalità del romanzo è il punto di vista con cui questo enorme cambiamento viene raccontato, che è quello di uno uomo politico straniero che con la sua famiglia si trasferisce in Germania per intraprendere la carriera diplomatica. Dodds Arriva a Berlino con l’entusiasmo di chi, come lui, conobbe la Germania agli albori del 1900, quando studiò a Lipsia e tutto era un brulicare di vita, di cultura, di benessere: ben presto però si rende conto di quanto il suo ricordo fosse fuorviante e non più aderente ad una realtà profondamente trasformata. Dodds era un intellettuale del partito democratico, sostenitore di Franklin D. Roosevelt eletto alla Casa Bianca nel novembre 1932; era indubbiamente attratto dalla vita pubblica ma non possedeva le finezze di una mente politica, e l’unico motivo per il quale fu scelto da Roosevelt per rivestire l’importante ruolo diplomatico era la sua familiarità con il mondo tedesco, seppur limitata al solo aspetto accademico. Il neo ambasciatore era un uomo integerrimo distante anni luce dai giochi di potere della politica, fermamente convinto che il suo dovere più importante fosse portare come esempio i suoi principi egualitari e l’ideale jeffersoniano di democrazia liberale. A causa di questa sua impostazione, più da docente (qual in effetti era) che da scaltro rappresentante USA in terra straniera, ben presto verrà giudicato un inetto dai suoi connazionali e diventerà una facile pedina degli uomini di Hitler. Pagina dopo pagina, giorno dopo giorno vedremo lui e la sua famiglia scivolare in un terribile incubo da cui ne usciranno tutti irrimediabilmente distrutti. Dodds con la sua ingenuità e la figlia Martha con la sua spudoratezza sentimentale vivono a loro modo l’ orrida ascesa nazista, di cui si renderanno pienamente conto solo alla fine, quando saranno costretti a spalancare increduli gli occhi di fronte al primo tremendo atto di follia: la Grande Purga compiuta da Hitler contro i presunti oppositori del regime, il 30 giugno del 1934, passata alla storia come “la notte dei lunghi coltelli”.

Libri in pillole: “Un albero cresce a Brooklyn” di Betty Smith

Ambientato nel quartiere popolare di Brooklyn nei primi anni del 1900, il romanzo ha per protagonista Francie Nolan e la sua famiglia di immigrati irlandesi, costretta a combattere ogni giorno contro le durissime condizioni di vita dovute alla crisi economica in cui versa l’intero paese, e la conseguente mancanza di lavoro. La madre, una donna dolce ma determinata, per sbarcare il lunario lava i pavimenti dei palazzi vicini; il papà invece, che Francie adora, ha problemi di alcolismo e nonostante ami molto la sua famiglia purtroppo non riesce a contribuire concretamente al suo sostentamento. Nel cortile della vecchia e consunta palizzata in cui abitano i Nolan troneggia un albero dalla folta e rigogliosa chioma che in quell’estate assolata del 1912, anno in cui comincia la nostra storia, offre ombra e riparo alla famiglia e riempie di meraviglia i curiosi occhi di Francie. Sono in molti a chiamarlo “l’Albero del Paradiso” perché è l’unica pianta che riesce a germogliare tra il cemento dei quartieri popolari, come un dono di Dio in mezzo alle disgrazie degli uomini. Francie Nolan è come quell’ albero, che resiste alla mancanza di luce ed acqua, che invece di morire di stenti sembra combattere una lotta disperata per continuare a protendere i suoi rami verso il cielo. Francie Nolan è la povertà vista attraverso gli occhi di una ragazzina che usa l’immaginazione, il suo spirito di osservazione e l’amore sconfinato per i libri per riscattarsi da un mondo che sembra non avere un posto per lei. La sua determinazione e il suo desiderio infinito di imparare, dai libri come dalla vita, la porteranno in alto, come fosse il prolungamento di quell’albero ostinato che cresce solitario tra il cemento del suo quartiere.

Nonostante la vita dei Nolan sia oggettivamente amara e terribilmente difficile noi lettori non proveremo mai sentimenti di commiserazione o compassione, perché tutti gli accadimenti, le lotte disperate e le privazioni che subiscono sono filtrate dall’intensa gioia di vivere di Francie e dall’amore della sua disgregata famiglia.

“Nominato dalla New York Public Library come uno dei grandi libri del secolo appena trascorso, “Un albero cresce a Brooklyn” è una magnifica storia di miseria e riscatto, di sofferenza ed emancipazione di bruciante attualità.”

Buona lettura!

Libri in pillole: “Suite francese” di Irène Némirovsky

Irene Némirovsky è una delle mie scrittrici preferite, la mia comfort zone per eccellenza. Diversi anni fa la casa editrice Adelphi pubblicò per l’Italia la sua opera incompiuta, SUITE FRANCESE, che riscosse un enorme successo in tutto il mondo (è stato tradotto in 38 lingue) e che fece conoscere l’autrice al grande pubblico, me compresa. Sono stata catturata subito dalla sua prosa, innamorandomi all’istante della suo stile di scrittura essenziale, intimo, profondo. Nell’idea originaria dell’ autrice il romanzo avrebbe dovuto comporsi di 5 parti, una specie di “poema sinfonico”, ma purtroppo la Némirovsky fu arrestata durante la sua stesura e deportata ad Auschwitz. Nonostante si fosse recentemente convertita al cattolicesimo, per le leggi razziali della Francia era considerata ancora un’ebrea, e come tale subì le conseguenze della Shoah.

Era il luglio del 1942. Morì l’anno dopo di tifo, lasciando Suite Francese neppure a metà. Nei suoi appunti, poco prima di essere arrestata, scrive: 

Il libro in sé deve dare l’impressione di essere semplicemente un episodio… com’è in realtà la nostra epoca, e indubbiamente tutte le epoche. La forma, dunque… ma dovrei dire piuttosto il ritmo: il ritmo in senso cinematografico… collegamenti delle parti fra loro. L’importante sono i rapporti fra le diverse parti dell’opera. Se conoscessi meglio la musica, credo che questo potrebbe aiutarmi. In mancanza della musica, quello che al cinema si chiama ritmo. Insomma, preoccuparsi da una parte della varietà e dall’altra dell’armonia. Nel cinema un film deve avere una unità, un tono, uno stile”.

Grazie a questa sua struttura particolare, il romanzo è sopravvissuto a sé stesso: nonostante si componga solo di due delle cinque parti previste, non sembra affatto privo del suo centro. Il risultato è un romanzo corale di rara eleganza, in cui le piccole storie private dei protagonisti si mescolano con i grandi avvenimenti storici. La seconda guerra mondiale con il suo incomprensibile orrore è un’ ombra minacciosa che opprime continuamente, ma è sempre stemperato dalla bellezza di ciò che è vivo, e dalla purezza dei sentimenti che, nonostante tutto, nascono e si nutrono tra meraviglia e turbamento. I protagonisti della Némirovsky sono persone comuni, costrette ad affrontare la tragicità dei loro tempi ciascuno col proprio bagaglio di forza e di miseria, di speranza e di afflizione. La realtà ci viene raccontata senza risparmiarci nulla, togliendo quel velo di ipocrisia e di perbenismo con cui spesso vengono “abbellite” le storie di vita vissuta: a noi lettori le restituisce ripulite e vere e ce le fa amare così come sono, imperfette e difettose.

Chissà come sarebbe proseguito questo progetto se la Némirovsky avesse avuto la possibilità di terminarlo, chissà se la bellezza e la dolcezza della prima parte avrebbero perso terreno nel proseguimento della “sinfonia”, o se invece avrebbero continuato a fare da contraltare all’oscenità della guerra, come la colonna sonora di un film muto.

Mrs England, di Stacey Halls: il gotico in gran rispolvero

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in questo romanzo la protagonista, nonché l’io narrante, è Ruby May, una giovane bambinaia diplomata al prestigioso Norland Institute di Londra che, rimasta senza lavoro dopo aver rifiutato di trasferirsi in America al seguito della famiglia per cui lavorava, accetta senza indugio un nuovo incarico presso la famiglia England, nello Yorkshire. Ruby sa per esperienza che nessuna famiglia è perfetta, ma gli England sembrano incarnare magnificamente l’ideale edoardiano: un marito solido ed affasciante proprietario di una filanda, una moglie e una madre discreta, quattro bambini adorabili, una villa di campagna elegante con una nursery dislocata dal resto della casa. Ruby, appena arrivata col treno da Londra, pensa di aver trovato il luogo ideale in cui esercitare il proprio lavoro, anche se l’immagine della signora England che la osserva sulla soglia di casa le trasmette un’ inquietudine impossibile da decifrare. Non è solo la signora England a trasmettere sensazioni angoscianti, anche la lussuosa dimora che a prima vista sembrava sbucata fuori da una fiaba comincia a rivelarsi per quello che è, ovvero un guscio freddo, vuoto, immobile come una tomba. Giorno dopo giorno Ruby si troverà coinvolta nelle le pieghe di un matrimonio infelice, doloroso, in cui Mr England, uomo d’affari intraprendente e sicuro di sè, sembra incarnare la figura del marito e del padre esemplare, che offre protezione e cura alla prole e ad una moglie psicologicamente instabile. La famiglia England però non è la sola a custodire misteri e segreti inconfessabili : anche Ruby infatti serba nel cuore ricordi dolorosi che non ha mai rivelato a nessuno, dai quali fugge continuamente. In un crescendo di tensione e inquietudine, accompagnati dalle suggestioni di paesaggi brontiani magnificamente descritti, scardineremo il perbenismo di facciata degli England scoprendone miserie e debolezze, ed aiuteremo Ruby a liberarsi dall’ombra del passato.

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Un po’ “Cime tempestose”, un po’ “Rebecca la prima moglie”, quest’ultimo romanzo di Stacey Halls strizza l’occhio al romanzo gotico attingendo a piene mani dalle atmosfere della brughiera inglese di inizio 1900, foriera di suggestioni ed inquietudini come nella migliore tradizione di genere. L ‘autrice ha voluto rendere omaggio a capisaldi della letteratura di tutti i tempi cercando di ridare lustro ad un genere che in realtà non è mai sparito del tutto, anche se si colloca in un momento specifico della storia della narrativa. In questo contesto tipicamente “brontiano” la storia della famiglia England offre a noi lettori un accurato affresco della società edoardiana d’inizio secolo, un mondo ancora fortemente ancorato al passato in cui le differenze di classe erano nette ed invalicabili , così come i ruoli all’interno della famiglia.

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il Norland College, istituto in cui si è diplomata Ruby, esiste realmente ed è una prestigiosa istituzione fondata da Emily Ward a Londra nel 1892. Nel romanzo si parla molto della scuola, che ancora oggi sforna tra le migliori tate in circolazione, alcune delle quali sono state addirittura al servizio dei Royal babies. I particolari che emergono nel romanzo sono frutto di ricostruzioni molto fedeli di quello che rappresentava allora l’istituto, a cominciare dalla sua organizzazione interna fino ad arrivare agli aspetti più formali. Più volte durante il racconto la preparazione di Ruby si è rivelata fondamentale per aiutare i bambini nei momenti di difficoltà ancor più dei medici di famiglia, vecchi tromboni che guardavano queste giovani intraprendenti dall’alto in basso della loro supponenza. Un altro frammento della società di quei tempi che, disperatamente aggrappata alle sue tradizioni e ai suoi privilegi, è costretta a confrontarsi suo malgrado con le prime incursioni di modernità.

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 TE LO CONSIGLIO SE:

  • Cerchi una lettura che ti incolli alle pagine
  • Ami la brughiera e la vita bucolica
  • Ti diverti a dipanare i misteri

LEGENDA: 

📖= Uno sguardo alla trama (ma senza spoiler)

🔍= Il focus

💡= l’idea in più

La vera storia del pirata Long John Silver, di Eric Larsson: “quindici uomini, quindici uomini sulla cassa del morto!”

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Quindici uomini, quindici uomini sulla cassa del morto, yo-ho-ho e una bottiglia di rum!

Chi non si ricorda di questa canzoncina alzi la mano!

Nella finzione narrativa di Larsson è lo stesso Long John Silver, il temibile pirata con una gamba sola de “l’Isola del Tesoro” (R. Louis Stevenson, 1883) a scrivere in prima persona le sue memorie durante i suoi ultimi giorni di vita. E’ il 1792 e Silver è un uomo ormai vecchio che da tempo vive ritirato sulle coste del Madagascar. Stevenson alla fine del suo romanzo lo fece letteralmente svanire nel nulla: durante la traversata di ritorno in direzione dell’Inghilterra riesce a fuggire con una parte del tesoro dall’Hispaniola, a bordo di un canotto,  per paura di essere arrestato e fatto impiccare una volta rientrato in patria. Larsson si aggancia a questo finale aperto per imbastire una storia mozzafiato che è al contempo memoria e avventura, che racconta il mondo dei pirati spogliandolo da quella patina di fascinazione sempre presente nell’immaginario collettivo. Silver racconta senza fare sconti a nessuno, nemmeno a se stesso, le efferatezze compiute e le ingiustizie contro le quali la gente come lui combatteva, ligia soltanto al proprio codice morale, denunciando al tempo stesso anche tutte le nefandezze che facevano capo al commercio ufficiale: il contrabbando, la tratta degli schiavi, gli accordi sottobanco con i governi, le condizioni atroci in cui versavano gli equipaggi e il nonnismo dei capitani. Per tutti questi motivi lo possiamo certamente considerare anche un romanzo storico di ottima fattura, che offre una ricostruzione precisa e avvincente di quello che fu il periodo coloniale in Europa.

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Sono rimasta incantata dalla bravura di Larsson, che riesce a calarsi perfettamente nei panni del pirata cattivo rielaborandone il personaggio, o meglio, arricchendo le sfumature della sua complessa personalità pur mantenendo intatto quello che lo ha reso un antieroe sui generis: la sua sofisticata ambiguità, che da ragazzi spesso ci ha fatto patteggiare per lui . Dai, confessiamolo: a chi non stava simpatico, in fondo, Long John Silver? L’introspezione psicologica che nel romanzo di Stevenson era appena accennata qui viene eviscerata e mostrata fin dalle sue origini e ne seguiamo l’evoluzione fino all’ultimo, intenso capitolo, che mette la parola fine alla sua incredibile esistenza. Larsson raffigura il pirata come l’emblema della libertà assoluta, fisica e mentale, perché il solo significato che per lui ha la vita è l’attaccamento alla vita stessa e l’intenso desiderio di godere di ogni giorno come se fosse l’ultimo, guidato da un senso di giustizia esclusivo ed una morale propria che nulla hanno a che vedere con le leggi degli uomini, frutto della loro natura maligna e fatte per essere raggirate.

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Alcune volte, lo ammetto, l’autore si incaglia un po’ nelle descrizioni e nei lirismi, e in quelle pagine spesso mi sono arenata esattamente come farebbe un vascello pirata sulla spiaggia dei Caraibi…ma poi ho capito che dovevo godermi la sosta e basta. Perché Larsson cambia registro dall’avventura alla poesia con una rapidità che spiazza, pertanto anche i ritmi di lettura inevitabilmente seguono questa altalena stilistica. L’abilità con cui l’autore trasforma Long John Silver da anti eroe fanciullesco per eccellenza ad eroe per chi ragazzo non lo è più da un po’ è davvero sorprendente: non possiamo che restare ammirati di fronte all’ironia filosofica con cui il pirata affronta le disgrazie della vita, e da quel suo piglio indomito e fiero che non gli consente di scendere mai a patti con il buonsenso.

Perché peggio di finire sulla forca c’è solo vivere come se si fosse già morti a un pezzo.

Che io sia dannata, se non è così!

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TE LO CONSIGLIO SE:

  • Subisci il fascino dei personaggi ambigui;
  • Non vuoi dimenticarti del tuo bambino interiore;
  • Non hai mai letto “L’Isola del Tesoro” : cosa aspetti a conoscere Long John Silver?

“Cassandra”, di Christa Wolf : dentro al mito

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Questa non è la biografia romanzata di Cassandra, la mitologica profetessa inascoltata figlia di Ecuba e del re di Troia Priamo, bensì un diario scritto in prima persona sottoforma di flusso di coscienza. La Wolf non ci mette di fronte ad una trama, non esiste una linearità nel racconto ed i protagonisti che ruotano intorno alla vita della profetessa sono chiamati e richiamati a seconda di come  irrompono nei pensieri della donna. Cassandra racconta la sua vita attraverso un flusso inarrestabile di ricordi, immagini, volti, parole e sensazioni. E’ come se  fosse in preda ad un delirio pre-morte, salta da un episodio all’altro della sua vita con continui flash back e flash forward, senza seguire un filo conduttore logico;  le sue riflessioni vengono trascritte in questo monologo/confessione così come compaiono nella sua mente. Christa Wolf racconta di come trasse l’ispirazione per comporre questo romanzo durante un viaggio con il marito a Micene: quando si trovò al varco della Porta dei Leoni, la monumentale entrata della rocca della città, fu colta da una sensazione molto forte di immedesimazione con le vicende dell’eroina e cominciò ad avvertire la necessità di darle voce, come se fosse piombata in uno stato di trance ipnotico. Fu proprio davanti alla porta dei leoni infatti che Cassandra  viene condotta prigioniera dal vincitore Agamennone, in attesa di essere giustiziata dalla moglie Clitennestra. La guerra di Troia è finita, e Cassandra attende rinchiusa nella fortezza di Micene che si compia il suo destino. La morte è vicina, talmente vicina che i ricordi cominciano ad affacciarsi nella sua mente come un fiume in piena:  le immagini della fanciullezza, dell’adolescenza, l’amore per Enea, l’amicizia con la sua ancella Marpessa, i lunghi e rovinosi anni della  guerra di Troia contro i greci capeggiati da Achille, orribile bestia assetata di sangue che nulla aveva di eroico a suoi occhi . Arrivano poi i dolci ricordi legati alle donne che  presso le acque del fiume Scamandro diedero vita ad una comunità femminile che accoglie Cassandra esule dal palazzo reale, un luogo di pace in cui le dissidenti politiche e sociali si dedicano al culto di Cibele, in armonia con la natura. Ed infine, a compimento di un destino che Cassandra aveva già profetizzato a suo padre, le immagini richiamano alla mente l’arrivo delle Amazzoni comandate dalla regina  Pentesilea, donna coraggiosa e bellissima,  arruolata da Priamo in seguito alla caduta in battaglia del figlio Ettore. Anch’essa verrà uccisa da Achille, quando ormai la guerra sta volgendo al termine.

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Di Cassandra profetessa si parla pochissimo; l’attenzione è rivolta alla donna più che al mito, sacerdotessa del dio Apollo e figlia prediletta del re Priamo. Una donna che, come apprendiamo durante la lettura, compie una profonda evoluzione interiore che la allontanerà drasticamente da suo padre e dalle stanze del potere che ha sempre abitato. Apprenderà sconvolta che  il ratto della bella Elena non è altro che una simulazione: le vere ragioni della guerra sono politiche, ed hanno come unico scopo il controllo dell’Ellesponto. Pienamente consapevole dell’assurdità di questo gioco di potere si rifiuterà di sostenere suo padre  nella folle guerra contro i Greci, e per questo verrà allontanata come una reietta. Quella che fu la figlia tanto amata da Priamo si stringerà quindi attorno al saggio Anchise, il padre di Enea, l’uomo che, amato da Venere, accolse dentro di sé l’antico sapere femminile e che insegnerà a Cassandra un altro modo di vivere, più autentico ed umano, in cui il suo essere donna e profetessa acquisteranno finalmente un significato ed un valore profondamente rispettato.

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Il romanzo è intriso delle tematiche socio-politiche care alla Wolf, ma bisogna conoscere quest’importante intellettuale moderna per comprenderle e per estrapolarle dal contesto. Qualcosa si intuisce, ma non è abbastanza. Forse un giorno riprenderò in mano questo romanzo, cercando di addentrarmi nella lettura con lo spirito giusto e soprattutto non farmi distrarre dai continui salti temporali  e dallo stile ampolloso che non rende agile la lettura. E’ stata una lettura molto difficile, mi ha portato via diverso tempo nonostante la brevità del testo e non sono affatto sicura di aver reso giustizia ad un romanzo così impegnativo, riservato probabilmente ad un  pubblico più esclusivo. Cosa che, naturalmente, io non sono. Io sono solo una lettrice.

🔖TE LO CONSIGLIO SE:

  • Sei affascinato dalle figure mitologiche;
  • Il “flusso di coscienza” non ti scoraggia;
  • Ogni tanto vuoi sfidare te stesso con letture impegnative

“Le ragazze della libreria Bloomsbury “di Natalie Jenner : un tuffo nella Londra post bellica

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Natalie Jenner, dopo lo straordinario successo del suo romanzo d’esordio “Jane Austen Society”, pubblicato nel 2020, ci catapulta nuovamente nelle atmosfere inglesi dell’immediato dopo guerra raccontando attraverso il microcosmo della libreria Bloomsbury la storia delle commesse che qui lavorano: Vivien, Grace e Evie. Le tre donne sono molto diverse tra loro per carattere e background familiare, eppure le accomuna  una quotidianità molto simile: tutte tre devono lottare ogni giorno contro il radicato maschilismo che detta le regole non solo all’interno della libreria, gestita da un direttore vecchio stile imperturbabile al cambiamento, ma in ogni ambito della loro vita privata. Vivien ha perso il futuro marito in guerra e sogna di diventare una scrittrice; Grace si barcamena tra il lavoro di contabile in libreria, la cura delle famiglia e il peso di un marito frustrato e nullafacente; infine la neo assunta Evie,  tra le prime donne laureate di Cambridge, approda alla libreria come archivista dopo aver visto sfumare la sua carriera accademica in favore di un collega decisamente meno brillante di lei, ma privilegiato in quanto maschio. Saranno proprio la caparbietà e l’ intuizione di Evie le chiavi di volta che proietteranno la libreria Bloomsbury e  tutte le sue protagoniste verso  un cambiamento epocale ed un finale inaspettato (e felice).

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Questo romanzo è un vero e proprio inno al sodalizio femminile, un legame che se costruito e sfruttato in modo intelligente può trasformarsi nel più prezioso degli alleati. Sfidare preconcetti e anacronistiche convenzioni sociali richiede   coraggio, determinazione e anche molta incoscienza, per questo spesso restiamo all’angolo, perché non ci sentiamo abbastanza equipaggiate per affrontare tutte le difficoltà che comporta mettersi contro al pensiero dominante. Avventurarci in questo terreno così ostile con la consapevolezza di avere intorno una solida rete di protezione, invece, può fare davvero la differenza. E cambiare tutto.

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Tanti i riferimenti culturali (lo stesso titolo prende spunto dal “Circolo Bloomsbury” tra i cui membri spiccavano le sorelle Vanessa Bell e Virgina Woolf) e diversi gli omaggi che la Jenner offre a noi lettori, uno su tutti il cammeo dedicato a Daphne Du Maurier, che le protagoniste incontrano durante uno degli appuntamenti letterari organizzati dalla libreria. Fresca del successo di “Mia cugina Rachele” (pubblicato nel 1951), con le sue tematiche di rottura fu una delle prime autrici a raccontare la colpevolezza maschile, la dipendenza economica delle donne dagli uomini, la paura dell’autonomia femminile: non poteva che toccarle un posto d’onore.

🔖 TE LO CONSIGLIO SE:

– Le atmosfere squisitamente british ti mandano in solluchero

– Gli anni del boom economico sono la tua comfort era

– Ti identifichi nelle storie di chi si salva da solo in barba alle avversità

Buona lettura!

Tre libri da leggere in autunno

(Tempo di lettura: 5 minuti)

Per scivolare pigramente tra le braccia dell’autunno appena arrivato, non c’è niente di meglio che abbandonarsi alla lettura. Le ombre della sera si allungano, le domeniche pomeriggio si fanno quiete e silenziose, avvolte da una soffusa luce dorata; agosto, con la sua sfacciataggine, lo abbiamo accomodato ormai fuori dalla porta. E’ ora di mettere su una tazza di the, di accoccolarci in poltrona e sprofondare in una storia che ci rapirà letteralmente l’anima.

1. L’OMBRA DEL VENTO di Carlos Ruis Zafròn

Pubblicato per la prima volta nel 2004, è il tipico esempio di un best seller che ce l’ha fatta, sopravvivendo a se stesso. Nel giro di qualche anno è diventato un vero e proprio classico della narrativa contemporanea tanto da guadagnarsi, per il suo quindicesimo anniversario, una nuova edizione riccamente corredata dalle suggestive immagini del fotografo Francesc Catalá-Roca, dedicate alla Barcellona post bellica in cui il romanzo è ambientato. Zafron, scomparso prematuramente nel 2020, ha imbastito una trama piuttosto originale che strizza l’occhio ad una molteplicità di generi: romanzo storico, mistery, giallo classico con spunti thrilleristici e notevoli incursioni nel gotico. Il tutto condito con elementi sovrannaturali che faranno storcere il naso alle menti più razionali e manderanno invece in solluchero tutte le altre. Ambientato a Barcellona del 1946, la storia ha come protagonista un ragazzino di undici anni, Daniel, il cui padre, proprietario di un piccolo negozio di libri usati, lo inizierà all’amore per la lettura e lo condurrà nei meandri di un mistero che si annida tra le pagine di alcuni vecchi testi. Durante la lettura attraverseremo insieme a Daniel i vicoli della città vecchia alla scoperta di antichi libri dimenticati ed orribili segreti, immersi in atmosfere plumbee e suggestive che renderanno la lettura di questo romanzo la compagnia perfetta per i nostri pomeriggi ottobrini.

2. I FALO’ DELL’AUTUNNO di Irène Nemirovski

La scrittura di Irene Nemirovski dispensa sempre momenti di pura gioia letteraria. Delicata e profonda, oltre che stilisticamente perfetta, la sua prosa evoca istanti di rara bellezza ed intensità, lasciandoci immersi in nostalgiche visioni, come se stessimo osservando rapiti un quadro impressionista. E’ davvero complicato riassumere in poche righe i motivi per cui vale la pena leggere questo romanzo, anche se una narrazione di così alto livello da sola potrebbe bastare come unica ragione. I protagonisti sono molteplici e differenti piani temporali scandiscono quella che è a tutti gli effetti un’opera corale, ambientata a Parigi negli anni a cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale. Tuttavia è la complessa storia d’amore tra Thérèse e Bernard a costituire il centro del romanzo, giovani vittime di un tempo feroce ed ingiusto. Le loro vite incarnano l’eterno conflitto dell’umanità tra il bene ed il male, qui rappresentati dall’amore ostinato di Thérèse e dal cinismo di Bernard, che torna dal fronte totalmente trasformato, come se la guerra gli avesse strappato via l’anima. La coralità delle voci protagoniste e la suddivisone della trama in “blocchi” narrativi, nonché le tematiche affrontate, verranno poi riprese e sviluppate dall’autrice nel suo capolavoro “Suite Francese“, rimasto incompiuto. L’autrice era un’ebrea ucraina naturalizzata francese, e come tale subì le terribili conseguenze della Shoah. Venne deportata Auschwitz, dove fu uccisa il 17 agosto del 1942.

” Vedi,” dice la nonna alla nipote, immaginando di prenderla per mano e condurla attraverso vasti campi in cui vengono bruciate le stoppie “sono i falò dell’autunno, che purificano la terra e la preparano per nuove sementi.

3. LE NOSTRE ANIME DI NOTTE di Kent Haruf

In questo romanzo non è l’autunno in senso fisico ad essere evocato dalla narrazione, ma l’autunno percepito come fase della vita, quella parte dell’esistenza che ci accompagna piano piano alla fine del nostro cammino terreno. Kent Haruf, dopo la pubblicazione postuma della sua famosa “Trilogia della pianura“, ci conduce ancora una volta nell’immaginaria cittadina di Holt, Colorado, facendoci conoscere due anziani vedovi, Addie e Louis. Un giorno come tanti Addie bussa alla porta di Louis proponendogli di dormire con lei per quella notte e per altre a venire, solo per farsi compagnia, per non sentire troppo il peso della solitudine. Nonostante le perplessità iniziali Louis accetta: nasce così un tenero sentimento fatto di notti trascorse a raccontarsi la vita a fior di labbra, mano nella mano, in attesa che arrivi il sonno. Nella quiete domestica di quelle sere le confidenze dei due diventano sempre più intime; attraverso confessioni, ricordi e rimpianti le loro anime affiorano in superficie in un modo nuovo, privo di giudizio, totalmente inaspettato. Naturalmente questa relazione non viene compresa dalla piccola comunità di Holt che ritiene decisamente inopportuni quegli incontri, se non addirittura scandalosi; ma, soprattutto, verrà osteggiata dai rispettivi figli, i quali considerano la convivenza notturna dei genitori una specie di follia senile. Nessuno riesce a percepire l’essenza di questo legame, l’atto di coraggio e di libertà che in realtà rappresenta. La vecchiaia per Haruf si trasforma in un’occasione di rinascita e la scelta di Luis ed Addie esprime il legittimo desiderio di essere nuovamente felici, contrariamente ad un’assurda regola sociale che vorrebbe gli anziani stare seduti al loro posto senza più disturbare, mentre attraversano con nostalgia e solitudine l’autunno della vita.

Vale la pena sottolineare però che lo stile di Haruf non è adatto a tutti: la trama è scarna e l’atmosfera rarefatta, i dialoghi sono ridotti all’essenziale e tutto contribuisce a proiettarci in una dimensione quasi spirituale, in cui gli avvenimenti restano sullo sfondo, superflui.

“Profumi perduti”, di Charlotte Link: cent’anni di storia europea

“Profumi perduti” è il secondo episodio di una saga familiare pubblicata da Charlotte Link diversi anni orsono. Acquistai compulsivamente tutti e tre i volumi perché Charlotte Link è tra le mie autrici preferite, ed ero praticamente certa che mi sarei buttata a capofitto in una storia affascinante e bellissima, a cui avrebbe fatto da sfondo quasi un secolo di storia europea. Bene! Cosa volere di più? Ed invece quella prima lettura si rivelò un mezzo fallimento: “Venti di tempesta”, a parte la perfetta trasposizione letteraria degli avvenimenti storici, presenta poco altro di interessante. In particolare la protagonista, una giovane tedesca dell’alta borghesia, mi era rimasta letteralmente indigesta. Felicia Donnelly, rampolla arrogante ed egoista, mi era parsa la copia mal riuscita di Rossella O’Hara. Questo parallelismo, sicuramente voluto dall’autrice, non ha reso giustizia alla sua protagonista, anzi, trovo che l’abbia ingiustamente penalizzata. Contesa da due uomini estremamente diversi tra loro, è anticonformista e caparbia al limite del sopportabile, ma ha in dono un grande fascino grazie al quale riesce a soggiogare una quantità di uomini imbarazzante per quei tempi. Tutti, indistintamente, sono pronti a stenderle il tappeto rosso quando noi lettori vorremmo invece solo  prenderla a schiaffi. Ogni volta che il suo sex appeal aggancia il malcapitato di turno, la Link insiste noiosamente ed inutilmente sulla descrizione dei suoi occhi grigi e freddi: talvolta sono  come l’acciaio, altre come il mare in burrasca, altre ancora come canne di fucile pronte a sparare, e chi più ne ha più ne metta. Sono il tratto distintivo delle donne della famiglia Donnelly, e come tale ce lo portiamo dietro anche in “Profumi perduti“. E, se tanto mi da tanto, anche nel terzo episodio della saga troveremo sicuramente qualche donna della famiglia che ci ammorberà con i suoi straordinari occhi. Questo secondo episodio, che mi ero ripromessa di non leggere ma che invece dopo anni ho deciso di affrontare, non ha deluso le mie aspettative medio basse. Lo scenario storico logicamente è cambiato, gli anni sono passati e ritroviamo Felicia nel pieno della sua maturità. Ha 42 anni, è madre di due figlie grandi, Susanne e Belle, ed entrambe l’hanno resa nonna. L’attenzione ora si sposta da Felicia alle figlie, in particolare Belle sembra essere la sua copia esatta: possiede infatti lo stesso fascino ambiguo della madre, la stessa freddezza e lo stesso egoismo e, soprattutto, gli stessi occhi grigi (aridaje) che faranno capitolare una nuova generazione di uomini. Susanne sposa un membro delle SS e pare priva di una volontà propria, ragione per cui resterà molto marginale alla storia. Ottenebrata dalla propaganda nazista del marito non si rende  pienamente conto di cosa significhi servire il Fuhrer. Cercherà fino alla fine di dare al marito a alla Germania un figlio maschio,  invece partorirà tre femmine una dietro l’altra  e sarà vittima di un matrimonio infelice. Belle invece sposa Max, un attore berlinese, ma a pochi mesi di distanza dal matrimonio si invaghisce di Andreas, imprenditore senza scrupoli bello e dannato che diventa il suo amante.  Belle a differenza della sorella ha un carattere fiero ed indomito, e pertanto destinata a diventare la protagonista principale del romanzo:  a lei viene affidato lo scomodo ruolo di eroina ribelle e volitiva, tenace e battagliera. Non solo Belle è identica alla madre fisicamente e caratterialmente, ma la Link le costruisce via via un vissuto che è praticamente il copia incolla di quello di Felicia. Ma perché? Non si poteva trovare qualcosa di diverso per Belle, che di mestiere fa l’attrice e non l’imprenditrice? Niente da fare, tocca rivivere le stesse scene di passione amorosa, di struggimento interiore e di sentimenti dilaniati, con questi occhi grigi che ogni tre per due saltano fuori a perseguitarci. Un altro appunto che sento di dover fare mio malgrado è l’inusitata lunghezza di alcune pagine nient’affatto funzionale alla storia, utili  solo ad allungare il brodo e a dilatare oltre modo la tensione degli avvenimenti che ne fanno da sfondo. Con duecento pagine in meno avrebbe avuto un ritmo più incalzante, le melensaggini sarebbero state ridotte al minimo indispensabile ed i continui richiami alla felicità domestica di Lullin,  la splendida tenuta di famiglia  situata nella Prussia Orientale a cui Felicia e le sue figlie sono così legate, sarebbero stati decisamente più godibili e meno stucchevoli. I paesaggi della campagna prussiana sono descritti in modo impeccabile, ma la troppa insistenza fa perdere pathos ai ricordi felici  di Felicia e delle sue figlie. Lullin rappresenta la bellezza autentica, la spensieratezza, la pace e la quiete interiore a cui sempre si poteva fare ritorno, ma i tempi sono cambiati irrimediabilmente e  l’orrore della guerra travolgerà anche quell’ultimo baluardo di felicità, portandosi via la storia di una famiglia intera. Una storia che Felicia, tornata protagonista verso la fine del romanzo, proverà a ricostruire grazie al suo spirito battagliero, fiaccato dagli eventi ma ancora animato da una  fiammella di speranza.

“Ti sei mai sentita disperata in vita tua? Sola? Hai mai avvertito un vuoto incolmabile dentro di te, oppure ti sei mai ubriacata una notte per dimenticare quanto può far male la vita?“

La Link è un’autrice da dieci e lode e lo dimostra anche in questo romanzo, nonostante le evidenti falle e tutte le critiche che si possono fare. Il suo stile è sempre una garanzia,  sa creare vere e proprie magie letterarie e da vita a personaggi che, antipatia o simpatia a parte, sembrano donne e uomini in carne ed ossa, con la loro inconfondibile fisionomia, la loro accurata costruzione psicologica e il proprio vissuto. Non sono figure statiche, ma seguono una loro evoluzione e non tradiscono mai la loro natura: questo è un aspetto importante, perché è l’unico elemento che è in grado di conferire verosimiglianza ad una saga familiare e che permette al lettore di immedesimarsi in tutto e per tutto. Anche l’ambientazione è molto ben riuscita, con una  ricostruzione storica da applauso.  Senza dubbio è stato questo aspetto a farmi apprezzare un romanzo che tutto sommato non ha nulla di eccezionale, trasportata dal susseguirsi degli eventi bellici. Sono diversi i personaggi che incontriamo proseguendo con la lettura, ed ognuno di loro ha un ruolo ed un approccio differente rispetto a quello che sta accadendo: Felicia non prende mai posizioni ufficiali ma detesta Hitler e si rifiuta di eseguire il saluto nazista, nonostante il genero sia un importante membro del Reich. Segue la sua indole e fa quello che ritiene giusto, offrendo riparo agli ebrei fuggiaschi e tacendo su quello che sa. Il suo ex socio in affari si adopera per offrire loro passaporti e lavoro oltre oceano, in modo che possano fuggire negli Stati Uniti, mettendo a repentaglio la sua stessa vita. Max, il marito di Belle, sarà costretto a partire per la campagna di Russia, assistendo con i propri occhi all’orrore dentro l’orrore, partecipe di una sconfitta di cui in Germania non si doveva parlare e che gli lascerà strascichi terribili. C’è poi Claire, una giovane e mite donna francese che, distrutta dal dolore per l’uccisione dell’unico figlio, si unirà ad un commando di partigiani e troverà la sua ragione di vita nell’eccidio del nemico. Le voci narrative si elevano molteplici durante il racconto, dando risalto ad un aspetto della guerra di cui forse si parla troppo poco: per la prima volta infatti mi è capitato di ascoltare il punto di vista del popolo oppressore, di una germania vittima anch’essa della follia di Hitler nonostante fosse la culla dell’orrore nazista. Uomini costretti ad assecondare i deliri di onnipotenza di un pazzo, dati in pasto all’inverno russo senza nessuna concreta possibilità di vincere, una Berlino che da quartier generale del terzo Reich si trasforma in un ammasso di cenere, dilaniata dalle bombe, ferita a morte nell’anima. E’ questa  la parte migliore del romanzo, ed è quella per la quale vale la pena leggerlo, nonostante le continue digressioni  sulle primavere prussiane e sugli occhi grigi delle donne di Lullin.

🔖TE LO CONSIGLIO SE:

  • Ami le saghe familiari
  • Il romanzo storico è tra i tuoi generi cult
  • Gradisci sempre un pizzico di passione amorosa