“Strade di notte”, di Gajito Gazdanov: l’esilio dell’anima

Per chi già ha conosciuto ed amato Gajito Gazdanov in “Incontrarsi a Parigi”, in questo romanzo troverà la riconferma del suo grande talento letterario. Gazdanov nacque a San Pietroburgo agli albori del 1900, e dopo aver trascorso la giovinezza in Siberia ed Ucraina prende parte alla guerra civile russa arruolandosi nelle file dell’armata bianca. Nel 1920, in seguito alla sconfitta dei controrivoluzionari, fu costretto all’ esilio e si rifugiò a Parigi. Qui Gaznadov conduce un’esistenza precaria, svolgendo innumerevoli lavori che non gli permettono di coltivare a tempo pieno il suo talento letterario. Tra le varie mansioni che svolse in gioventù  vi fu anche quella di tassista notturno, e sarà  proprio questa l’esperienza da cui  trarrà ispirazione per comporre “Strade di notte”.

Le strade che ripercorre scrivendo sono quelle che una notte dopo l’altra l’hanno portato ad attraversare  il cuore nero di Parigi, quello popolato da miserabili e reietti, prostitute ed alcolizzati cronici capaci di sperperare tutto il guadagno di un mese  in un solo night club. La città vista attraverso i suoi occhi è nuda e scarna, è una giostra che ha finito la sua corsa e che non ha nulla del fascino de “La Ville Lumière”. E’ un altro sguardo quello che  ci offre Gaznadov, forse più sincero, sicuramente del tutto impermeabile alle suggestioni che Parigi offre ai suoi avventori. E’ uno sguardo distaccato, intriso di una invincibile nostalgia per la sua amata Russia che lo accompagna costantemente, fino a quando giunge l’ora di caricare anche l’ultimo vagabondo di Les Halles. Prima di prendere la licenza come tassista Gaznadov lavorò nella fabbrica della Renault per qualche tempo, ma dopo poco si licenziò perchè non riusciva a sopportare  quell’ esistenza da topo in gabbia, fatta di giornate sempre uguali, scandite dal suono della sirena ed inframmezzata da qualche sigaretta fumata insieme ai colleghi. Non riusciva a comprendere come facessero gli altri  operai a trascorrere una vita intera in quelle condizioni di staticità e di monotonia  che tanto facevano a cazzotti con la sua natura curiosa e ricca di sfumature.

Se avevo detto addio alla fabbrica non era per il troppo lavoro: ero sanissimo e non sapevo, o quasi, cosa fosse la stanchezza. Però non sopportavo di starmene rinchiuso in reparto, mi sentivo in gabbia e mi chiedevo come facessero gli altri a passare la vita, decine di anni, in quelle condizioni.

Il lavoro di tassista notturno gli permetteva se non altro di entrare in contatto con altri esseri umani, uomini e donne sull’ orlo del baratro che però muovono qualcosa dentro di lui. Sono, in fondo, i molti  riflessi di sè stesso, la compagnia perfetta per la sua solitudine, una  consolazione alla sua tristezza di esule.  Gaznadov riconosce nelle loro storie in bilico una disperazione che li è familiare,  in grado di donargli un conforto di cui ha assoluto bisogno. Non è necessario ascoltare le loro storie per conoscere le loro vite, non sempre: all’autore basta soffermarsi ad osservare i loro visi erosi dal tempo, inespressivi, rassegnati a non avere più prospettive, capaci solo di vivere il momento con un’intensità spaventosa, al tempo stesso tragica ed affascinante.

Ricordo in eterno il viso di una donna che ho incrociato una volta soltanto, tengo a mente per anni emozioni e pensieri di una singola giornata. L’unica cosa che dimentico con facilità sono le formule matematiche, le trame e i contenuti dei libri e manuali letti nel tempo. Le persone, invece, le ricordo tutte quante, anche se la stragrande maggioranza di loro non ha avuto alcun ruolo nella mia esistenza.

Qualcuno inevitabilmente attira più di altri la curiosità dell’autore, spingendolo a cercare la loro compagnia anche quando la corsa finisce: è così per la Raldi, una prostituta ormai sul viale del tramonto che ai tempi de La Belle Epoque era la più desiderata di Parigi, corteggiata da uomini ricchi e potenti, a cui ora non resta che qualche misero orpello a ricordarle i fasti di una vita passata.  E poi c’è Platone, un alcolizzato che Gaznadov incontra praticamente tutte le notti, alcune volte per caso, altre per scelta: è un uomo colto, che ama parlare di filosofia e che non ha nessuna speranza di redimersi. Forse, nemmeno la cerca. Una donna ed un uomo allo sbando, loro come  tanti altri che Gaznadov osserva dallo specchietto retrovisore, o sul ciglio della strada mentre aspettano di essere trascinati ancora un po’ lungo le strade buie dei quartieri suburbani. Ogni notte queste creature inconsapevolmente umane cercano la forza per andare avanti dissolvendosi tra bettole fumose e squallidi caffè, prima che il giorno li respinga ancora una volta nei bassifondi, inchiodati all’ angolo dallo sguardo impietoso della gente perbene.


Il senso di questo romanzo è tutto qui: offrire a noi lettori una prospettiva diversa, aiutarci a comprendere come la vita sia spesso attraversata da un gomitolo di strade malamente illuminate, come quelle che percorre lui ogni notte, così diverse dai lussureggianti boulevard del centro, ma non per questo meno degne di essere percorse. Ognuno dei suoi avventori ha una storia alla spalle che merita di essere raccontata ed ascoltata, da cui trarre profondi insegnamenti a dispetto delle apparenze: quello che Gaznadov impara, e noi lettori  con lui, non è altro che la vita stessa, con i suoi percorsi tortuosi, i suoi successi e le sue rovinose cadute, spesso annunciate ed inevitabili, alle quali assistiamo impotenti.

“Central Park”, di Guillaume Musso: molto più di un thriller

 
Immaginate di svegliarvi una mattina su una panchina di Central Park, e di non ricordare più nulla della notte precedente.  Il vostro ultimo ricordo risale ad una  piacevole serata trascorsa in compagnia delle amiche, sugli Champes Elysées. Nel Vecchio Continente, dall’altra parte dell’Oceano. Un giro di locali, parecchi drink e poi il risveglio in un luogo sconosciuto e distante ore di volo da casa vostra. Accanto a voi, ammanettato, c’è un uomo di cui ignorate l’identità: comincia così questo coinvolgente thriller di Guillaume Musso, scrittore di cui avevo sentito parlare ma di cui non avevo ancora letto nulla. Questa mi è sembrata un’ottima occasione per fare la sua conoscenza.
Sono le otto del mattino e Central Park è ancora avvolto  in un’aura di pacifica sonnolenza quando Alice e Gabriel si risvegliano ammanettati insieme su una panchina, in una zona interna e poco frequentata del parco. Lo sgomento iniziale diventa quasi panico nel momento in cui si rendono conto di come sono finiti in quel luogo così lontano dalle loro vite: la camicetta di Alice è sporca di sangue, ed ha in mano una pistola a cui manca una pallottola. Alice è una poliziotta della “Crim” di Parigi, mentre Gabriel è un pianista Jazz newyorkese che la sera precedente si stava esibendo in un locale di Dublino. Apparentemente quindi nessun legame unisce i due protagonisti, se non il fatto che entrambi la notte precedente si trovavano in Europa. E non ricordano nulla. L’istinto da segugio di Alice si risveglia immediatamente: non c’è tempo da perdere, bisogna agire in fretta per risolvere l’enigma e soprattutto per tirarsi fuori dai guai. Alice e Gabriel cominciano così un’indagine che è una corsa contro il tempo, in cui nulla è come sembra. Non voglio spoilerare nulla, quindi non farò altre allusioni alla trama: se deciderete di leggere questo thriller, sarà un sicuro piacere scoprire pagina dopo pagina quali segreti custodiscono i due protagonisti, quale intricata matassa devono sbrogliare mentre  dolorosi ricordi emergono poco alla volta dai meandri delle loro menti confuse.
 

Questa lettura tiene aggrappati alle pagine e non da nessuna tregua, il ritmo è affannoso e ansiogeno, carico di momenti di pathos e di tensione. Musso fa e disfa una matassa che sembra sempre sul punto di dipanarsi, per poi intricarsi ancora di più. Quando pensi di avere chiara la situazione, lui stravolge le carte in tavola e ti ributta dentro la storia con altre domande e nuovi dubbi. Fino alle ultime pagine, quando un finale che assolutamente non mi aspettavo  mi si è  rovesciato addosso con un carico da novanta, lasciandomi sbigottita, incredula e anche molto arrabbiata.

 
Sì caro Musso, questo non me lo dovevi fare. Non l’ho sopportato, l’ho trovato ingiusto e troppo duro da accettare, mi hai ingannata per 350 pagine e poi mi hai lasciata lì, ormai talmente coinvolta nella storia al punto che leggendo l’explicit mi sono venute anche le lacrime agli occhi. Mi sono commossa per la più crudele  storia d’amore che si potesse inventare. Amore per la vita, amore per la speranza. Sono sentimenti  che non si trovano facilmente in un thriller,  ed è anche questo ad avermi spiazzato completamente. Il destino che ha inventato per Alice è troppo accanito, troppo spietato. E anche se nelle ultime pagine ci lascia intravedere uno spiraglio di possibile felicità, non è sufficiente a stemperare l’eccessiva crudeltà con cui questa ragazza è costretta a fare i conti. Alice è un personaggio straordinario, che mi è piaciuto moltissimo per la sua energia e per la sua carica esplosiva. E’ una donna forte, una combattente. Ha un linguaggio diretto ed è abituata a decidere in fretta, il suo lavoro non le permette di indugiare e questo atteggiamento risolutivo e battagliero se lo porta dietro continuamente, perché fa  parte integrante della sua natura. E’ così anche nella vita privata: è una donna per la quale le mezze misure non esistono. E’ questo spirito indomito la sua carta vincente, quello che le ha permesso di fare carriera in polizia a soli trent’anni, ma è anche ciò che le ha causato molti guai nella vita privata. I rapporti  con la sua famiglia sono freddi e distaccati, perché la sua diversità non viene accettata. Sua madre e i suoi fratelli la compatiscono e la giudicano dall’alto delle loro vite da copertina, la guardano con commiserazione  perché è single,  perché non è elegante, perché da la caccia ai serial killer e passa le serate alla Crim. Nessuno la riesce a comprendere tranne suo padre, un famoso ex agente di polizia caduto in disgrazia. La sua vita privata, così come quella da poliziotta, subisce imprevedibili cambi di rotta tanto repentini quanto spiazzanti. Come sulle montagne russe, Alice alterna una  profonda  solitudine ad istanti di felicità intensa, per i quali pagherà uno scotto durissimo. E’ dotata di un istinto da cacciatrice che non si placa nemmeno per un attimo, per seguire il quale rischia tutta se stessa. E poi c’è Gabriel, questo sconosciuto che si risveglia accanto a lei, stropicciato ed affascinante, con lo sguardo affilato come la lama di un rasoio. La sua identità è avvolta nel mistero, un garbuglio che sembra sciogliersi per poi attorcigliarsi su sè stesso almeno un paio di volte. Quando pensi di aver capito finalmente chi è, ecco che la pagina dopo capisci che in realtà non hai capito proprio nulla. E’ come se Musso continuasse a giocare  a scacchi con i pensieri del lettore, facendo ogni volta la mossa giusta.
Potrei muovere diverse critiche a questo thriller, perché non è immune da difetti e soprattutto verso la fine l’autore  compie scelte narrative troppo spinte, decisamente oltre il limite della veridicità. Inoltre, sempre verso il finale, sconfina in qualche banalità sentimentale di troppo, cosa che  poteva tranquillamente evitare e che non convince. Però fa il suo dovere, e lo fa dannatamente bene. Un thriller deve tenere alta e costante la tensione nel lettore, e Musso ci riesce perfettamente. L’ho letto in soli tre giorni, tenendo accesa la luce dell’ abat-jour fino a tardi, nonostante le palpebre calanti e il sonno prepotente. Ma non potevo staccarmi, non riuscivo. Un bravo autore di thriller deve anche saper depistare: mentre i gialli classici solitamente tengono il lettore sullo stesso binario durante tutto il tragitto per poi farlo improvvisamente deragliare, Musso ci fa cambiare treno spesso, facendoci scendere ogni volta alla fermata sbagliata. Inoltre, cosa poco usuale nei thriller, ha saputo dare vita a personaggi per cui è facile provare una forte empatia. O almeno, con me è stato così. E’ questo il motivo per cui, alla fine, mi sono commossa pensando alla vita di Alice. Quando questo elemento manca il trasporto verso i protagonisti si esaurisce in fretta, o non compare nemmeno: quello che mi ha stupita è stato trovare così tanto pathos  in un genere letterario in cui le emozioni di solito non sono previste. Le motivazioni che spingono Gabriel ad agire in un determinato modo, che come si scopre nelle ultime pagine hanno retto i fili della storia fin dall’ inizio, sono piuttosto inverosimili e sbrigative. Penso sinceramente che  Musso abbia perso un’occasione per scrivere un finale degno del resto del libro. Però voglio tenermi tutto il buono che c’è, perché un buon thriller non si giudica solo dal finale ma da  come l’autore ha saputo giocare con noi. E Musso ha giocato la sua partita sapientemente, vincendo a mani basse.
 
 
 
Ci saranno mattine chiare e mattine cariche di nubi.
Ci saranno giorni d’incertezza, giorni di paura, ore vane e grigie nelle sale d’attesa che sanno d’ospedale.
Ci saranno parentesi leggere, primaverili, adolescenti, in cui persino la malattia riuscirà a farsi dimenticare.
Come se non fosse mai esistita.
Poi la vita continuerà.
E tu ti ci aggrapperai.
Ci saranno la voce di Ella Fitzgerald, la chitarra di Jim Hall, una melodia di Nick Drake, tornata dal passato.
Ci saranno passeggiate in riva al mare, l’odore dell’erba tagliata, il colore di un cielo tempestoso.
Ci saranno giorni di pesca con la bassa marea.
Sciarpe annodate per affrontare il vento.
Castelli di sabbia che terranno testa alle onde salate.
E cannoli al limone mangiati in piedi lungo le strade del North End.
(…) Ci saranno altre degenze in ospedale, altri esami, altri trattamenti.
E ogni volta sarai lì a combattere, la paura nella pancia e il cuore stretto, con l’unica arma del tuo desiderio di vivere ancora.
E ogni volta dirai che, qualunque cosa ti possa capitare adesso, sarà comunque valsa la pena di vivere tutti quei momenti che hai strappato alla fatalità.
E che nessuno te li potrà mai togliere”

 

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“I complici”, di Georges Simenon: una depravazione piccolo borghese

Georges Simenon è uno dei miei autori preferiti. I protagonisti delle sue storie sono quasi sempre uomini e donne in bilico, in lotta contro se stessi ed incapaci di accettare  il finto perbenismo della vita borghese di quei tempi. I  rituali consolidati, le apparenze che dovevano ingannare, la polvere nascosta sotto eleganti tappeti, i villini a schiera in cui riciclare le miserie di un’intimità domestica da tempo logora. Siamo negli anni cinquanta, e per la società conformista di quei tempi il mantenimento dello status quo era una questione di grande importanza. Una quieta sottomissione era di gran lunga preferibile a qualsiasi forma di rivolta : poco importava se poi, nel proprio intimo, una rabbia sorda corrodeva la quotidianità di alcuni, fino a  trasformarla in un fardello impossibile da portare avanti senza sbandare.
Questa storia si apre con un’immagine forte, inaspettata: un uomo e una donna stanno percorrendo una strada di campagna, una pioggia lieve ma costante ha  reso l’asfalto scivoloso ed il volante dell’auto è  governato da una sola mano. Accanto a Lambert  c’è Edmonde, la sua segretaria. Dietro di loro un autobus carico di bambini di ritorno da una gita scolastica sta terminando la  stretta curva, quando improvvisamente appare di fronte all’autista l’autovettura di Lambert che procede lentamente  a zig zag. Una manciata di minuti e accade la tragedia che spaccherà in due la vita di Lambert. Il pullman precipita in una scarpata ed immediatamente divampa  un incendio, lasciando un’unica piccola superstite a combattere tra la vita e la morte. Lambert, nei pochi minuti a sua disposizione, compie una scelta suicida: decide infatti di non voltarsi indietro e fugge via dal rogo disastroso, lasciando l’impronta dei pneumatici  sull’asfalto bagnato. Accanto a lui, EdmOnde non si scompone di un millimetro: non grida, non si agita, non lo guarda. Tutto quello che fa è abbassarsi con un gesto rapido e abitudinario la gonna, senza che trapeli la minima emozione. Quella fuga all’inizio destabilizza Lambert, che si interroga sul perché abbia istintivamente pestato sull’acceleratore anzichè prestare soccorsi ai feriti. Poi, poco alla volta, comprende la terribile verità. Lui ha bisogno di quella colpa, se la vuole sentire addosso totalmente aggravando la sua posizione con la fuga perché in questo modo costringe sè stesso a fare i conti con la propria vita, che tutto è fuorché esemplare. Lui non è un uomo perbene, non ha nulla dell’integrità morale che ci si aspetterebbe da una persona come lui, elemento di spicco all’interno della piccola comunità in cui vive. Insieme al fratello minore gestisce una  società di costruzioni lasciata in eredità dal padre, un lavoro ben avviato e redditizio da cui forse riesce a trarre l’unica  soddisfazione della sua esistenza. Edmonde è la segretaria dell’azienda. Da quando un giorno di alcuni anni prima la vide per la prima volta  praticare autoerotismo nel suo ufficio, ignara di essere vista, un desiderio furioso ed ottuso si impossessa di lui. Sempre senza dirsi nulla o confessarsi alcunchè diventano l’uno per l’altro  un gioco pericoloso, silenzioso e perverso. Un rituale che ha bisogno delle sue regole per svolgersi, e  che non ha nulla nè dell’amore romantico o del sesso occasionale: diventano, per l’appunto, complici.
L’avrebbe comunque portata in campagna, in un posto qualsiasi, e l’avrebbe posseduta selvaggiamente. Ne aveva bisogno. Bisogno soprattutto di provare a se stesso che erano loro due ad avere ragione, che quello era un loro diritto, che non c’era niente di sporco o di colpevole nel piacere che si davano l’un l’altro…di che cosa erano colpevoli, alla fine? E se non lo erano, perché, da quando conosceva Edmonde, si sentiva così spesso preda di una sorda inquietudine?

Lambert ed Edmonde sono uniti  nella loro bestialità, nel loro squallore, nella loro evasione da una quotidianità che non li appaga, insulsa, inutile, stanca. Quanto meno, questo è quello su cui riflette Lambert. Quello che pensa Edmonde non è dato saperlo: per tutta la durata del romanzo la ragazza è niente più che un oggetto inanimato, una donna che sembra non avere una vita interiore se non fosse per quel guizzo erotico che ogni tanto soddisfa da sola, o con l’aiuto di Lambert.  Lambert ha bisogno di questa complicità anche dopo l’incidente, fin dai primi istanti, quando in  quell’ attimo di indecisione prima di voltarsi indietro cerca in Edmonde uno sguardo di approvazione o di comprensione. Tutto quello che trova però sono due mani fredde,  intente a  sistemare l’orlo del vestito. E’ questo il punto più basso che raggiunge Lambert, il punto di non ritorno.

La sua vita è costellata di rapporti personali che non funzionano più, esauriti da tempo, logori e stanchi. Disprezza sè stesso e gli altri, con la stessa forza disperata. Dal momento dell’incidente i giorni si susseguono consapevole che prima o poi la polizia sarebbe giunta alla sua Citroen, ma quel pensiero non lo ossessiona. Non lo teme, anzi, quasi desidera che la questione si risolva presto, così finalmente pagherà per aver sciupato la sua vita, perchè – in fin dei conti – di quell’ incidente lui è solo il colpevole morale. Ben altri sono i suoi tormenti, le sue miserie, e le colpe che non può più espiare. L’unico motivo per cui tenta di sviare le indagini è per preservare quei momenti di intimità con Edmonde, gli unici istanti in cui gli sembrava di tornare a respirare. Come se quella fosse una porta che lo conducesse in un altro mondo, privo di regole bigotte, di felicità fittizie, di ipocrisie, di ruoli imposti e gabbie dorate.
Gli occhi di tutta la Francia sono rivolti a colui che credono l’assassino di 50 bambini, e mentre le indagini della polizia avanzano Lambert è costretto a ripercorrere ed analizzare tutta la sua vita: un matrimonio senza figli, una moglie che da anni lo rifiuta a letto, le prostitute che abitualmente frequenta, le amanti occasionali, il troppo bere, l’odio silente per il fratello dalla vita ineccepibile. Tutto gli appare privo di significato, insopportabile, ormai giunto al capolinea. L’ultimo fotogramma è l’esatto epilogo che mi aspettavo, l’unico possibile quando ormai il buio ha inghiottito l’anima dei disperati.
C’è qualcosa però in questo romanzo che non mi ha del tutto convinta, nonostante la straordinaria bravura dell’autore che come sempre   ha  saputo eviscerare alla perfezione sentimenti sbagliati e scomodi, tanto umani quanto abietti, creando atmosfere cariche di inquietudine e angoscia. Mi è sembrato che a volte il filo si spezzasse, ho colto delle incongruenze – soprattutto nel personaggio di Lambert – che mi hanno lasciata qualche perplessità. I suoi protagonisti sono sempre tutti un po’ maledetti, dei relitti, dei superstiti, talmente umani nelle loro fragilità che nonostante tutto ho sempre provato una specie di empatia nei loro confronti. Questa invece   è la prima volta che non riesco ad entrare in sintonia con nessuno: troppo squallore, troppa miseria umana. Non ce l’ho fatta, non ho provato nessuna “humana pietas” ed  ho detestato Edmonde e Lambert molto più del falso perbenismo contro il quale Simenon muove le sue critiche spietate.

I complici – Georges Simenon (Gli Adelphi)

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“Un favoloso appartamento a Parigi”, di Michelle Gable: la straordinaria vita di una “demie mondaine”

Quando ho acquistato questo libro ero perfettamente consapevole che non sarebbe stata la lettura della vita. Ci sono una quantità indescrivibile di romanzi che sono ambientati a Parigi: dagli autori all’ ufficio marketing delle case editrici, tutti nell’ ambiente sanno che non esiste lettore al mondo in grado di resistere a qualcosa che richiami alla mente la Ville Lumière, il lungo Senna, una bicicletta con il cestino pieno di baguette e pain au chocolat… Bastano pochi dettagli per vendere l’illusione che la storia, se ambientata a Parigi, acquisti più magia o frivolezza, e che qualsiasi banalità amorosa possa diventare a suo modo più interessante. Il titolo e la copertina civetta hanno gabbato anche me: sono caduta nella trappola con tutte le scarpe, perchè purtroppo all’autrice non è bastato infilare Parigi nel suo romanzo per farmelo apprezzare. Per scrivere di Parigi in modo credibile bisogna averla molto vissuta e amata, bisogna spogliarla dei suoi orpelli e scoprirne i segreti. Perché non è soltanto una città, è uno stile di vita, è una signora vistosa e pretenziosa, chic e decadente al tempo stesso. Michelle Gable, al suo esordio narrativo, cade in diversi clichè che personalmente ritengo banali e noiosi. Quando sembra che finalmente si sia tuffata a capofitto nell’ originalità che può salvarla, ecco che riemerge per poi perdersi nuovamente in qualche stereotipo da romanzo rosa.
L’idea di fondo è buona, motivo per cui non riesco a capire perchè l’autrice non abbia cercato di svilupparla meglio piuttosto che andare avanti con pane amore e fantasia.
Tutto comincia quando April, trentacinquenne antiquaria di New York, viene contattata dalla divisione europea del suo ufficio per fare una stima del mobilio ritrovato in un magnifico appartamento risalente alla Belle Epoque, rimasto chiuso e disabitato per molti anni. April è appena stata tradita dal marito, e dentro di lei regna la confusione e la paura: questa sembrerebbe proprio l’occasione giusta per prendere le distanze dalla sua imperfetta vita newyorkese e cercare di riflettere sull’ accaduto. E così accetta, senza pensarci su due volte. Si catapulta a Parigi e viene letteralmente travolta da ciò che le si paventa davanti agli occhi: il tesoro che quell’ appartamento contiene è di un valore inestimabile, un tripudio di raffinati oggetti dei primi del novecento, un’autentica visone.
In particolare April rimane colpita da un ritratto di Giovanni Boldini, uno degli artisti più importanti del periodo, che rappresenta una donna bellissima ed intrigante, molto probabilmente l’originaria proprietaria dell’immobile. Scoprirà presto che la donna del dipinto è Marthe de Florian, figlia illegittima di Victor Hugo e amante di Boldini, che all’epoca del ritratto era nel pieno fulgore della sua vita di cortigiana, o come si diceva allora “demie mondaine”. Insieme ai suoi oggetti April ritroverà anche i diari della donna, grazie ai quali intraprenderà un’appassionante viaggio nel tempo che le farà dimenticare per un po’ i suoi problemi personali. La vita di Marthe è un guazzabuglio di amori e di ricerca spasmodica di una felicità che fin da bambina le è mancata. Una volta scappata dalla casa di accoglienza in cui ha sempre vissuto, per sfamarsi comincerà a lavorare come barista a Les Folies Bergeres.
Grazie alla sua indiscutibile bellezza riuscirà ad attirare i favori di molti uomini, riccastri dell’alta borghesia che la mantengono in cambio di qualche ora d’amore spensierato. Una situazione questa piuttosto comune negli ambienti modaioli di quegli anni. Il termine “demi mondaine” fu coniato da A. Dumas figlio, che intitolò in questo modo una sua commedia (Le demi-monde) in cui rappresentò per l’appunto un certo tipo di società parigina, della quale facevano parte le donne di bassa estrazione sociale come Marthe. Grazie al loro modo di vivere spregiudicato e impudico queste donne riuscivano ad insinuarsi negli ambienti più raffinati, dove però i loro facili costumi suscitavano scandalo e vergogna tra i benpensanti. Un ambiente corrotto e pieno di amorazzi, che non era né borghesia né vero “gran mondo”: questo, secondo me, era l’argomento cardine su cui doveva svilupparsi il romanzo. Sarebbe stato molto più interessante scoprire qualcosa in più sulla vita parigina di quel periodo anziché condannare il lettore a continui balzi temporali tra i primi del 900 e i giorni nostri, tra gli amori di Marthe e quelli di April.
Le vicende amorose di April ve le risparmio, è scontatissimo il suo fatale incontro con un parigino DOC, un moderno dandy in cui si imbatte per motivi di lavoro, come altrettanto scontato è lo sviluppo della storia tra i due. April ha anche molti problemi irrisolti con la sua famiglia di origine, soprattutto con la madre, per cui la sua fuga da New York diventa un rifugio in cui vorrebbe restare per sempre. La Parigi attuale che viene raccontata è tutta un susseguirsi di cliché e di banalità da turista cui accennavo all’ inizio, alla quale i guai di April fanno da contorno. E la Parigi della Belle Epoque, invece? Perché lasciarla nell’ ombra? L’autrice avrebbe  almeno potuto provare a compiere un bel viaggio nel tempo senza limitarsi a farci intravedere la Ville Lumière a pizzichi e bocconi, come se leggessimo un qualunque libro di storia. E la povera Marthe poi, ne esce davvero male. Attraverso i suoi diari, che all’ interno del libro sono pubblicati come intermezzo tra le vicende contemporanee, impariamo a conoscere la vita di questa ragazza spregiudicata, ma il ritratto che ne esce fuori è quasi ridicolo. I diari così come sono trascritti sono pieni di punti di sospensione, punti esclamativi, frasi come “Oooooh Gesù! Non è fantastico?? Che emozioneeee!!” (e via dicendo…) Quello che ho intuito è che l’autrice avrebbe voluto, attraverso una scrittura frizzante, far emergere la gioia di vivere e la spensierata gioventù di una ragazza che cerca disperatamente di farsi strada in un mondo che sembra non avere  posto per lei, ma non ci riesce granché. Marthe alcune volte risulta di un’ antipatia e di un’ idiozia tale che verrebbe voglia di gettare il libro fuori dalla finestra. Anche quando soffre, è tutto uno sdilinquimento. Insopportabile. Una “Zia Mame” di quart’ ordine, per intenderci.

Immagino che sia ora di accettare la verità: questa è la fine, per noi. Niente più Boldini. Niente più pigre mattinate nel suo studio. Niente più passeggiate serali nel suo cortile o ai Giardini del Lussemburgo. Perlomeno, anche i mal di testa dovuti ai fumi della pittura e gli scoppi di collera artistici smetteranno di far parte della mia routine giornaliera. Un risultato dolce amaro, di sicuro. L’amore che abbiamo costruito nel corso dei mesi è svanito, come se non ci fosse mai stato.”

Personalmente  avrei voluto leggere qualcosa di più riguardo quest’epoca favolosa in cui il nuovo secolo appena iniziato rappresentava una promessa di felicità e di benessere, avrei voluto assaporare attraverso le pagine quell’ottimismo diffuso che ha reso possibile invenzioni straordinarie come la radio, l’automobile, il cinema, l’illuminazione elettrica. Un periodo storico felice in cui l’ Europa era in pace da trent’ anni, e la vita veniva celebrata in ogni sua espressione: caffè gremiti di avventori, locali notturni, spettacoli teatrali, manifesti pubblicitari, negozi eleganti. Le persone avevano voglia di stare bene, di uscire la sera, di divertirsi. Sarebbe stato affascinante compiere questo viaggio nel passato attraverso gli occhi di Marthe, se solo l’autrice fosse riuscita a renderle giustizia
Come avrebbe scritto la mia professoressa di italiano alla fine di un tema:
“Buona l’idea, insufficiente lo svolgimento.”
Riprovaci Michelle!

Un favoloso appartamento a Parigi – Michelle Gable (Newton Compton)

“Una piccola libreria a Parigi” di Nina George: quando i libri curano l’anima

A Parigi c’è una libreria galleggiante, ormeggiata lungo la Senna. E’ una vera e propria imbarcazione: una specie di chiatta a motore. Il suo proprietario si chiama Jean Perdu, e vent’ anni fa acquistò la LULU’ per ristrutturarla e creare così la sua “farmacia letteraria”. Questa è l’insegna che troneggia a prua della chiatta, perché non si tratta di una normale libreria ma di un luogo dove viene curata l’anima di chi entra. Secondo Monsieur Perdu i libri sono come medicine per i sentimenti guastati, quelli che fanno stare male. Ognuno di noi li ha, ma spesso siamo talmente abituati alla loro compagnia che non ce ne rendiamo più conto. Lui possiede la dote naturale di riuscire a percepire, per ogni cliente che entra a bordo della sua Lulu’, quale siano i sentimenti da rimettere a posto. Bastano qualche sguardo, qualche domanda, e il libro giusto arriva nelle mani del lettore giusto.

Volevo dedicarmi a quegli stati d’animo che non hanno lo status di malattia e che i dottori non degnano di attenzione. Tutte queste timide emozioni, i moti interiori, a cui nessun terapeuta si interessa perché probabilmente troppo piccoli o incomprensibili. Ciò che proviamo quando l’estate finisce di nuovo. O quando capiamo di non avere più tutta la vita davanti per poter trovare il nostro posto nel mondo. O anche i sottili dispiaceri per quando un’amicizia rimane in superficie e bisogna continuare la ricerca di un confidente. La malinconia che ci coglie la mattina del compleanno. La nostalgia dell’aria che respiriamo nell’ infanzia. E cose del genere.”


Ovviamente i libri non sono dottori. Ci sono romanzi che sono ottimi compagni di vita, altri sono come ceffoni. Altri ancora come un’amica che ti avvolge in una vestaglia calda quando l’autunno ti fa sentire malinconico. E alcuni sono come zucchero filato rosa, solleticano il cervello per tre secondi, lasciando dietro di sé un gioioso vuoto. I libri sono come le persone, e le persone sono come i libri: con questa semplice convinzione Monsieur Perdu riesce a trovare i libri per tutti.


Il romanzo che non ha ancora trovato, però, è il più importante: quello per aiutare se stesso. Da anni la sua vita ordinata e metodica nasconde un profondo dolore che ha ostinatamente deciso di confinare all’ interno di una stanza del suo appartamento. L’ha barricata e sigillata, insieme ad una lettera che giace lì da vent’ anni. Aprirla e leggerla cambierà la sua vita e quella di alcuni amici i quali, ognuno con il suo bagaglio di ottimi motivi, si ritroveranno a bordo della Lulù per un viaggio lungo la Senna, verso la Provenza e verso una felicità nuova e del tutto inaspettata.

Alla fine anche Monsieur Perdu ed i suoi strampalati compagni di viaggio riusciranno a trovare il libro della loro vita, ma non prima di aver affrontato il dolore e la paura che avevano scelto di ignorare. Questo romanzo è delizioso come una baguette calda, bizzarro, commovente, di quelli che fanno compagnia senza disturbare; ma è anche un po’ ruffiano, a cominciare dal titolo. Quale lettore non vorrebbe immergersi in un racconto che mescola ingredienti come Parigi, la Senna, la Provenza, il Tango, il buon cibo, i libri, e un paio di gatti randagi che portano il nome di grandi scrittori? A volte abbiamo bisogno di storie a lieto fine, di spensieratezza e di sognare ad occhi aperti: Monsieur Perdu vi guarderebbe di soppiatto, mentre entrate barcollando nella sua libreria galleggiante, ma capirebbe in un lampo che è la malinconia a rendere pesante i vostri passi. Vi ruberebbe lo sguardo una manciata di minuti per scorgere un velo di tristezza in fondo  ai vostri occhi, e poi, con l’aria di chi la sa lunga, vi regalerebbe questa storia.

Una piccola libreria a Parigi – Nina George (Sperling & Kupfer)

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“Ritrovarsi a Parigi”, di Gajito Gazdanov: l’amore come non lo leggerete mai

I libri  minuti e sottili spesso ci ingannano. Pensiamo che non potranno mai contenere nulla di particolarmente interessante o di particolarmente profondo, perché manca lo spazio fisico per esternare emozioni e raccontare storie. Eppure alcuni di questi sono scrigni che nascondono autentici tesori: sono frutto di autori dalla scrittura sopraffina, che riescono a compiere intensi viaggi nella vastità dei sentimenti umani condensando tutto in poche, sapienti pagine. “Ritrovarsi a Parigi” non è una storia d’amore, o meglio è una storia d’amore non convenzionale. Più che celebrare l’amore tra un uomo e una donna, in questo romanzo viene celebrato un bene assai più grande, da cui discendono tutti gli altri: l’amore per la vita.
Gajto Gazdanov nacque a San Pietroburgo i primi del novecento, ma crebbe tra la  Siberia e l’Ucraina. Prese parte alla Guerra civile russa tra le file dell’Armata Bianca e per questo motivo fu costretto, nel 1920, a lasciare la Russia. Decise  di stabilirsi a Parigi, dove  lavorò presso gli stabilimenti Renault, ed in seguito  come tassista.  Eppure aveva un grande talento, soprattutto era abile nell’ intessere trame da letteratura gialla a cui aggiungeva una grande attenzione  per i dettagli psicologici, che lo contraddistinguevano e che gli valsero ottime critiche. I suoi trascorsi politici  ed il fatto che visse tutta la vita da immigrato in un paese straniero non gli furono d’aiuto nel costruirsi una notorietà degna del suo talento. Le sue opere non vennero mai pubblicate nell’ Unione Sovietica: la sua grandezza di narratore venne riconosciuta soltanto postuma, quando in seguito allo scioglimento dell’ U.R.S.S.  vennero stampate  oltre cinquanta edizioni delle sue opere in russo. Un autore da riscoprire quindi, che molti paragonano a giganti quali Proust, Camus e Nabokov. La casa editrice Fazi ha recentemente pubblicato questo romanzo inedito, dalla copertina e dal titolo che catturano subito ed evocano suggestioni a cui non ho saputo nè voluto resistere: una storia tra un uomo e una donna, ma particolare; un’ambientazione in una città europea che per molti rappresenta il sogno, me compresa. Ed infine  un’epoca a cui sono particolarmente legata, parlando di letteratura, ovvero il periodo post bellico (anni cinquanta o giù di lì). L’ho letto in un paio di pomeriggi, durante il week end, stregata dallo stile minimalista di Gaznadov, che nulla ha a che vedere con la tradizione ottocentesca dei suoi compatrioti. Naturalmente siamo in un periodo letterario completamente diverso, ma di quella letteratura russa che spaventa la maggior parte di noi lettori qui non c’è traccia. E’ un autore contemporaneo, moderno, estremamente acuto e profondo, che sa dosare le parole mettendole con cura una dietro l’altra, nessuna lasciata al caso, nessuna superflua.
Dopo la morte della madre, Pierre Faurè decide di lasciare Parigi per trascorrere le vacanze di agosto in una piccola cittadina della campagna provenzale, a casa del suo amico François. Pierre è un uomo semplice che conduce una vita anonima e molto solitaria, svolge un lavoro piuttosto monotono (è contabile in una piccola ditta) e non ha nessuno slancio vitale. Non ha ambizioni, non ha desideri da coltivare. E’ convinto che gli uomini medi come lui siano destinati a condurre una vita ordinaria e ribellarsi a questa verità   sarebbe una fatica inutile.  Conduce un’esistenza sospesa, immutata, scivolando sopra gli accadimenti della vita noncurante e indifferente. Non è apatia, è piuttosto un desiderio inconscio di sottrarsi alla vita con tutte le sue complicazioni. Nè l’esperienza della guerra nè la prematura morte del padre riescono a far tuffare Pierre nella realtà, a cui preferisce sottrarsi per continuare la sua rassicurante routine fatta di casa, di lavoro, e della compagnia della madre.
Talvolta aveva difficoltà ad ammettere che una vita intera, con i suoi ricordi, le sue illusioni e le sue speranze, potesse ridursi a un susseguirsi di giorni così infinitamente monotoni: il mercato, il pranzo, la cena, le faccende domestiche – punto e basta, nient’altro, mai.
Quando la madre muore, lasciandolo solo, qualcosa in lui lentamente comincia a riaffiorare. Accetta l’invito del suo vecchio amico senza sapere bene il perché, ma  è proprio da questo piccolo ed inconsapevole gesto che inizierà sua rinascita. Il paese è piccolo e la casa immersa nel nulla di una fitta boscaglia, senza luce elettrica nè gas.  Le passeggiate tra i sentieri inondati di una luce pura, così diversa dal sole bianco parigino, e pervasi da un silenzio irreale, regalano a Pierre uno stato d’animo diverso e una nuova percezione di sè stesso.  In un mondo in cui il tempo e lo spazio appaiano immobili le sensazioni si dilatano, si amplificano e arrivano a toccare corde sconosciute. E’ in questa particolare condizione psicologica che l’uomo un giorno incontra Marie. La ragazza gli appare come un fantasma, sulla soglia della capanna in cui vive da quando la guerra è finita, in uno stato di totale incoscienza, come un animale selvatico. Il giaciglio sporco, le vesti luride, non parla, non interagisce con nessuno ed ha lo sguardo vacuo di chi osserva senza capire nulla di quello che vede. Nell’ istante in cui Pierre la vede  capisce che la sua vita forse non è inutilmente spesa, priva di scopo. La chiave di volta è rappresentata da questa ragazza, che decide a tutti i costi di portare con se a Parigi per salvarla, per aiutarla a ritornare a vivere. Sia il suo amico François che lo psichiatra che interpella cercano di farlo desistere, spiegandogli che non c’è speranza che Marie riacquisti la sua coscienza.  Pierre però non si arrende. Per mesi si occupa di lei, teneramente ed ostinatamente, la ama già ma nessuno dei due se ne rende conto. Pierre sta uscendo dal suo “status quo“,  mentre Marie lentamente ritrova la sua umanità, la memoria ed i ricordi. Ognuno di loro prende dall’ altro nutrimento, come piante avvizzite private a lungo della luce e dell’acqua.

E’ bellissimo scoprire, pagina dopo pagina, come Gazdanov  abbia per noi un piano diverso da quello che sembrerebbe ovvio e lineare: prende il suo protagonista e gli fa fare quello che nessuno avrebbe mai fatto, conduce noi lettori lungo una strada tortuosa, densa di significato e di risvolti psicologici. A volte terribili e a volte sublimi, dove il bene si nasconde in gesti impensabili e dove l’amore affiora e divampa con una forza incontenibile: amore per una donna, amore per un uomo, amore per l’esistenza.

Il mondo di Gaznadov è un mondo di una bellezza imperfetta e profonda, che merita di essere scoperto. Compratelo, leggetelo e poi fate come me: andate alla ricerca degli altri suoi romanzi. Ne rimarrete totalmente appagati.

“L’eleganza del riccio”, di Muriel Burbery: un sempre nel mai

La mia opinione su questo  romanzo è cambiata almeno tre volte nel corso della lettura. Mi ha continuamente sorpreso, suscitando un turbinìo di sensazioni ogni volta diverse. Sono partita con grandi aspettative perché ha avuto uno straordinario successo al suo esordio, avvenuto nel 2006, e da quel giorno la sua fama è cresciuta senza sosta. Con un certo dispiacere quindi mi ero quasi convinta ad abbandonarlo, cosa che detesto fare e che riservo solamente ai libri che mi procurano più fastidio che gioia. Il motivo è presto detto: la prima parte è tanto, troppo infarcita di filosofia, e chi come me non ha mai avuto un buon rapporto con la materia è facile che trovi i pensieri riportati un po’ ostici e faticosamente assimilabili.

Le protagoniste del romanzo sono due donne, una appena dodicenne e l’altra nel pieno della sua maturità. Sono estremamente diverse tra loro, non solo per un fattore anagrafico ma anche e soprattutto per la loro estrazione sociale e per il ruolo che loro malgrado rivestono nella comunità. Paloma è una ragazzina molto matura per la sua età, che abita con la famiglia in un lussuoso palazzo della “Parigi bene”; Renée invece è la portinaia. Nonostante la palese diversità, esiste qualcosa di insospettabile che accomuna le due donne: sono entrambe dotate di una spiccata intelligenza, molto superiore alla media, e possiedono una profonda cultura che per motivi diversi si ostinano a nascondere al prossimo. Paloma ha un rapporto difficile con la propria famiglia. La osserva con gli occhi di un’aliena, assolutamente incapace di adattarsi alla loro mediocrità: il padre è un parlamentare perennemente assente, la madre è superficiale e schiava di antidepressivi e sonniferi, mentre la sorella maggiore, Colombe, è una studentessa di filosofia della Sorbona che di intellettuale ha solo il titolo. E’ proprio lei quella che Paloma maggiormente disprezza, perché non riesce ad accettare il suo vuoto interiore e trova assurdo che una materia tanto nobile come la filosofia sia utilizzata da Colombe sono per darsi un tono, senza capirne l’immenso valore. Paloma cerca di nascondersi ai loro occhi e si sforza di apparire un’adolescente come le altre, infarcita di sottocultura come la maggior parte dei suoi coetanei. Abbassa il suo rendimento scolastico, legge fumetti a tavola e sostanzialmente non interagisce mai con i familiari, i quali non sospettano minimamente la verità. E’ convinta che la sua straordinarietà, se costretta a doverla condividere con i suoi familiari, le farebbe vivere un vero e proprio incubo. Paloma purtroppo pensa che la sua famiglia non sia altro che lo specchio della società in cui è costretta a vivere: sono gli esponenti a lei più prossimi, ma in generale non nutre una grande fiducia nell’ essere umano. Condannata dalla sua profonda ed acuta sensibilità ad isolarsi dal marciume di cui è circondata, prende una decisione lucida e cruda, con la quale si apre il romanzo. Prima di portare a compimento la sua opera decide però di scrivere un diario in cui annotare i suoi pensieri, le sue riflessioni più profonde riguardo l’animo umano e riguardo le cose tangibili, appartenenti al corpo, che sono in grado di instillare in lei la percezione della bellezza. E’ l’ultimo tentativo che è disposta a compiere per capire se dopo tutto la vita ha un senso che ancora le sfugge, qualcosa che la allontani da tutta quella mediocrità.

Al piano terra del lussuoso palazzo abita invece la portinaia Renée, altra anima solitaria e custode di un tesoro prezioso, costruito con anni di silenzioso apprendistato. Renée è vedova da diversi anni, ma nonostante una vita umile fatta di onesto lavoro e privazioni non ha mai vissuto la sua condizione piangendosi addosso, affliggendosi per il suo magro destino. Al contrario, ha fatto di tutto questo il suo scrigno. Ha cullato la sua solitudine arricchendola di conoscenza, imparando da autodidatta tutto quello che di meraviglioso ha creato l’uomo attraverso i secoli: filosofia, arte, letteratura, musica, cinema. Figlia di contadini della campagna francese, Renée ha dovuto abbandonare presto gli studi per affrancarsi dalla famiglia, nonostante avesse ricevuto in dono un’intelligenza fuori dal comune. Questa sua predisposizione per lo studio, unita ad un amore per l’arte in tutte le sue forme, l’hanno portata nel corso degli anni a costruirsi una solida ed ampia cultura, che si è sempre preoccupata di nascondere al prossimo. Anche per Renée infatti la superiorità del suo intelletto è vista come un qualcosa da proteggere, che se svelata porterebbe soltanto problemi. Un pensiero distorto che affonda le sue radici in un dolore antico, che ci verrà rivelato soltanto alla fine del romanzo. Renée cerca di impersonare fino in fondo il ruolo della portinaia, adattando persino il suo aspetto all’ immaginario collettivo: si trascura, è sciatta, veste male e non va dal parrucchiere da anni. Nascosta sotto uno strato di vecchi indumenti e celata dietro uno sguardo allenato a mantenersi inespressivo, la sua anima si nutre di quella bellezza che Paloma non sa più trovare. Per Renée tutto è bellezza, perché la sua anima ne è intrisa.

Madame Michel ha l’eleganza del riccio: fuori è protetta da aculei, una vera e propria fortezza, ma ho il sospetto che dentro sia semplice e raffinata come i ricci, animaletti fintamente indolenti, risolutamente solitari e terribilmente eleganti.

Il romanzo è un alternarsi tra i diari di Paloma e i pensieri di Renée, che nella prima parte mi hanno quasi mandato fuori strada. Come dicevo all’ inizio ero sul punto di mollare, perché ho trovato quel continuo filosofeggiare di Renée eccessivo e senza uno scopo narrativo. Mi sembrava di girare in tondo, persa nei ragionamenti complicati che la portinaia esterna anche quando compie i gesti più semplici. Ogni considerazione, anche la più banale, è ridondante di pensiero filosofico. Ho pensato che se il libro era davvero un continuo rimbalzare tra il rimuginare di Paloma e il filosofeggiare spinto di Renée, non ce l’avrei fatta a proseguire e mi sarei arenata su una pagina a caso. Poi improvvisamente tutto cambia ed acquista un senso, cambia il ritmo del romanzo e cambia anche la mia opinione sulla faccenda. Nella vita delle due donne irrompe un ricco signore giapponese, Monsieur Ozu, nuovo inquilino del lussuoso palazzo. E’ colto, affascinante, e come Renée ha una passione per Anna Karenina. E’ proprio una citazione del romanzo, buttata lì per caso da Monsieur Ozu, ad innescare la miccia del cambiamento: sentendo quella frase così nota Renée ha un lieve sussulto, che le illumina gli occhi. Nessun condomino se ne sarebbe mai accorto, tranne Monsieur Ozu. Lui è diverso, perché sa guardare oltre le apparenze e perché i preconcetti non fanno parte della sua natura. Ha riconosciuto in Renée una persona a lui affine, e per questo desidera approfondire la sua conoscenza: la inviterà a pranzo nel suo appartamento, e poi ad un tè pomeridiano per godersi insieme uno di quei film giapponesi che Renée ama tanto. E’ proprio vero che quando si innesca la miccia del cambiamento gli avvenimenti cominciano a susseguirsi con una rapidità sconcertante, come se il tempo prima fosse stato immobile, congelato nelle vecchie abitudini. Dopo aver fatto amicizia con Monsieur Ozu Renée farà la conoscenza anche di Paloma, che riconoscerà come spirito affine: due anime solitarie costrette a nascondere la loro cultura al mondo, paradossi viventi in una società in cui l’apparenza conta molto di più della sostanza.

Stasera, ripensandoci, con il cuore e lo stomaco in subbuglio, mi dico che forse in fondo la vita umana è così: molta disperazione, ma con qualche istante di bellezza dove il tempo non è più lo stesso. È come se le note musicali creassero una specie di parentesi temporale, una sospensione, un altrove in questo luogo, un sempre nel mai.
Sì, è proprio così, un sempre nel mai.”

Il romanzo si conclude in modo inaspettato, almeno per quanto riguarda Reneè, che ho finalmente imparato ad amare e a comprendere nella sua stravaganza e nel suo chiudersi al mondo. Per quanto riguarda Paloma invece ho tirato un sospiro di sollievo: quello che cercava, quello su cui ha provato a riflettere per mesi attraverso le pagine del suo diario, l’ha trovato infine nella guardiola di una portinaia sciatta ed invisibile agli occhi dei ricchi condomini. In lei ha trovato l’autentica bellezza, quella che non arriva dagli abiti assurdamente costosi di sua madre o dai lineamenti perfetti di sua sorella, ma quella che arriva dall’ amore e dal rispetto per la vita.


L’esistenza di tutti è pregna di dolore e sofferenza, ma se nel pieno delle nostre tragedie siamo in grado di scorgere anche un solo istante di pura bellezza, allora forse saremo padroni del vero significato della vita. Quell’ istante diventerà eterno: un sempre nel mai.


L’eleganza del riccio – Muriel Babery (Edizoni E/O)

“Shakespeare and Company”: la libreria più visitata del mondo

A Parigi, in uno degli angoli più caratteristici de ”la rive gauche”, e precisamente in Rue de la Bucherie n.37, esiste un luogo che sembra uscito fuori dal tempo e dallo spazio. Un antico edificio situato in una delle vie più note, le cui finestre si affacciano nientemeno che sull’ abbazia di Notre Dame, ospita dal 1951 la libreria più famosa e visitata d’Europa: la “Shakespear & Co.” Il suo proprietario, George Whitman ( come altro poteva chiamarsi?) l’ha sempre definita “un’utopia socialista mascherata da libreria”: l’originale signore infatti dentro il suo negozio non offriva soltanto buone letture da acquistare, ma anche libri da leggere senza nessun impegno e soprattutto metteva a disposizione, per tutti i viaggiatori che desideravano un alloggio temporaneo, alcuni giacigli tra gli scaffali. A patto però che fossero lettori veri, scrittori, poeti o aspiranti tali. Lui definiva queste persone “tumbleweed”, il termine con cui gli americani chiamano quelle palle di sterpi e ed erba secca che rotolano lungo le strade dei paesaggi desertici, sospinte dal vento. Il prezzo da pagare in cambio? Dare una mano in negozio e leggere almeno un libro al giorno. Non so se questo aneddoto sia realtà o leggenda, ma posso testimoniare che i letti tra i libri esistono davvero e, almeno la domenica in cui sono capitata io, erano occupati da persone che dormivano tranquillamente, incuranti del via vai dei visitatori. Il motto di questo rifugio per letterati itineranti dice così: “Sii gentile con gli sconosciuti, perché potrebbero essere angeli nascosti”. Chi ha conosciuto George Whitman sostiene che fosse gentile anche con i ladri: nonostante avesse pescato con le mani nel sacco diversi giovani non ha mai denunciato nessuno, perché sosteneva che se fossero finiti in prigione allora lì avrebbero davvero imparato a rubare. E’ morto nel 2011 a 98 anni, leggendo sempre, fino all’ultimo giorno, in compagnia della figlia Sylvia e degli amici più cari. Era un visionario, un sognatore, un socialista americano del New Jersey che non ha mai svenduto i suoi ideali, detestava il consumismo e amava intensamente la vita, in quel modo antico e sapiente che nessuno conosce più. George era un uomo unico, ed ha saputo trasferire questa sua unicità anche alla sua libreria, facendola conoscere ovunque nel mondo. Fu frequentata dai maggiori esponenti della letteratura internazionale degli ultimi 50 anni, e nel tempo è diventata così famosa che perfino Woody Allen nel suo film “Midnight in Paris” la inserisce tra i luoghi che è d’obbligo visitare per un turista americano in viaggio a Parigi, al pari dei monumenti nazionali. Ma questo è un dettaglio, perché la Shakespear & Co. era arcinota ben prima che il regista l’omaggiasse nel suo film. La sua fama non deve rendere grazie ad abili strategie di marketing e pubblicità di questo tipo, perché la notorietà Whitman se l’era costruita giorno dopo giorno, rimanendo fedele alla sua idea di cultura, che per lui era un vero e proprio stile di vita. Ha creato il suo negozio come se fosse lo specchio della sua anima errante ed utopistica, tanto che la figlia ama paragonarlo al più grande sognatore che la letteratura di tutti i tempi ci abbia mai regalato: Don Chisciotte di Cervantes. Whitman credeva davvero che la vita comunitaria in questo luogo fosse possibile e necessaria: viveva qui, con la porta del negozio aperta sette giorni su sette, dal mattino fino alle 23, dopo di che chiudeva i battenti. Per la figlia Sylvia vivere e lavorare con un visionario così fuori dagli schemi è stato, per sua stessa ammissione, al tempo stesso gratificante e frustrante. Era uno spirito anticonformista che con la sua profonda cultura e il suo desiderio di scambio fra esseri umani stimolava e incoraggiava chiunque avesse intorno a dedicarsi alla scrittura e alla poesia, ma rifiutava qualsiasi tipo di innovazione. Non aveva senso pratico e secondo lui tutto doveva rimanere al suo posto. Aggirandosi tra quei volumi, spesso vecchi ed introvabili, di cui tantissimi in inglese, si rimane intrisi di un qualcosa di indefinibile, una sensazione che è un misto di nostalgia e di meraviglia. E’ difficile rendere l’idea. Gli interni in legno, le scale alte e strette che cigolano ad ogni passo, i libri ingialliti che rivestono intere pareti da cui non filtra nemmeno uno spillo di luce, i divanetti stinti, i post it colorati con dediche e versi scritti da chissà chi appiccicati alle bacheche: tutto contribuisce a trasportarci in un’altra dimensione.

Si prova un senso di perdita per un mondo che si è inevitabilmente trasformato, e si prova stupore  perché noi, che non siamo più in grado di stare un’ora senza il nostro smartphone, qui non ci verrebbe mai in mente di chiedere la connessione WiFi. Anche senza internet, questa finestra temporale che si apre al nostro ingresso è in grado di proiettarci in luogo in cui é possibile incontrare l’intero pianeta.

Non hai bisogno di viaggiare per il mondo”, diceva George alla figlia Sylvia, “qui è il mondo che viene da te”.

La storia di come nacque questa libreria è affascinante come uno dei tanti romanzi che qui hanno trovato la loro dimora. Whitman si laureò in giornalismo a Boston nel 1935, ma non si dedicò mai alla carriera. La sua indole vagabonda e curiosa lo portò a viaggiare attraverso gli Stati Uniti, il Sud America, l’Asia, addirittura la Groenlandia, oltre che in Europa. Poi, nel 1945, il definitivo ritorno a Parigi, che da quel momento  divenne la sua casa. Nel 1951 apre la sua libreria, che in origine chiamò “Le Mistral” in onore della sua fidanzata dell’epoca. Cambiò successivamente nome in “Shakespear & Co.” nel 1964, per una concomitanza di cause: la storia di questo nome è collegata sia al 400 esimo anniversario della nascita del grande drammaturgo, che cadeva proprio quell’anno, ma soprattutto fu legata ad un’altra vicenda. Un’emigrata statunitense di nome Sylvia Beach aprì originariamente la Shakespeare & Co. al numero 8 di rue Dupuytren, nel 1919. Il locale fungeva sia come negozio di libri vero e proprio sia come sala di lettura. Nel 1921 la Beach spostò la libreria al 12 di Fue de l’Odéon, dove rimase fino a quando fu costretta a chiuderla, nel 1941, in piena occupazione nazista. Durante questo periodo la Shakespeare & Co diventò il centro della cultura anglosassone in Francia.

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Sylvia Beach con Ernest Hemingway davanti all’originaria “Shakespeare & Co.”

Intorno alla Beach e alla sua libreria hanno gravitato scrittori e artisti della cosiddetta “generazione perduta” e tanti altri: Ernest Hemingway, Ezra Pound, Francis Scott Fitzgerald, Gertrude Stein,George Antheil, Man Ray , Henry Miller, Anais Nin, Ray Bradbury e James Joyce passarono molto tempo al suo interno ad animare i salotti letterari, incontri che all’epoca erano fondamentali per il loro lavoro. La Shakespeare & Co ed suoi frequentatori furono menzionati proprio da Hemingway in “Festa mobile”, il romanzo in cui racconta gli anni della sua vita parigina quando ancora era uno scrittore di belle speranze. Sylvia Beach era la padrona di casa ideale per questi salotti, apprezzata per le sue idee anticonformiste e perché metteva la passione per la cultura davanti a tutto: qui in Francia faceva circolare titoli banditi in Inghilterra e negli Stati Uniti, come “L’amante di Lady Chatterley” di D.H.Lawrence o l’”Ulisse” di James Joyce. Proprio quest’ultimo, posto sotto censura in quei paesi, in Europa venne stampato per la prima volta nel 1922 dalla Beach. Il colpo di grazia che causò alla donna la chiusura definitiva dell’attività fu il suo rifiuto di vendere ad un ufficiale nazista l’ultima copia di “La sveglia di Finnegan” di Joyce. Anche Whitman capitò nella libreria della Beach, assistendo a diversi incontri letterari. Quando scelse di cambiare in “Shakespear & Co” il nome della sua libreria sicuramente lo fece nell’intento di proseguire in qualche modo il lavoro svolto dalla Beach, dando continuità al suo pensiero libero e ribelle, trovando in lei ispirazione ed esempio. E lo fece talmente bene, in modo così originale ed appassionato che le sue idee  sopravvissero ai tempi e alle mode. Per lui, così come fu per la Beach, la diffusione della cultura e la possibilità di renderla fruibile a tutti erano alla base della loro idea di comunità. Fu così che ancora una volta questa libreria, seppur cambiano luogo e proprietario, diventò il punto di riferimento per le correnti letterarie del periodo: gli esponenti della cosiddetta “Beat Generation”, tra i quali Allan Ginsberg e il suo compagno Peter Orlovsky, facevano tappa fissa da Whtiman, organizzando memorabili circoli letterari. Ancora oggi scrittori come Paul Auster e Jonathan Safran Foer si ritrovano spesso in Rue de la Bucherie n.37, partecipando agli incontri che oggi sono seguiti dalla figlia di George ( che tra parentesi chiamò Sylvia proprio in onore della Beach). Nonostante l’evolversi naturale dell’attività commerciale, che ha dovuto adeguarsi ai tempi più per necessità che per convinzione, la figlia ha voluto lasciare intatta il più possibile la tradizione. Oggi nel negozio sono presenti wireless, telecamere di videosorveglianza e, naturalmente, pc e tablet: dopotutto, siamo pur sempre nel 2018. Però, se dal piano terra in cui sono allocati i libri di nuova pubblicazione saliamo al secondo piano, ecco che troviamo l’angolo dei poeti:

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un piccolo cantuccio con una panca rivestita di una sbiadita stoffa rossa,  e tutt’intorno post it lasciati dai poeti di passaggio con scritti versi, frasi, omaggi, saluti. In uno dei corridoi che collegano una stanza all’altra c’è una nicchia, ricavata tra gli scaffali, che contiene al suo interno una postazione da scrittore: scrivania, sedia, e macchina da scrivere risalente agli anni cinquanta perfettamente funzionante, a disposizione di chiunque voglia cimentarsi nella scrittura. Sparsi un po’ dappertutto ci sono letti e divani ricavati tra gli stretti spazi delle stanze, piccole ma stracolme di volumi. All’ingresso, poco dopo aver varcato la soglia, il motto di George Whitman saluta i suoi avventori:

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E’ stata la generosità che ricevette George durante il periodo trascorso da “nomade” ad ispirare in lui il desiderio di offrire la stessa ospitalità ai giovani letterati che ne facevano richiesta, e ancora oggi la figlia Sylvia offre lo stesso incoraggiamento a chi vuole fare questa esperienza di viaggio, di vita e di lavoro. Non c’è la possibilità di prenotare perché decide lei se accettare o meno la richiesta di alloggio ed il prezzo è lo stesso che ha sempre chiesto suo padre: motivazione, un paio di ore di lavoro in libreria, leggere almeno un libro al giorno e una breve biografia da poter conservare nel loro personalissimo libro degli ospiti.

Il mondo è cambiato, la letteratura è cambiata, ma non lo spirito di chi la ama, ed è questo che voleva mantenere in vita George. E’ quello che ha permesso alla sua libreria di passare indenne attraverso le innovazioni tecnologiche ed i grandi bookstores, e che ha dato carattere e personalità ad un angolo come tanti di Parigi, trasformandolo in un crocevia di culture differenti.
George Whitman, forse il più grande utopista degli ultimi cinquant’anni, socialista, idealista, sognatore dall’anima errante, una volta ha detto:

Ho creato questo negozio come un uomo scriverebbe un romanzo, costruendo ogni stanza come se fosse un capitolo. Mi piace che la gente apra le sue porte nello stesso modo in cui apre un libro.”

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George Whitman