“il passeggero del Polarlys”, di Georges Simenon: un delitto tra i fiordi

“Il passeggero del Polarlys” è uno dei primissimi romanzi di Simenon, pubblicato per la prima volta nel 1932, ovvero la bellezza di 88 anni fa. La datazione di un romanzo è spesso qualcosa di relativo, lo sappiamo bene, ma mai come in questo caso mi è parso evidente. La contemporaneità dello stile narrativo e delle vicende umane che intessono la trama rendono infatti questo noir un romanzo senza tempo, tanto perfetto e verosimile negli anni trenta quanto oggi. Nonostante rappresenti praticamente un esordio ritroviamo già tutti gli elementi cari all’ autore,  quelli che lo contraddistingueranno negli anni a venire e che renderanno immortale la sua intera produzione: la profonda conoscenza delle umane passioni,  l’attenta analisi psicologica dei personaggi, la predilezione per ambienti chiusi al limite del claustrofobico a cui sempre fa da sfondo un paesaggio suggestivo. E poi, naturalmente, uno o più  delitti a completare il quadro.

Il Polarlys è una nave mercantile la cui rotta è da anni sempre la stessa: parte da Amburgo con un carico di carne salata, frutta e macchinari per raggiungere via via tutte le piccole cittadine portuali della costa norvegese scambiando la merce trasportata con merluzzo, olio di foca e pelli d’orso. Nonostante sia un’imbarcazione nient’affatto ospitale è solita trasportare anche qualche passeggero, che approfittano della rotta per raggiungere luoghi isolati tra i fiordi. Quella mattina, quando  il Polarlys è ancora ormeggiato in porto, il capitano Petersen avverte nell’ aria glaciale ammantata di nebbia un presagio nefasto, quello che i lupi di mare come lui chiamano “Il malocchio“.  Non sarà uno dei soliti viaggi, di questo è certo. Quello che non comprende è il perché. Potrebbe dipendere, riflette, dal fatto che l’equipaggio è cambiato per la prima volta dopo anni: la compagnia gli ha mandato infatti un terzo ufficiale, un ragazzo imberbe appena uscito dalla scuola navale, dall’ aspetto smunto ma impeccabile che però non gradisce,  provando un’immediata diffidenza. Il suo capo macchinista ha poi letteralmente raccattato sul molo un vagabondo nulla facente per sostituire all’ ultimo minuto un carbonaio malato, che gli piace ancora meno del suo terzo ufficiale. Infine, ci sono i passeggeri: dei cinque che si sono registrati all’ imbarco uno è scomparso immediatamente dopo, lasciando solo il suo bagaglio a testimoniarne la presenza a bordo; un fatto quanto meno insolito, come ancora più insolito  è l’imbarco di Katia Storm, una giovane donna bionda, dai tratti infantili ma dalla bellezza conturbante. Una creatura misteriosa, ambigua, raffinata, in netto contrasto con lo stile semplice e rozzo della nave. Perché una donna così decide di imbarcarsi su un mercantile come il Polarlys, con la puzza di merluzzo che invade le cabine  ed il ponte costantemente ingombro di merci? Perchè quel viaggio tra i fiordi ghiacciati, con una temperatura polare che stringe le membra come in una morsa? 

Mano a mano che il mercantile prosegue il suo viaggio addentrandosi nel fitto di una tempesta di neve, l’oscuro presagio annusato nell’ aria dal capitano Peterson sembra trovare conferma nel misterioso delitto che viene compiuto a bordo, a cui seguono strani ritrovamenti che sembrano indicare un colpevole ma che, invece, servono solo a deviare i sospetti. Un altro assassinio, avvenuto tempo prima a Parigi, pare essere collegato con l’omicidio compiuto a bordo: un miglio alla volta il mistero si dipana, ma l’atmosfera cupa  e spettrale continuerà a gravare su quel disgraziato mercantile come una maledizione. Peterson, marinaio di lungo corso, è uno dei protagonisti più indovinati e meglio tratteggiati dalla penna di Simenon. Dalla corporatura tarchiata e robusta, energico e concreto, prende in mano la situazione cercando di capire cosa stia succedendo durante quella traversata, indaga, interroga il suo equipaggio, si pone mille dubbi e cerca risposte alle sue domande osservando, o meglio scrutando, la vita di bordo. In particolare si arrovella su una certa frase, buttata lì quasi per caso dal carbonaio improvvisato, della quale non riesce a comprendere il significato e che pure suona come un monito, un avvertimento. Anche Katia Storm  è una figura perfettamente delineata, una dark lady dall’ aria innocente ma dalla personalità viziosa e disturbata fatta apposta per scombinare gli equilibri di passeggeri ed equipaggio.

Chiudendo gli occhi pare anche a noi di scorgere  in lontananza la nave mercantile mentre cerca il suo spazio all’ interno dei fiordi, con il suo scambio di averi e di uomini che avviene puntuale in ogni  minuscolo porticciolo della Norvegia, altrimenti isolato. La fitta nebbia, densa e ghiacciata come glassa, avviluppa il Polarlys trasformandolo in una macchia di luce evanescente nel buio della notte polare,  pulsante di solitudine, smarrimento ed inquietudine.

 

Il passeggero del Polarlys, Georges Simenon – Gli Adelphi

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“La finestra dei Rouet”, di Georges Simenon: la solitudine dell’anima

Sono affascinata dai romanzi di Georges Simenon. Sono come una droga, ne finisco uno e subito mi viene voglia di leggerne un altro, desiderosa di farmi trasportare ancora da quell’onda emotiva che solo la sua penna è in grado di creare. La forza dei suoi romanzi non sta nelle vicende narrate, sempre ridotte all’ osso, ma nell’ accurata introspezione psicologica dei suoi protagonisti. Le descrizioni fisiche sono rarissime eppure quasi sempre abbiamo la netta percezione delle fisionomie dei suoi personaggi, ed una chiara visione del mondo che abitano:  Simenon concentra l’attenzione sugli sguardi, sulla gestualità, su rituali quotidiani che rivelano molto più di quello che potrebbero fare le parole. I suoi protagonisti sono sempre tormentati, malinconici ed irrisolti ma al tempo stesso fremono di vita e di passione, hanno l’urgenza fisica degli amanti ma potrebbero passare ore ad osservare la pioggia battente dall’ interno di un bistrot, senza nemmeno guardarsi negli occhi. Ecco, non so se ho reso l’idea di chi andiamo ad incontrare leggendo Simenon. Sicuramente è facile immedesimarsi nelle sue storie, perché parla di sentimenti universali, e per questo destinati a restare immortali. I suoi romanzi sono tutti risalenti agli anni quaranta eppure non c’è nulla nella struttura narrativa che resti vincolato a quell’epoca soltanto, sono pagine in movimento che  si adattano alle nostre sensazioni e si insinuano nel nostro vissuto aldilà dei dettagli che resteranno sempre  di secondaria importanza.

Questo romanzo parla di solitudine, uno stato d’animo che tutti conosciamo, il più universale dei sentimenti. La protagonista è Dominique, una donna di quarant’anni con un passato infelice ed un presente fatto di povertà e di abbandono. Si sente già vecchia, eppure il suo corpo ancora vergine trasuda di desiderio e di carezze, come quelle che osserva con un misto di invidia e repulsione spiando dal buco della serratura la giovane coppia di sposi ai quali è stata costretta ad affittare una camera del suo appartamento. Indossa da anni lo stesso vestito ormai logoro e trascorre le sue giornate tre le pareti della casa paterna, tra una faccenda domestica e l’altra  e rare uscite fugaci. Suo padre era un generale dell’esercito, un uomo coriaceo e severo che Dominique non ha mai amato ma che ha dovuto accudire per anni prima che morisse. Ha cominciato così a costruirsi la sua prigione, sacrificando la sua giovinezza alle cure di un moribondo, sgusciando fuori dalla vita reale giorno dopo giorno. Il lascito paterno l’ha sperperato al gioco, ed ormai da due anni versa in uno stato di indigenza che non le permetterebbe di godersi la vita nemmeno se lo volesse. Ma cosa vuole Dominique in realtà? Si sente morta dentro, sfiorita, vecchia, insignificante…eppure. Eppure qualcosa cova sotto la cenere, una fiamma debole, un anelito di vita quasi impercettibile che però la mantiene a galla, incitandola  a compiere azioni riprovevoli. Come quella di spiare l’intimità dei suoi  affittuari, o dei suoi dirimpettai, i signori Rouet. La finestra del suo appartamento si affaccia su un palazzo signorile, abitato da famiglie benestanti. Di fronte a lei ci sono i giovani Rouet, Antoinette e Hubert, vent’anni di differenza e una vita matrimoniale infelice. Hubert ha solo quarant’anni ma è molto malato, e i vecchi Rouet, che abitano al piano di sopra, gestiscono la vita della coppia come se fosse qualcosa di loro proprietà. Un giorno, mentre come di consueto Dominique osserva indisturbata i suoi dirimpettai, vede qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. Hubert muore in seguito ad una crisi respiratoria, e da quel giorno tutto cambia irrimediabilmente. Dominique comincia ad essere ossessionata dalla giovane vedova, spia ogni suo movimento, ogni suo spostamento, ogni espressione del suo viso. Quello che all’ inizio era una specie di gioco, una curiosità innocente,  si è trasformato in qualcosa di perverso e morboso che le  implode dentro,  lo stesso miscuglio di sensazioni rabbiose ed eccitate che prova quando sente i mugolii degli amanti nella stanza accanto.

Antoinette, così giovane ed esuberante, così innamorata della vita, così femmina e sensuale diventa per  Dominique quello che lei non ha mai avuto il coraggio di essere. Si immedesima in lei, vive la sua vita, la pedina senza preoccuparsi di essere notata, anzi: vorrebbe che lei la riconoscesse, che le si avvicinasse, che le rivolgesse almeno una volta parole complici…perchè Dominique sa cosa è successo in quella stanza, sa che la morte di suo marito non è stata casuale.


Il finale sarà inevitabile, prevedibile forse fin dalla prive pagine, ma non privo di emozione. Un destino che si compie tragicamente, una vita vissuta e terminata nella solitudine più desolante, perché ancora più desolante di un uomo solo c’è una donna sola. Una storia che mi è entrata dentro come un pugno, perchè più volte mi sono rispecchiata nei suoi gesti, nei suoi pensieri intrisi di malinconia, in quel senso di vuoto interiore contro cui non si può combattere. Perchè ci si può ribellare al dolore, ma al nulla no. Ha risvegliato in me sensazioni che avevo dimenticato, ricordandomi quanto labile e sottile sia il filo che tiene insieme i cocci di ognuno di noi, pronti a frangersi come cristallo non appena cadiamo vittima di storie sbagliate.


Si sentiva così infelice che avrebbe potuto mettersi a piangere per strada. Era sola, più sola di chiunque altro. Che sarebbe successo se fosse caduta sul marciapiede? Un passante sarebbe inciampato sul suo corpo, qualcuno si sarebbe fermato, l’avrebbero portata in una farmacia e un agente avrebbe tirato fuori dalla tasca un taccuino. “Chi è?”. Nessuno avrebbe saputo rispondere.

Mentre la solitudine di Dominique  ci soffoca pagina dopo pagina, sullo sfondo si muove una Parigi che è lo specchio delle sue inquietudini, con l’alternarsi delle stagioni ora roventi ora bagnate da una pioggia battente, il rumore del traffico notturno, i bistrot affollati. Una città che freme di vita, in cui  smarrirsi è un battito di ciglia.

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“Il porto delle nebbie” di George Simenon: lupi di mare e antiche vendette

Il protagonista di questo romanzo non è Maigret, e nemmeno l’assassino a cui sta dando la caccia. Il vero protagonista di questo giallo è la piccola cittadina portuale di Ouistreham, nella bassa Normandia, imprigionata da una nebbia sottile che non molla mai la presa. Il romanzo è interamente ambientato in un’atmosfera che, riprendendo le parole di Simenon, non si può definire sinistra perché “è un’altra cosa, una vaga inquietudine, un’angoscia, un’oppressione, la sensazione di un mondo sconosciuto al quale si è estranei, e che continua a vivere di vita propria intorno a noi”. Se dovessi definire in una frase sola la nebbia non avrei saputo trovare parole più adatte di quelle che ha usato Simenon, un autore che amo moltissimo e che non smette mai di sorprendermi. Il suo stile è perfetto: essenziale ed intenso, non si perde mai in inutili descrizioni nemmeno quando deve aiutarci a sbrogliare  ingarbugliate matasse fatte  di assassini, lupi di mare e antiche vendette mai portate a termine.
Una massa scura nell’oscurità. Un puntino luminoso sul ponte. Un altro, quello in cima all’albero, che pareva già una stella smarrita in un cielo da fortunale.
Ouistreham è un susseguirsi di tipiche abitazioni marinare, perennemente avvolte dalla penombra e dall’aria elettrica che precede la tempesta, la cui vita segue il ritmo dei lavori portuali. Alle prime luci dell’alba le attività del porto sono già in pieno fermento: canali, chiuse, chiatte a motore, pescatori e marinai pronti a salpare animano la banchina fino a sera, quando la nebbia arriva a posare il suo velo di inquietudine sull’operosa borgata. A quell’ora è la bettola del paese ad animarsi, la “Buvette de la Marine”. Dal tramonto fine a notte inoltrata il fumoso locale, l’unico luogo di ritrovo del paese, si trasforma in un teatro in cui ognuno ha una storia da raccontare. Stivali di gomma entrano scalpicciando, berretti da marinaio vengono appoggiati su tavoli pieni di tacche, mentre l’acquavite ritempra dalle fatiche del giorno o di mesi interi. La suggestione esercitata dalla penna di Simenon su noi lettori è tale che  ci si scorda di tutto il resto: è facile dimenticare come in quel luogo che pare uscito da un quadro di Monet si nasconda in realtà una storia torbida, in cui tutti sembrano mentire e nascondere qualcosa. In effetti è proprio così: nessuno di loro dice la verità, perché hanno tutti paura che la polizia possa interferire con le loro miserie ed i loro segreti. Per la prima volta Maigret si trova osteggiato nella sua ricerca da un intero paese, proprio perché appartenente ad un’altra realtà. Un poliziotto parigino probabilmente non avrebbe mai saputo capire cosa significhi realmente essere un marinaio di Ouistreham: in quel porto sperduto della Normandia, in cui tutti si conoscono ed in cui la vita di mare detta le sue regole,  il rispetto e la dedizione nei confronti del proprio equipaggio sono una questione di vita o di morte. L’aspetto psicologico dei protagonisti ha come sempre una grande importanza ed anche questa volta costituisce l’elemento cardine su cui si basa tutta la vicenda. L’animo umano, con le sue molteplici sfaccettature e contraddizioni, è l’indizio che il nostro commissario non si dimentica mai di esaminare. Per Maigret il metodo razionale è secondario: è l’empatia che prova nei confronti delle persone a rappresentare quasi sempre la chiave di volta per la risoluzione del mistero.
E’ un caso poliziesco anomalo per Maigret sotto tanti aspetti,  non solo per il fatto che il commissario viene messo letteralmente “nel sacco” da un’intera comunità. La scoperta della verità arriva nelle ultime dieci pagine, ed è sorprendente perché Simenon non ha fatto altro che depistarci per tutta la durata del racconto: ci ha fatto smarrire nella nebbia, ci ha fatto spiare attraverso le finestre delle case, ci ha accompagnato a bere un boccale di birra a “La Buvette” senza concederci mai la possibilità di nutrire concreti sospetti. E’ strano inoltre leggere un episodio in cui la moglie non fa nessuna incursione, neppur minima, ed è ancora più raro non imbattersi in nessuna descrizione di Parigi. La vita parigina raccontata da Simenon mentre sposta Maigret da un capo all’altro della città è qualcosa di sublime, e dà ai suoi gialli quel tocco in più che li rende così speciali.
Ci ritroviamo quindi tra le mani un romanzo particolare, orfano di molti tratti caratteristici di Maigret ma ricco di fascinazioni e malìa. Un’atmosfera cupa ed opprimente, – a tratti quasi onirica – che Simenon riesce a trasporre in maniera magistrale sulla carta, un mistero fitto come la nebbia del porto di Ouistreham, antichi dissapori e questioni di “famiglia” mai risolte  che si celano tra la foschia e la bruma di una notte senza fine: divertimento e delizia allo stato puro.

“Il porto delle nebbie”, Georges Simenon (Gli Adelphi)

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“I fantasmi del cappellaio”, di Georges Simenon: dietro un apparente perbenismo

Amo molto Simenon, è uno di quei pochi autori che ho sempre voglia di leggere e rileggere, potrei farlo all'infinito senza stancarmi mai.  E' uno scrittore elegante e raffinato, che utilizza una prosa asciutta ed essenziale pur riuscendo a solcare le profondità della natura umana, mettendone in luce tutte le contraddizioni e gli aspetti  più affascinanti. Come sempre accade nelle sue storie a tinte fosche ( a parte la serie di Maigret, ça va sans dire) il delitto in sè fa da contorno alla storia, poiché la vera anima del romanzo è la psicologia dei personaggi attorno ai quali si snoda la vicenda. Il protagonista è un insospettabile uomo per bene, membro rispettato e attivo della piccola comunità in cui vive e lavora, la cui identità viene svelata fin dalla prime pagine. Pagina dopo pagina   Simenon ci conduce nel mondo interiore del cappellaio, tormentato e folle, sgretolando  quella facciata di apparente normalità  un pezzo dopo l'altro, fino alla scoperta della drammatica verità. L'atmosfera tetra e piovosa che pervade  tutto il racconto e la descrizione delle scene di vita domestica, spesso monotona, sono la perfetta trasposizione di sentimenti altrettanto cupi, annidati tra le pieghe di giornate sempre uguali, scandite dal  ritmo ordinato dei rituali quotidiani.
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La normalità che nasconde come un manto sottile la fragilità della psiche umana: questo è ciò che Simenon vuole farci comprendere attraverso la storia del cappellaio e del sarto ebreo, suo dirimpettaio. L'altro protagonista di questa storia nera è infatti il sarto armeno Kachoudas, povero ed emarginato, che da sempre ha l'abitudine di spiare la vita borghese del cappellaio Labbè, per il quale nutre un misto di invidia e di perversa curiosità. Da tempo infatti il sarto ha notato qualcosa di strano nelle attività domestiche del cappellaio, cominciando così a nutrire gravi sospetti su quell'uomo così distinto, che la sera si ritrova al solito Cafè per bere un goccetto (per la verità ben più di uno) e  giocare a bridge insieme agli altri notabili di La Rochelle. Una sera però, Kachoudas vede qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. Labbè, accortosi dell'incidente, anzichè temere di essere denunciato alla polizia se ne compiace. E' stato scoperto, ma considera questo fatto come una cosa positiva per lui, quasi un vanto, convinto com'è  che il sarto sia troppo pusillanime per agire contro di lui e che in realtà lo ammiri per il suo ardire. Il cappellaio, forte della buona reputazione di cui gode,  può perciò continuare ad agire impunito senza destare sospetti in paese, nascondendo la miseria delle sue azioni come si fa con la polvere sotto i tappeti.

E' un romanzo particolare, un giallo atipico in cui nonostante le rivelazioni iniziali  l'autore riesce comunque a mantenere alto il livello di tensione e di pathos: a condurci nel fitto della storia non saranno quindi le indagini di polizia, ma sarà il duello tra il cappellaio ed il sarto a tenere viva l'attenzione. Tra i due si crea un rapporto malato fatto di verità sottaciute, di incontri silenziosi, di dialoghi che non avverranno mai se non attraverso sguardi inequivocabili. Simenon come in un gioco di specchi mette uno di fronte all'altro, mischia la colpevolezza del cappellaio con l'omertà del sarto trasformandoli uno nella coscienza dell'altro, due realtà contrapposte eppure così simili nei loro tormenti. Un silente conflitto  che metterà entrambi a dura prova, ognuno a confronto con i propri fantasmi interiori, fino all'inevitabile epilogo. Quando il logorio interiore di Labbè giunge il culmine,  quel senso di superiorità distorto che lo pervade  va in frantumi, ed accoglie quasi con sollievo la verità che viene a galla. Tutto si sgretola: non solo la facciata di perbenismo che protegge Labbè, ma anche la piccola provincia francese con  le sue  abitudini consolidate, i suoi pregiudizi ed i suoi archetipi viene travolta e distrutta dall'incedere delle vicende.
Labbè il cappellaio benestante, rispettato e conosciuto da tutti, e Kachoudas, il sarto armeno che non può integrarsi nella piccola comunità di La Rochelle, misero e quasi invisibile, sono i simboli di quello status quo borghese verso il quale Simenon muove sempre critiche spietate, divertendosi a rovesciare preconcetti e ruoli prestabiliti.Questo romanzo al suo esordio rappresentò una novità assoluta a causa della particolare costruzione narrativa, che per la prima volta rivelava l'identità dell'assassino all'inizio della storia, ponendo al centro di tutto l'indagine psicologica dei protagonisti. Quello che ci resta, a distanza di quasi settant'anni, è un volumetto prezioso, un autentico gioiello della letteratura che non conosce mode.

I fantasmi del cappellaio – Georges Simenon (Gli Adelphi)