“Alabama Song”, di Gilles Leroy: Zelda racconta

E’ il luglio del 1918 quando Zelda, figlia di un anziano e severo giudice di contea, incontra al Country Club di Montgomery Francis Scott Fizgerald. Sottotenente dell’esercito americano con l’ambizione di diventare un grande scrittore, si arruolò durante il conflitto mondiale ma non venne mai spedito al fronte. La guerra è ormai agli sgoccioli quando viene spostato al campo di addestramento in Alabama: si innamora perdutamente di Zelda ma pochi mesi dopo il suo reparto viene trasferito in una base militare di Long Island per l’imbarco. Pochi mesi dopo otterrà il congedo dall’esercito e farà ritorno a New York, fermamente intenzionato a scrivere il suo primo romanzo,  non prima però di aver chiesto la mano  della più bella ragazza di Montgomery. Zelda è poco più di una bambina, e nonostante ami Scott non ha nessuna intenzione di aspettare pazientemente che il fidanzato ottenga il successo sperato privandosi dei divertimenti a cui era abituata. Fu un periodo di missive burrascose, che però non minarono l’unione. Giovani, spregiudicati ed innamorati, i due ragazzi  si sposano il 3 aprile del 1920 a New York, dove iniziò “la grande leggenda della bellissima coppia, eroina, simbolo ed interprete di tutte le prodezze sofisticate dell’età del jazz”. In quel periodo Scott aveva appena dato alle stampe “Di qua dal Paradiso”, e fu un enorme successo. Critica e pubblico accolsero con grande entusiasmo il romanzo, dimostrando di apprezzare lo stile fresco, innovativo e spregiudicato di Fitzgerald. Scott, giovanissimo, diventò così il simbolo di una nuova generazione, quella che si andava profilando dopo gli anni terribili della Grande Guerra: era iniziato il periodo più sfrenato del ‘900, permeato da un’intensa gioia di vivere che spesso raggiungeva livelli estremi di esaltazione. Ma questa non è la storia di Scott, e nemmeno quella dei ruggenti anni venti. Questa è la storia di una giovane donna ribelle e spregiudicata, per la quale la famiglia di origine e la vita di provincia rappresentavano   un’inutile  zavorra che le impediva di volare libera. Era erotica e sensuale Zelda, ed amava esserlo. Gli uomini   perdevano la testa per lei e lei adorava essere corteggiata, ma non si concedeva mai veramente; usciva con i militari di stanza a Montgomery (seppur colleghi di Scott), ed i compagni di liceo senza badare ai pettegolezzi e alla disapprovazione dei genitori, incurante di tutto eccetto che di sè stessa e del proprio appagamento. L’estrema severità del padre e l’incomunicabilità con la madre spinsero Zelda alla ribellione, ma non fu necessario alzare barriere ed inneggiare alla guerra: era come se avesse seguito un’onda naturale, la piega perfetta, l’unica che potesse prendere la sua vita. Oggi  Zelda viene considerata una  “femminista ante litteram“, ma per quei tempi non fu altro che una donna scandalosa e modaiola, a seconda dell’ambiente a cui si rapportava. Portava i capelli alla maschietta,    usciva da sola o con chi più l’aggradava atteggiandosi come un uomo, beveva troppo e faceva il bagno completamente nuda: se questo a New York o in Europa era considerato un comportamento accettabile ed addirittura affascinante, si scontrava invece  duramente con la cultura dell’ america del sud, ancorata a solide tradizioni per le quali le donne dovevano essere creature docili ed irreprensibili, senza ambizioni nè desideri.  Zelda  era l’opposto di quell’archetipo, e fu proprio il suo anticonformismo ad attirare dannatamente Scott, anche lui lontano anni luce dall’immagine del  bravo ragazzo americano. Gli anni venti ebbero così la loro stella,  strappandola ai cieli infuocati dell’Alabama. Quella di Zelda fu un’esplosione di luce tanto fugace quanto intensa, che bruciò ogni cosa, come un incendio devastante: amore, famiglia, carriera, sogni, speranze. Sopravvissero al suo declino solo i ricordi della fanciullezza, che custodiva come un tesoro prezioso in un angolo di sè, uno dei pochi che ancora l’elettroshock non aveva distrutto. Il luogo più intimo, il più inaccessibile di tutti,  in cui era sempre giovane e bella, innamorata,  seducente ed affamata di vita. L’Alabama, da cui era scappata con Scott per mordere la vita, si trasforma in nostalgica dolcezza e diventa il leitmotiv che accompagnerà la sua vita adulta.

Il matrimonio con Scott fu una perenne corsa  sulle montagne russe, con picchi di euforica felicità e precipitose discese all’inferno. Un uomo e una donna simbiotici ed autodistruttivi, lanciati a folle velocità verso un futuro di cui  non importava a nessuno, icone di un’epoca dorata in cui gli artisti venivano idolatrati, come oggi faremmo con una rockstar. E loro, investiti da tanta magnificenza, si sentivano forse in dovere di restituire qualcosa al pubblico adorante, dettando mode e sovvertendo qualsiasi regola morale. Gli artisti hanno un tormento interiore che costituisce parte fondamentale del loro genio, ma per Scott è diverso. Il vero tormento è Zelda a portarselo addosso, e Scott non può far altro che assimilare il suo male di vivere, osservarlo, spiarlo ed ispirarsi ad esso per i suoi romanzi. Anche se questo significava rubare i diari che Zelda scriveva sin  da quando era ragazza, o sabotare la pubblicazione della sua raccolta di racconti aggiungendo il nome “Scott” accanto al cognome di entrambi. La sofferenza psichica di Zelda diventa essenziale per la scrittura di Scott, i cui personaggi femminili interpretano ognuno una fase diversa della vita della moglie. Nel giro di pochi anni le stelle più sfavillanti del firmamento europeo si spengono poco alla volta, lasciando il vuoto intorno come gigantesche supernova. Scott non riesce più a scrivere niente di decente, è imbottito di alcol e debiti, non riesce più a fare l’amore con sua moglie perché sono più le volte che si addormenta ubriaco fradicio di quelle in cui è sveglio. Zelda lo tradisce, scappa ad Antibes con un aviatore francese, ma Scott torna a riprenderla per rinfacciarle quel tradimento fino alla fine del loro matrimonio. La bellezza di Zelda comincia a sfiorire, i demoni interiori la tengono stretta in una morsa micidiale, cominciano i ricoveri nelle cliniche psichiatriche, le sedute interminabili con i dottori, gli elettroshock. “Scott, mio marito, è stata una trappola di cristallo: ha rubato la mia vita, la mia essenza, la mia arte“. Ma i medici non le danno retta, è Scott che paga le loro parcelle, e la diagnosi è quella di schizofrenia.  Chi può mai sapere se Zelda fosse stata realmente plagiata dall’amato Scott o se la sua fu semplice ispirazione? Quella del marito era gelosia per un talento puro, che non aveva bisogno di anni di incessante lavorìo, o era sincera ammirazione? I disturbi psichici di Zelda erano gravi  al punto da farle percepire tutto attraverso un filtro distorto? E’ stata la sua follia latente a condurre Scott passo dopo passo sull’orlo del baratro, alcolizzato e senza più vena creativa, o fu la depressione di Scott a distruggerla definitivamente? Era folie a’ deux o era solo troppo amore? Questo romanzo non ha la pretesa di stabilire una nuova verità, è solo la vita di Zelda raccontata  attraverso i suoi occhi ed è composto come un diario, simile a quelli che la donna – presumibilmente – ha sempre tenuto fin da quando viveva ancora in Alabama. Non esiste una trama lineare, le pagine sono pensieri che prendono forma un po’ alla volta, come se arrivata ad un certo punto della sua vita Zelda sentisse la fine vicina e venisse travolta dai ricordi. Il piano temporale è sfalsato, gli anni si rincorrono veloci e si raggomitolano su sè stessi, ma seguire il flusso dei suoi pensieri è semplice, perchè per comprendere un romanzo così intimo non è  necessario seguire lo scorrere del tempo. Il filo conduttore è qualcosa di sfuggente, che non si può misurare: è la nostalgia, è un  demone interiore che non si riesce mai a vincere,  che respingiamo e cerchiamo con la stessa ostinata disperazione.

🔖 Zelda Sayre Fitzergald morì all’età di quarantasette anni nell’incendio nell’ospedale psichiatrico in cui era ricoverata a causa della sua instabilità mentale, dovuta secondo alcuni ad una grave forma di schizofrenia, secondo altri ad una depressone congenita. Nel 1932 pubblicò il romanzo autobiografico “Save Me the Waltz” (Lasciami l’ultimo valzer), in cui sono presenti numerosi spaccati della sua vita matrimoniale. “Tenera è la notte” venne pubblicato da Francis Scott Fitzgerald nel 1934, e leggendolo è impossibile non capire dove  trasse ispirazione per i personaggi di Dick e Nicole. O dove fu il plagio.

Agatha Christie: una vita appassionante come i suoi gialli

Agatha Christie è la donna che, dopo Lucrezia Borgia, è vissuta più a lungo a contatto col crimine.”

Winston Churchill

Agatha Mary Clarissa Miller nasce nel 1890 a Torquay, in Inghilterra, da padre americano e madre britannica. Il padre, che la lasciò orfana a soli undici anni, era più dedito al cricket e al gioco d’azzardo che alla famiglia, motivi per i quali fin dalla più tenera età la piccola Agatha viene allevata dalla   madre e dalla nonna, due figure femminili forti e indipendenti che assicurano alla bimba e ad i suoi due fratelli un’infanzia felice, seppur particolare. Crebbe in un ambiente domestico fortemente influenzato  da credenze esoteriche, al punto tale che tutti i fratelli Christie erano   certi che  la loro madre Clara, spiritista convinta, fosse una medium con abilità straordinarie.  A causa delle idee eccentriche della famiglia non fu mai mandata a scuola e della sua educazione  si occupò la madre stessa, coadiuvata dalle varie goveranti di casa; per il resto, la sua fu un’infanzia borghese tradizionale, trascorsa tra l’Inghilterra e Parigi, dove, in seguito alla morte del padre, viene mandata a studiare in un collegio per signorine, allo  scopo di ricevere un’educazione formale. Tornò in Inghilterra nel 1910, e come tutte le ragazze di buona famiglia dell’epoca, si dedicò alla vita di società. Si sposò nel 1914 con Archibald Christie, un ufficiale dell’esercito della Royal Air Force  di origine indiana, dal quale ebbe la sua unica figlia, e dal quale si separa nel 1926. Manterrà il cognome Christie solo per motivi commerciali, poichè proprio in quegli anni iniziò ad ottenere un certo riscontro come autrice di gialli. Per il primo grande successo dovrà aspettare però il 1926, quando diede alle stampe L’assassinio di Roger Ackroyd – altrimentri tradotto come “Dalle nove alle dieci”un caposaldo della letteratura di genere.  Nel 1928 si risposa con un archeologo di 13 anni più giovane di lei (hai capito, la Agatha?), Max Mallowan, un connubio felice che durò dal 1930 fino alla morte della donna, avvenuta nel 1976. Lo incontrò durante un viaggio verso Baghdad a bordo dell’Orient Express: indovinate un po’ dove trasse ispirazione per comporre una delle sue opere più famose!

Nel 1947, in occasione dei festeggiamenti per gli ottant’anni della regina Mary, la BBC manda in onda un radio-dramma sfornato dalla Christie apposta per l’occasione. La regina infatti, grande fan della scrittrice, alla domanda dell’emittente radiofonica su cosa avrebbe gradito ascoltare il giorno del suo compleanno, rispose: “un nuovo lavoro di Agatha Christie”. Fu così che, all’apice della sua popolarità, la Christie diede  alla luce “Tre topolini ciechi”, tra i racconti più noti e apprezzati, che in seguito  riadattò per il teatro. Il compenso che ricevette dalla BBC per il radio-dramma fu donato interamente all’ospedale pediatrico di Southport. Il romanzo, edito nel 1950 negli Stati Uniti insieme ad altri otto racconti (Tre topolini ciechi  ed altre storie), non è mai stato pubblicato in Gran Bretagna per volere della stessa Christie, affinchè non confliggesse con l’adattamento teatrale: “finchè sarà in scena nel West End di Londra il breve romanzo non potrà esser pubblicato». E così è da oltre 60 anni.

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I suoi gialli sono stati tradotti in 103 lingue, ed in alcuni paesi è diventata talmente popolare da sfiorare la leggenda. In Nicaragua, ad esempio, venne addirittura emesso un francobollo con l’effigie di Poirot. Nel 1971 le viene assegnata la massima onorificenza concessa dalla Gran Bretagna ad una donna: il D.B.E. (Dama dell’Impero Britannico).

Nel 1975 viene dato alle stampe il romanzo “Sipario”, in cui la Christie decide di far morire l’ormai celeberrimo investigatore Hercule Poirot. Poco dopo, il 12 gennaio 1976, all’età di 85 anni, muore anche lei nella sua villa di campagna a Wallingford, per cause naturali. Agatha Christie in vita guadagnò circa 20 milioni di sterline, ovvero circa 23 milioni di euro.

DIECI “PICCOLI” ANEDDOTI:

1- La madre di Agatha sosteneva che la figlia non dovesse imparare a leggere prima degli  8 anni: riuscite ad immaginare la vastità della perdita che avremmo subito? Per fortuna Agatha, sveglia e precoce com’era, imparò da sola ben prima di quell’età.

2 – Poirot a Styles Court”, il primo vero romanzo giallo di Agatha, è stato scritto per  scommessa con la sorella Madge. Intuendo l’abilità della sorella per la scrittura, per spronarla la volle sfidare a comporre un romanzo vero e proprio, anzichè racconti brevi. Come accadde quasi sempre per tutte le sue opere, per comporlo si ispirò alle vicende della vita reale: all’epoca infatti lavorava in un ospedale come infermiera nel dispensario, a contatto con i veleni.  E’ il romanzo che segna l’esordio della sua carriera di giallista: per la prima volta fa la sua comparsa  il  personaggio di Hercule Poirot, l’investigatore privato belga  che la renderà celebre in tutto il mondo.

3 – Hercule Poirot è ispirato ad una persona realmente esistita: un belga che la stessa Christie vide scendere da un pullman nei primi anni ’10. La sua camminata stramba e la particolarità del suo volto e dei suoi baffi colpirono la scrittrice al punto che decise di utilizzarlo come protagonista per i suoi romanzi. “Poirot era un ometto dall’aspetto straordinario. Era alto un metro e sessantacinque, ma aveva un portamento molto eretto e dignitoso. La testa era a forma di uovo, costantementeinclinata da un lato. Le labbra erano ornate da un paio di baffi rigidi, alla militare. Il suo abbigliamento era inappuntabile.

4 – Fin dai primi romanzi si intuisce come Agatha Christie non ami affatto la violenza. La maggior parte degli omicidi infatti avviene per avvelenamento ed in rari casi il killer di turno utilizza qualche arma da fuoco o uccide in modo efferato. Ed io la ringrazio per questo!

5 – Nell’immaginario collettivo  Agatha Christie è quasi sempre una donna di mezza età dall’aria severa, china 24 ore su 24 sulla sua macchina da scrivere. Invece possedava un’anima  poliedrica, era una donna brillante e molto arguta, seppur timida e riservata. Durante l’infanzia e l’adolscenza studiò musica e canto lirico, al quale dovette rinunciare proprio perchè non amava esibirsi in pubblico. Ebbe comunque un’intensa vita sociale, viaggiò moltissimo in tutto il mondo e, udite udite,  adorava surfare. Andò spesso in cerca della “grande onda” con il suo primo marito Archie  in Sud Africa e addirittura ad Honolulu, ed è stata probabilmente uno dei primi europei ad imparare a fare surf stando in piedi sulla tavola. Questo sì che è un colpo di scena, cara Agatha!

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“Ho imparato a diventare esperta, o in ogni caso esperta dal punto di vista di un europeo. Oh, il momento di completo trionfo nel giorno in cui sono riuscita a stare in equilibrio e sono arrivata a riva in piedi sulla tavola!”

6 – Nel 1926, quando ormai godeva di una discreta fama, scomparve per 10 giorni. Un serio litigio con il  marito e la morte della madre  la portarono a far perdere le sue tracce per un po’. Scattò immediatamente l’allarme, e la sua scomparsa diventò un caso internazionale, che occupò anche la prima pagina del New York Times. Oltre mille agenti di polizia, 15.000 volontari e diversi aerei perlustrarono la campagna circostante al luogo in cui venne ritrovata la sua auto, con all’interno la sua patente scaduta ed alcuni vestiti. Persino Sir Arthur Conan Doyle, suo collega ad amico,  si diede da fare: regalò ad una medium uno dei guanti della Christie affinchè riuscisse a ritrovare la donna scomparsa. Nonostante la vasta ricerca per dieci giorni non si seppe nulla di lei, fino a quando un investigatore privato scoprì che alloggiava in un hotel Termale di Harrogate sotto  falso di nome.  Secondo i medici che la visitarono in seguito al suo ritrovamento, una perdita di memoria totale l’aveva portata a fingersi un’altra persona, tale Theresa Neele (guarda a caso lo stesso cognome della nuova amichetta del marito…coincidenza? Io non credo!)

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Questa la versione ufficiale, che da già da sola potrebbe sembrare la trama di uno dei suoi famosi gialli.  Vi sono però varie teorie sul vero motivo della sparizione; tra le  più accreditate dalla stampa e dall’opinione pubblica vi fu quella che metteva al centro di tutto  la volontà della scrittrice di voler far incolpare il marito fedigrafo per la sua scomparsa, per vederlo messo alla berlina sui giornali e magari accusato del suo omicidio e occultamento di cadavere. Deformazione professionale!

La famiglia non ha mai avvalorato questa affascinante teoria, ma resta il fatto che durante tutto il tempo della sua scomparsa la Christie realizzò la sua  piccola vendetta personale: la storia d’amore del marito con l’amante Nancy Neele venne sbandierata su tutti i giornali, e lei  ne uscì come una vittima. Da genio dell’intrigo quale era, l’ipotesi non è poi così surreale…

7 – Aveva un alias. Mary Westmacott, nome nato dall’unione del suo secondo nome, Mary, e dal cognome di alcuni suoi parenti, è lo pseudonimo con il quale pubblicò ben sei romanzi “rosa” intorno al 1930. Sono romanzi d’amore che si discostano completamente dalla tradizione giallistica che la rese famosa,  scritti semplicemente per “divertimento”: la stessa Agatha Christie, nella sua autobiografia, afferma che “voleva fare qualcosa che non fosse proprio il suo lavoro”; disse di aver scritto il primo romanzo con un “leggero senso di colpa” e ne fu estremamente soddisfatta, anche perchè il primo di questi lavori, un’opera prima a tutti gli effetti, ottenne un buon successo di critica e pubblico. Nel 1949 che la Christie rivelò di essere Mary Westmacott, senza che questo intaccò minimamente il suo seguito di pubblico.

8 – Il New York Times ha dedicato una copertina a Poirot. In occasione della pubblicazione di “Sipario”, opera in cui muore il noto investigatore belga, il quotidiano americano dedicò un necrologio in prima pagina a questo iconico personaggio.

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Era il 12 ottobre del 1975. Ormai stanca del personaggio di Poirot, definito da lei stessa  “un pesante fardello“, decise di pubblicare l’ultima avventura del famoso personaggio da lei creato, che aveva già scritto diversi anni prima. Come se Poirot fosse stato la proiezione di un’importante parte di sè, alla morte della sua creatura-simbolo seguirà poco dopo anche la sua: la chiusa perfetta di una vita dedicata alla letteratura.

9 – La casa dove Agatha Christie ha passato gran parte della sua vita si trova a Devonshire, in Inghilterra. Attualmente è disabitata ma potete affittarla per circa 500€ a notte.

10 – Tra le tante (e sconosciute ai più) passioni della nostra Agatha, un posto d’onore merita senza dubbio l’archeologia. Dopo il divorzio da Archie, Agatha si innamorò di un giovane archeologo, Max Mallowan, che sposò nel 1930.  Si incontrarono durante un soggiorno in Iraq, dove lui faceva da guida nei siti di interesse storico. Spesso accompagnava il marito nelle sue spedizioni archeologiche e i suo viaggi con lui contribuirono a fare da sfondo a molti dei suoi romanzi ambientati in Medio Oriente.

“Un archeologo è il miglior marito che una donna possa avere: più lei diventa vecchia, più lui s’interessa a lei.” – Agatha Christie

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“Assassinio sull’Orient Express”, pubblicato nel 1934, fu scritto durante la sua permanenza all’Hotel “Pera Palas” di Istanbul, il capolinea meridionale della famosa linea ferroviaria. L’Hotel ancora oggi conserva la stanza di Agatha Christie come un memoriale per l’autrice.

Ancora oggi, nonostate siano passati quasi cent’anni dalla pubblicazione del suo primo romanzo, la sua classe, la sua arguzia, la sua ironia, ed i suoi geniali colpi di scena restano inarrivabili ed inimitabili. Grazie, Agatha!

“A occidente con la notte”, di Beryl Markham: autobiografia di una donna straordinaria

Questo romanzo completa  ciò che io definisco la mia personale “trilogia dell’Africa”. Tutto è cominciato quando qualche tempo fa lessi “Tra cielo e terra” di Paula McLain, sempre edito da Neri Pozza (lo trovate  QUI ) , un romanzo che mi piacque molto e che mi fece incontrare per la prima volta Beryl Markham, donna straordinaria ed autentica pioniera dell’emancipazione femminile. La McLain sviluppa alcuni aspetti della vita di Beryl componendo l’ideale prolungamento dell’autobiografia romanzata della donna, che scrisse “A occidente della notte” per suggellare tra le pagine il suo legame d’amore con il continente Africano. Quando lessi “Tra cielo e Terra” mossi una critica al romanzo, l’unica: non capivo perché l’autrice insistesse così tanto sul privato di Beryl, anche se movimentato ed intrigante, trascurando invece gli aspetti più interessanti della sua vita: fu la prima donna ad ottenere il brevetto come allevatrice di cavalli (aveva solo 17 anni) e la sua passione per il volo la portò a diventare un’aviatrice di professione. Il suo spirito di avventura la spinse persino a tentare un’impresa straordinaria per l’epoca: il volo transoceanico in solitaria, da Londra a New York.

Una volta terminata anche questa lettura ho però compreso: tutto quello che desideravo  sapere su questa donna così all’ avanguardia si trova in questo romanzo, scritto con le sue stesse mani, prima che i ricordi potessero essere cancellati dalla vecchiaia. E’ come se, leggendolo, ci soffermassimo a lungo ad ammirare una fotografia, incapaci di staccare gli occhi dalle immagini: la natura ancora vergine ed inospitale del Kenya, le capanne di fango dei primi coloni, i leoni distesi all’ ombra delle grandi acacie, gli elefanti che si spostano in branco seguendo i corsi d’acqua…La scrittura di Beryl è evocativa, di forte impatto, regala incredibili suggestioni ed è avara di dettagli. Tralascia volutamente tutto quello che con l’Africa non ha niente a che spartire: amori (tanti), amanti (uno su tutti, di cui parlerò più avanti) e mariti (tre) per farci immergere completamente nell’ atmosfera maliarda e sognante di un mondo ormai scomparso, che lei ha avuto il privilegio di dominare come e più di un uomo. La vita di Beryl Markham fu un turbinio di avventure, non si conformò ai dettami dell’epoca, fu spericolata nel lavoro come nella vita privata, assolutamente incapace di coltivare relazioni stabili e durature. La società coloniale dei primi del 1900 non differiva da quella vittoriana, non era altro che la sua proiezione: i pionieri si illusero di poter trasportare il loro bagaglio culturale anche in Kenya, credendo che fosse facile plasmare quella terra selvaggia e assoggettarla  ai loro “giusti” ideali politici, religiosi e sociali. Beryl rimase sempre piuttosto estranea a riguardo, conservando sempre, per tutta la vita, un punto di vista molto diverso da quello che ci si aspettava da una donna occidentale.  Non era  una presa di posizione, per lei era normale considerare l’Africa come una madre terra da rispettare, con i suoi ritmi, i suoi cicli, la sua perfetta simbiosi con le leggi immutabili della natura. Non era facile far convivere dentro di sè questo sentimento così forte di appartenenza con le necessità di vivere comunque in mezzo alla società bianca dell’epoca, che a Nairobi aveva il suo quartier generale: a volte era necessario scendere a qualche compromesso per poter sopravvivere.

Nel suo romanzo Beryl dedica poco tempo a parlare delle persone che popolarono la sua vita, fatta eccezione per alcuni uomini: suo padre, il suo grande amico indigeno Kibi, Tom Backer (l’aviatore inglese che le insegnò ogni cosa sul volo) e il barone Blixen, il marito della celeberrima Karen. Quest’ultimo era una  vera autorità a Nairobi:  appassionato cacciatore, l’aveva ingaggiata più volte per aiutarlo duranti i safari che organizzava per i suoi ricchi amici, affinché sorvolasse le zone circostanti al campo base in cerca di elefanti.  Il sogno dell’ uomo bianco, a quei tempi, erano le magnifiche zanne d’avorio dei mastodonti africani, che possedevano solo i maschi; ma il branco li proteggeva e, animali di straordinaria memoria ed intelligenza quali sono, imparavano a nascondersi in territori impervi, visibili solo dall’ alto. Beryl doveva avvistarli e segnalarli ai cacciatori, scrivendo le  coordinate su fogli di carta che poi lanciava a terra dentro scatole di latta. Ancora una volta Aveva trovato un modo straordinario per guadagnarsi da vivere.
L’idea di utilizzare l’aereo per i safari non fu però del barone Blixen, nè di Beryl Markham. Fu di Denis Finch – Atton, affascinante avventuriero, cacciatore e pioniere che si lasciò sedurre dall’Africa non meno che  dalle donne. Denis era l’amante della baronessa Blixen, ma le cronache mondane dell’epoca vogliono Beryl perdutamente innamorata di lui. Lui che, invece, restò sfuggente e fedele solo a se stesso, e morì libero, così come aveva sempre vissuto. Beryl lo conobbe in aeroporto a Nairobi, perché Finch-Atton era anche  un appassionato aviatore, esattamente come lei. Erano spiriti affini, e questo Beryl ce lo fa intuire attraverso rare parole.

La baronessa Blixen, come è ovvio che sia, non fu mai una sua grande amica: l’una sapeva dell’altra, e viceversa. Erano donne profondamente diverse, e sebbene entrambe abbiano tributato un grande omaggio al continente africano, la natura del loro innamoramento non fu mai la stessa. La Blixen arrivò in Africa in età adulta, in cerca di avventure come tutti i coloni dell’epoca, annoiati dalla loro nobiltà; ma poi il Kenya intrappolò il suo cuore in una presa mortale, che la segnò profondamente. Amò con tutta sè stessa quella natura selvaggia baciata da un clima straordinariamente mite,  l’immensa distesa di colline verdi che circondava Nairobi, i cieli senza crepuscolo, ogni cosa: ma nulla di tutto questo le  appartenne mai veramente. Fu solo un’amante, una donna bianca che sapeva capire, amare e rispettare  i riti antichi che governavano quel mondo; rimase però sempre un’estranea, con il dubbio che l’Africa le restituisse poco di quell’ amore che lei invece  le aveva donato incondizionatamente.
Beryl invece fu sempre parte integrante di quel mondo ancestrale. I suoi ricordi d’infanzia si perdono tra le quattro assi di una capanna di legno e fango tirata su nel cuore del nulla, intorno alla quale suo  padre si faceva largo con il machete, per dare forma al suo sogno. Una fattoria, i cavalli, una piantagione di caffè. La mamma non compare mai nei suoi ricordi, perché l’abbandonò subito dopo il suo arrivo: lei non era fatta per quell’ avventura al confine del mondo. Ciò che la Blixen apprende con gli anni, per Beryl fu una cosa del tutto naturale: parlava le lingue degli indigeni, giocava con loro, partecipava alle loro battute di caccia, alle loro feste. Così Beryl cresce, libera e selvaggia, imparando a cavalcare e a cacciare come un Kikuyo, fiera e rispettata sia dagli uomini del suo tempo che dagli stessi indigeni che l’avevano accolta. Non conosce altre radici che quelle africane, ed a queste  decide di rimanere ancorata anche  quando il sogno di suo padre va in frantumi: rimarrà in Africa, ad allevare cavalli, da sola. Si guadagnerà da vivere così, anche se ha appena 17 anni. Non so se sia stato il coraggio o la disperazione a guidare le scelte di Beryl, l’unica cosa certa è che questa sua intraprendenza le derivava da un amore viscerale per quella terra che l’aveva nutrita, prima che nel corpo, nell’ anima.

“I contendenti della conquista hanno trascurato l’anima vitale dell’Africa stessa, da cui emana la resistenza autentica alla conquista… l’Africa appartiene ad un’era antica e il sangue di molte delle sue genti è altrettanto venerabile e puro… quale razza di nuovi arrivati, spuntata da un secolo recente… può eguagliare in purezza il sangue di un singolo masai murani, il cui retaggio forse affonda le sue radici poco lontano dall’Eden?”

Questo suo spirito indomito e battagliero  la fece  considerare dai posteri come una specie di  femminista “ante litteram”: credo che questa definizione abbia fatto sorridere parecchio Beryl, quando alle soglie della vecchiaia ripercorse la sua vita per dare forma al romanzo. Perché in realtà Beryl non dovette mai combattere contro niente e contro nessuno: la sua presenza all’ interno della società coloniale, fatta prevalentemente da uomini, era accettata di buon grado come fosse una cosa naturale, inevitabile. Ricopriva dei ruoli che nessuno le contestò mai:  allevatrice di cavalli, aviatrice.  Il suo status fu sempre largamente accettato, condiviso e rispettato anche quando prese delle pieghe non proprio edificanti. La Blixen invece non riuscì mai ad elevarsi al di sopra dei pregiudizi che l’epoca vittoriana portò con sè anche al di là dell’Oceano: rimase sempre prigioniera del vecchio retaggio culturale di cui era figlia.
La  diversità  di  queste donne ci ha regalato due libri stupendi, che non dobbiamo mettere in contrapposizione l’uno con l’altro: sarebbe un errore, perché sono perfettamente  complementari. Quello che manca in uno, lo troviamo nell’ altro. Lo stile navigato della Blixen, che fece della scrittura la sua professione, non è paragonabile a quello appassionato e acerbo della Markham. Se si può fare una critica a questo romanzo, sta proprio nello stile spesso elaborato e nella ricerca continua del lirismo, anche quando la circostanza non lo richiede. A volte ho fatto fatica a seguire i suoi voli pindarici: quando si perde nelle descrizioni struggenti dei paesaggi africani  la scrittura diventa un fiume impetuoso di immagini e nomi, come quando si apre dopo tanto tempo la scatola dei ricordi. Ogni oggetto ha la sua storia, e tessere un filo temporale che tenga tutto in ordine cronologico è complicato ed inutile. Così mi sono lasciata trasportare dall’ onda della memoria che riaffiora, senza pormi troppe domande, godendo delle emozioni che la scrittura porta a galla.


E’ sbagliato definire il romanzo un’autobiografia, perché la cronistoria dei fatti, la descrizione dei personaggi e la loro collocazione nella storia sono di secondaria importanza rispetto al corpo della narrazione, che è basata su tutt’ altro. Viene rivelato solo lo stretto necessario a comprendere ciò che l’Africa ha rappresentato per questa donna: l’amore assoluto, il senso di appartenenza, il significato di una vita intera.


A occidente con la notte – Beryl Markham (Neri Pozza)

“La mia Africa”, di Karen Blixen: nel cuore del Kenya coloniale

Scordatevi il film, se l’avete visto. Scordatevi la storia d’amore con Denis Finch-Atton, scordatevi la scena sensualissima in cui Robert Redford lava i capelli a Meryl Streep nel bel mezzo di un safari. Scordatevi la vita intima di questa donna straordinaria e tenete con voi solo le immagini mozzafiato degli altopiani del Ngong: l’unico anello di congiunzione tra il film ed il libro da cui è stato liberamente tratto è la magnificenza del paesaggio. Il film di Sydney Pollack, datato 1985, resta senza dubbio il più grande tributo che Hollywood abbia mai riservato  al Kenya, ma  film e romanzo hanno due cuori molto diversi tra loro.  Il film racconta la vita   della scrittrice Karen Blixen durante l’epoca coloniale in Kenya, ed ha come interpreti Meryl Streep nel ruolo della protagonista e Robert Redford nel ruolo del suo amante Denys Finch-Hatton. Corredato da  una superba fotografia  e da un’intensa colonna sonora, il film fece conoscere questo paese  al pubblico di tutto il mondo, ottenendo un enorme successo e facendo incetta di premi Oscar. Il kolossal ha lasciato però sullo sfondo ciò che per la Blixen fu fondamentale: non già la sua storia d’amore con Finch-Atton, su cui ruota buona parte del film, ma quella che ebbe con il continente africano, autentica e viscerale. Il romanzo è la dichiarazione d’amore  di questa donna verso il paese a cui dedicò la maggior parte della sua vita, è il racconto  del rapporto simbiotico  con una terra che conservava ancora intatta una feroce bellezza, nonostante le ferite inflitte dai governi occidentali. Siamo nei primi anni venti, la carta geografica dell’Africa è  un immenso rattoppo  suddiviso tra le maggiori potenze europee. Inglesi, tedeschi, francesi, belgi, spagnoli, portoghesi, italiani: non esiste più una sola terra indipendente e libera. La Blixen, che per tutto il romanzo si terrà a debita distanza  da considerazioni politiche, compone un vero e proprio inno al continente:  una canzone d’amore  per la sua gente, per la sua natura maestosa, per i suoi conflitti, per quell’ intreccio indissolubile tra vita e morte, tra amare e uccidere, che da sempre domina la vita indigena.
Ora io so una canzone dell’Africa – pensavo – una canzone della giraffa e della luna nuova sdraiata sul dorso, dell’aratro nei campi e dei visi sudati degli uomini che raccoglievano il caffè – ma  sa l’Africa una canzone che parla di me? Vibra nell’ aria della pianura il barlume di un colore chi io ho portato, c’è fra i giochi dei bambini un gioco che abbia il mio nome, proietta la luna piena, sulla ghiaia del viale, un’ombra che mi somiglia, vanno in cerca di me le aquile del Ngong?
E’ questa la domanda che Karen Blixen rivolge ai cieli equatoriali, quando di notte si siede in veranda a studiare il firmamento, immenso e fulgido. Lei ha ascoltato la canzone del Kenya, una sinfonia  di sconfinata  bellezza, dove la vita degli uomini è un tutt’uno con le praterie in cui cacciano i Masai, ultimo baluardo delle popolazioni indigene. Una canzone che parla di  animali  selvaggi e del rituale antico della caccia, che si perde nella notte dei tempi. Un richiamo ancestrale a cui nemmeno lei, che è una donna bianca e aristocratica, riesce a sottrarsi: attraversa le sterminate pianure ai piedi del Ngong per appostarsi ed uccidere i leoni,  predatori impietosi dei suoi animali domestici, usando il fucile come un uomo, e provando lo stesso senso di eccitazione. Organizzava  battute di caccia memorabili, trascorrendo mesi interi nel cuore del Ngong insieme a servitori ed amici che in cambio  ricevevano pelli e carne; ma non erano queste le ricompense a cui ambivano gli uomini bianchi che si avventuravano con lei.  Giusto o sbagliato che fosse, lo facevano soprattutto per provare quel senso appartenenza al  primordiale cerchio della vita. Il leone, terribile predatore, era un nemico fiero e rispettato, e la sua uccisione portava con sè il senso stesso dell’esistenza:
…Quando il sole non era ancora sorto e la luna stava declinando, tornare a casa dopo l’eccidio attraverso la pianura grigia, lasciando nell’ argento dell’erba una stria scura, il muso ancora rosso fino alle orecchie; o durante la siesta nel meriggio, quando si riposava pacificamente in mezzo alla sua famiglia, sull’ erba bassa, all’ ombra delicata e primaverile delle grandi acacie, nel suo giardino d’Africa.
Questa è la canzone che l’Africa canta ai suoi avventori, per legarli indissolubilmente di un amore non ricambiato. Karen Blixen sa che la sua canzone per quelle terre invece non l’ascolterà mai nessuno. Gli scampoli di civiltà che ha portato dalla Danimarca non continueranno a vibrare nel vento, una volta abbandonata la fattoria. Le immense pianure, le montagne maestose,  le placide  colline che circondano la fattoria: a nulla importerà della sua storia di donna bianca, aristocratica pioniera in cerca di avventure. Quel paesaggio incastonato nella terra da migliaia di anni è indifferente di fronte alla sua avanguardistica piantagione di caffè, alle sue conoscenze mediche, alla sua bella casa piena di porcellane raffinate, libri importanti e di grammofoni. Lo sanno bene anche  i Masai, magnifici e fieri guerrieri delle pianure, che odiano la civiltà che lei rappresenta. Seppur rilegati in una riserva confinante con la fattoria, non si sono mai arresi alla schiavitù e alla supremazia degli europei al punto tale che perfino il governo inglese ( che in Kenya era mascherato da “protettorato”) li considerava appartenenti ad una sorta di aristocrazia tra i selvaggi, e a modo suo li rispettava. In caso di disordini non li punivano mai con la prigione, ma con ammende: i Masai  imprigionati si lasciavano morire nel giro di pochi mesi, come animali feriti.
La Blixen, così come il suo amante Finch-Atton, ebbero sempre un rapporto speciale con le popolazioni indigene, per cui nutrivano un profondo rispetto. Condivise la sua vita alla fattoria con i Kikuyu e i Somali, altre popolazioni locali, che a differenza dei Masai riuscirono ad adattarsi al cambiamento ed a convivere pacificamente con i coloni. Lei amava sinceramente  il  suo‘servo’-amico FarahKamante, il suo cuoco. Quando la Blixen arrivò in Kenya, Kamante era un  bambino ammalato ed affetto da gravi malformazioni, un  pastore di capre senza futuro destinato a morire prima dei dieci anni. Karen lo  salvò da morte certa, affidandolo alle cure dell’ospedale di Nairobi. Lo andò a trovare spesso, fino a quando non guarì del tutto. E Kamante la ricambiò di quell’ affetto scegliendo  di restare nella sua casa, al suo servizio, fino a quando non fu costretta a vendere la fattoria.
La Blixen scrive questo romanzo una volta tornata in Europa, in seguito alla crisi economica che fece crollare il costo del caffè e che rese improduttiva la sua piantagione. Cercò di salvarla ad ogni costo, contrattando con banche e governo fino all’ultimo, ma alla fine si arrese. Riuscì però  a garantire la proprietà di  un piccolo appezzamento di terra ai suoi amati Kikuyu: fu la sua ultima battaglia. Quel mondo così come l’aveva conosciuto stava scomparendo, portandosi via la scommessa della sua vita. Non solo la fattoria spegneva le luci su quelle pianure in mezzo al nulla, ma anche  la morte  si prese il suo grande amico Denis Finch-Hatton. Precipitò con il suo aereo mentre sorvolava l’altopiano, durante  gli ultimi giorni di permanenza in Kenya della baronessa. Come l’avverarsi di una  premonizione, come il compiersi di un destino ineluttabile. I kikuyu non temevano la morte, perché si sentivano parte di essa. Si consideravano parte di un grande disegno ed accettavano il loro destino senza cercare di plasmarlo. Come la terra, come gli animali. Denis Finch-Hatton visse e morì esattamente come uno di loro, molto più della Blixen. Il suo retaggio di donna bianca  le creava paure e pensieri che sapevano sciogliersi all’ ombra delle grandi acacie, durante i safari,  o durante le notti passate insonni ad osservare il firmamento. Ma non fu mai come loro.

Nel suo romanzo racconta un mondo  che non c’è più, con le sue regole imperfette,  senza mai giudicare. Lei faceva parte di quel sistema, il colonialismo era la realtà storica in cui viveva. Leggendo il suo amore per l’Africa possiamo tuttavia comprendere molte cose che per volontà, e non per ipocrisia, ha taciuto.  Scelse di non perdersi in  inutili disquisizioni socio-politiche. Non si esporrà mai, non affermerà mai di essere in disaccordo, non muoverà mai critiche nei confronti del governo inglese. Semplicemente, si limita a raccontare quella realtà vissuta dalla parte comoda ed ingiusta della storia.


Fin dalle prime righe si intuisce quanto la donna fosse consapevole di essere in realtà solo un’ospite ricca in un paese che apparteneva ad altri popoli. Gli indigeni frequentavano la sua casa, e lo facevano liberamente. Ospitava le loro danze  e spesso accendeva il grammofono per loro, facendo ascoltare Mozart e Beethoven agli squatters che si affacciavano curiosi quando la musica si spandeva intorno alla fattoria. Serviva ai suoi ospiti vini pregiati in calici di cristallo, insegnava a Kamanke a cucinare raffinati piatti europei, ma poi si mescolava alla vita nelle capanne Kikuyu per aiutare i malati, in mezzo alla sporcizia, al sangue e alla morte con la familiarità di chi ha capito quanto poco importi l’aristocrazia della vecchia europa in quelle terre.
Questo è uno di quei libri che non si dimentica. Rimarrà scolpito nella mia memoria. E’ stato come compiere un viaggio attraverso il tempo e lo spazio e mi ha riempito gli occhi di una bellezza rara . Ogni volta che vorrò immaginare l’Africa  rileggerò questa recensione, che scrivo essenzialmente per me stessa e per tutti coloro che vogliono dalla lettura qualcosa di più . Induce alla riflessione e alla lentezza, perché a volte è necessario soffermarsi un poco sulle pagine per avere il tempo  di vedere, di sentire, di comprendere. Ma si legge d’un fiato, trasportati dalla canzone dell’Africa, che ancora risuona senza sosta sugli altopiani del Ngong.

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“Tra cielo e terra”, di Paula McLain: storia di una pioniera

Paula McLain, autrice di “Una moglie a Parigi” (biografia romanzata di Hadley Richardson, la sfortunata prima moglie di Ernest Hemingway) si riconferma un’autrice di grande talento. Quando Neri Pozza ha pubblicato “TRA CIELO E TERRA” l’ho acquistato immediatamente, certa di imbattermi nuovamente in un romanzo di ottima fattura. Le qualità della McLain non sono in discussione, perché il suo stile si riconosce subito e la prosa è di altissimo livello, eppure ho percepito in questo suo ultimo lavoro una lieve stonatura, qualcosa che non ha funzionato del tutto. Inoltre, in alcuni momenti della storia, avrei volentieri preso a schiaffi la protagonista. Ma procediamo con ordine. Anche questa volta siamo di fronte alla biografia di un’altra donna fuori dal comune, Beryl Clutterbuck, la prima donna a volare in solitario attraverso l’Oceano Atlantico da Est a Ovest. La sua fu una vita straordinaria, priva di regole, anticonformista fino all’eccesso. Beryl, nata in Inghilterra il 26 ottobre del 1902, si trasferisce con i genitori in Kenya quando era ancora in fasce. Fin da piccolissima  cresce libera e selvaggia in quelle terre al confine con l’equatore, in cui il crepuscolo dura un istante e la notte cala rapida e buia come una mannaia, talmente immobile da poter sentire gli animali tra le sterpaglie respirare e srisciare. Nonostante le difficoltà di adattamento la fattoria piano piano prende forma, ma questo non basta per convincere la madre di Beryl a restare: dice che l’Africa è troppo dura per la sua salute e per quella del figlio maggiore Dicky. Così torna in Inghilterra con lui lasciando Beryl da sola con il padre, disinteressandosi per lunghi anni alla sua bambina. Beryl non la perdonerà. Per tutta la vita si porterà dietro il dolore di questo crudele abbandono, una perdita che non riuscirà mai a compensare del tutto e che la porterà a compiere scelte sbagliate e autodistruttive. Al tempo stesso però questo dolore così acerbo la trasformerà in una donna coraggiosa e sicura di sè, e (quel che più conta) indipendente dal giudizio altrui. L’infanzia di Beryl è un periodo nonostante tutto felice, la fattoria è ben avviata e lei cresce forte e serena, imparando ad allevare i cavalli fin da ragazzina. Quando trent’anni dopo si troverà da sola a sorvolare l’oceano, penserà al suo Kenya come alla cosa più bella della sua vita, l’unica forse per la quale è valsa la pena resistere e andare avanti. Il suo punto fermo, la sua casa. E’ proprio così che comincia il romanzo, con Beryl che sta per portare a termine la sua impresa più difficile e nel mentre ripensa alla sua vita in Africa, dall’infanzia all’età matura.
La sua fu un’educazione sicuramente poco ortodossa per una donna dell’epoca: vuoi per la mancanza della figura materna, vuoi per il suo carattere ribelle, crebbe letteralmente come un maschio. A nulla valsero gli insegnamenti della governante che il padre le aveva affiancato per cercare di conformarla alla gioventù coloniale di quei tempi. Beryl era diversa, uno spirito anticonformista che si adattava magnificamente a quel paradiso naturale che l’aveva cresciuta, istruita, protetta. Imparò a parlare lo swahili, il nandi e il masai. A volte, quando l’immobilità delle notti africane si posava sopra Green Hill, Beryl sgusciava fuori dalla finestra del suo capanno per incontrarsi con Kibi, un bambino indigeno, e insieme ascoltavano affascinati le storie che gli anziani della tribù raccontanvano attorno al fuoco. Kibi sarebbe diventato un guerriero, e lei sognava di diventare come lui.
Le suggestive descrizioni dei paesaggi africani hanno un ruolo importante nella prima parte del romanzo, perché sono fondamentali per l’evoluzione della piccola Beryl. E’ questa secondo me la parte migliore del romanzo, perché quando Beryl diventa adulta la magia del contintente africano si perde sullo sfondo, l’amore per la sua terra diventa marginale e per lungo tempo rimarrà sopito. Sono altre le cose che acquistano spazio nella sua vita: la scoperta della sua sensualità, l’amore fisico, i tre matrimoni e i molteplici amanti (veri o presunti che fossero) Ma fu soprattutto la passione per Denys Finch-Hatton a dominare gli anni impetuosi della sua giovinezza, sentimento che si attenuò solo con la morte di lui. Durante la sua permanenza in Kenya, tra un matrimonio e l’altro, Beryl conobbe la baronessa Karen Blixen e cominciò a frequentare la sua tenuta (proprio lei, la scrittrice de “LA MIA AFRICA”). Denys Finch era l’amante di Karen Blixen. Era uno spirito molto più affine a Beryl che alla baraonessa, un avventuriero e un aviatore che dedicò tutta la sua vita alla scoperta dell’ Africa e della sua natura selvaggia. I safari che organizzava erano autentiche spedizioni in mezzo al nulla e non si sapeva mai quanto potessero durare, né dove potessero condurlo. Denys però, nonostante offrisse a Beryl qualche fugace incontro, non lasciò mai Karen: era da lei che tornava sempre, e Karen gli perdonava tutto.
A questo punto però mi devo fermare una attimo, per riflettere su quello che ho letto fino a qui. Questa donna si sposò tre volte senza amare mai nessuno dei suoi mariti, o almeno mai completamente. Lascia il suo primo marito perché lei era troppo giovane e lui troppo violento, e perché fu un matrimonio combinato al quale non si volle sottrarre per amore del padre. Gli altri due furono degli appigli scriteriati a cui si aggrappò perchè non poteva avere il suo cacciatore di elefanti. Due tristi ripieghi. Dal secondo marito ebbe anche un figlio, ma in realtà nemmeno l’amore materno apparteneva alla sua indole: dopo qualche tentativo maldestro di accudimento decise di lasciarlo per sempre alle cure della suocera, in Inghilterra. Non se ne occupò mai più. Non era nata per fare la moglie e la madre, perché la sua felicità non poteva prescindere dalla sua libertà e dall’ Africa, che rappresentava al meglio questo suo bisogno egoistico. La serenità domestica la faceva sentire in gabbia, era un desiderio a lei completamente estraneo. Ammetto che l’ho giudicata, e ammetto anche di aver provato un pò di fastidio leggendo quanto questa donna fosse libertina, spregiudicata, infantile e anaffettiva. L’autrice in questo è brava, perché ci racconta la sua vita così come in effetti è stata lasciando a noi lettori il compito di criticarla o meno per le sue scelte. A prescindere dall’ idea che ognuno di noi può farsi su Beryl, il romanzo ha però un piccolo difetto: è troppo incentrato sulle vicende sentimentali dei protagonisti, quando invece ci sarebbero state molte altre cose interessanti da approfondire. La passione di Beryl per il volo è raccontata in modo molto marginale e solo verso la fine, nelle ultime 50 pagine. Probabilmente perché tutto il corpo del romanzo è volto a questo, ovvero a farci comprendere come Beryl arrivò ad intraprendere una strada così fuori dal comune per una donna dei suoi tempi. Però non c’è continuità nel racconto, è come se ad un certo punto l’autrice non abbia trovato l’appoggio per condurci verso l’ultima parte. Basti pensare che in tutto il romanzo non si parla mai di aeroplani, nemmeno un accenno. E’ come se ci dicesse “Ecco fatto, siamo arrivati sino a qui. D’ora in avanti la sua passione diventa il volo”. Il suo è un ritratto riuscito, ma non completamente. E’ anche vero che la stessa Beryl scrisse una sua autobiografia, edita recentemente anch’ essa da Neri Pozza ( “A OCCIDENTE DELLA NOTTE) in cui descrive la sua vita in Africa, iniziata in quel piccolo capanno in mezzo alla foresta Kenyota e che terminò in una casetta a Nairobi, dove morì ultraottantenne. Probabilmente l’autrice ha voluto porre maggiormente l’attenzione sulla vita intima di questa donna per farci comprendere meglio la sua personalità eclettica e difficile, evitando così di creare doppioni. Resta comunque una falla lieve, una considerazione personale che non toglie nulla alla piacevolezza del romanzo.

Dopo l’indimenticabile “La mia Africa”di Karen Blixen, anche la McLain (tra un gossip e l’altro) ci regala un’ istantanea della vita coloniale del continente africano, un mondo ricco di privilegi e benessere economico dove le tenute dei signorotti inglesi, tirate su nel cuore di una natura inospitale e intatta, erano simboli di civiltà e progresso.

I cacciatori allestivano i loro campi in mezzo alle immense ed inesplorate pianure kenyote per plasmare quella natura selvaggia, ma lo facevano con stile : Denys Finch-Hatton si faceva servire la cena dai suoi “portatori” con raffinate ceramiche, posate d’argento e bicchieri di cristallo, mentre le musiche di Mozart, suonate da un vecchio grammofono a manovella, accompagnavano il pasto. Un contrasto stridente, forte, che affascinava gli spiriti avventurieri. In questo mondo così fortemente dominato dagli uomini, ancor più che in Inghilterra, le donne non avevano alcun ruolo, se non quello di compagne dedite alla casa e alla prole. La stessa baronessa Blixen portava come un’onta il suo status di divorziata, perché l’essere “una donna di nessuno” le precludeva le porte dell’alta società. Paradossalmente, era meglio essere sposata e avere un amante di cui tutti sapevano che infrangere un matrimonio. In un contesto simile la straordinaria modernità di Beryl era una condanna senza appello, che le valse innumerevoli chiacchiere e contrasti di ogni tipo.
Ad ogni modo  questo romanzo fa’ il suo dovere, restituendoci l’immagine di una donna moderna e indipendente non tanto per la sfrontatezza delle sue scelte sentimentali, alcune proprio di dubbio gusto, ma perché ha sempre cercato con coraggio di realizzare i propri sogni e perché ha combattuto e vinto gli uomini del suo tempo sul loro stesso terreno.

E’ stata una bambina che giocava con gli indigeni e desiderava diventare come loro, anziché indossare gonnelline inamidate e imparare le buone maniere; è stata la prima donna ad ottenere il brevetto come allevatrice di cavalli, anziché sfruttare il buon nome di suo padre debuttando in società (in realtà lo fece, ma le riuscì malissimo). Ed infine è stata la prima donna a sorvolare l’oceano, perché volare era rimasta l’unica cosa in grado di farla sentire libera, viva, felice. Era quel brivido che rincorse per tutta la vita.

Curiosità:
Ernest Hemingway pare sia il filo conduttore dei due romanzi dell’autrice. Lo scrittore infatti, durante uno dei suoi safari in Africa, conobbe Beryl Markham e (da buon dongiovanni qual era) pare abbia tentato un approccio, affascinato da questa donna. Beryl però gli diede il due di picche. Nel 1942 Beryl pubblica il suo romanzo autobiografico di cui ho accennato all’ inizio, “A OCCIDENTE CON LA NOTTE”, ma nessuno se lo fila. A parte Hemingway, che si ricordò di lei, e lo lesse. In una lettera privata, trovata postuma, scrive: “Hai letto il libro di Beryl Markham, West with the Night? …Ha scritto così bene, e meravigliosamente bene, che ho provato una totale vergogna per me stesso come scrittore. Mi sono sentito come un comune carpentiere con le parole, che prende ciò che gli viene fornito per il lavoro e inchiodando (quei pezzi) assieme, di tanto in tanto crea un porcile accettabile. Ma questa ragazza, che da quel che mi è dato sapere è estremamente spiacevole e potremmo persino dire una stronza di prima classe, può scrivere anelli attorno a ciascuno di noi che ci consideriamo scrittori … è davvero un libro dannatamente meraviglioso.” Questa lettera venne letta da un tale che si chiamava Gutekunst e che faceva il ristoratore; Gutekunst si procurò una copia di seconda mano di “A Occidente della notte” e gli piacque a tal punto che convinse un editore californiano suo cliente a ristamparlo. E diventò un best seller. E Beryl, ormai ottantenne, visse gli ultimi anni della sua vita a Nairobi nell’ agio, dopo un’esistenza non proprio confortevole.
PS: questa cosa di Hemingway che da della stronza a Beryl perché probabilmente è stato rifiutato, è una splendida chicca. E va bene che Hemingway era un donnaiolo, ma temo che su Beryl avesse proprio ragione!

Tra cielo e terra – Paula McLain (Neri Pozza)

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