Libri in pillole: “Un albero cresce a Brooklyn” di Betty Smith

Ambientato nel quartiere popolare di Brooklyn nei primi anni del 1900, il romanzo ha per protagonista Francie Nolan e la sua famiglia di immigrati irlandesi, costretta a combattere ogni giorno contro le durissime condizioni di vita dovute alla crisi economica in cui versa l’intero paese, e la conseguente mancanza di lavoro. La madre, una donna dolce ma determinata, per sbarcare il lunario lava i pavimenti dei palazzi vicini; il papà invece, che Francie adora, ha problemi di alcolismo e nonostante ami molto la sua famiglia purtroppo non riesce a contribuire concretamente al suo sostentamento. Nel cortile della vecchia e consunta palizzata in cui abitano i Nolan troneggia un albero dalla folta e rigogliosa chioma che in quell’estate assolata del 1912, anno in cui comincia la nostra storia, offre ombra e riparo alla famiglia e riempie di meraviglia i curiosi occhi di Francie. Sono in molti a chiamarlo “l’Albero del Paradiso” perché è l’unica pianta che riesce a germogliare tra il cemento dei quartieri popolari, come un dono di Dio in mezzo alle disgrazie degli uomini. Francie Nolan è come quell’ albero, che resiste alla mancanza di luce ed acqua, che invece di morire di stenti sembra combattere una lotta disperata per continuare a protendere i suoi rami verso il cielo. Francie Nolan è la povertà vista attraverso gli occhi di una ragazzina che usa l’immaginazione, il suo spirito di osservazione e l’amore sconfinato per i libri per riscattarsi da un mondo che sembra non avere un posto per lei. La sua determinazione e il suo desiderio infinito di imparare, dai libri come dalla vita, la porteranno in alto, come fosse il prolungamento di quell’albero ostinato che cresce solitario tra il cemento del suo quartiere.

Nonostante la vita dei Nolan sia oggettivamente amara e terribilmente difficile noi lettori non proveremo mai sentimenti di commiserazione o compassione, perché tutti gli accadimenti, le lotte disperate e le privazioni che subiscono sono filtrate dall’intensa gioia di vivere di Francie e dall’amore della sua disgregata famiglia.

“Nominato dalla New York Public Library come uno dei grandi libri del secolo appena trascorso, “Un albero cresce a Brooklyn” è una magnifica storia di miseria e riscatto, di sofferenza ed emancipazione di bruciante attualità.”

Buona lettura!

“Il mare dove non si tocca”, di Fabio Genovesi: la vita che si impara

Fabio Genovesi è uno di quegli autori che osservo da lontano da un po’ di tempo, da quando diede alle stampe ” Versilia Rock City”. Se come lettrice ho un difetto, è quello di snobbare un po’ gli autori italiani, innamorata come sono della cultura anglosassone: ed è così che Genovesi, non certo per colpa sua, è finito nel limbo di quelli che prima o poi sarebbero atterrati sul mio comodino. Questa volta però mi si è presentata l’occasione giusta per leggere il suo ultimo lavoro, e per fortuna, perchè le mie perplessità iniziali sono state spazzate via da un entusiasmo sempre crescente, un misto di tenerezza e simpatia che mi ha letteralmente  travolto fin dalle primissime pagine. Quanto ho amato Fabio Mancini, non ve lo so descrivere. Però almeno ci devo provare, perchè questo libro merita di essere letto e consigliato agli amici, di essere regalato e custodito teneramente in un angolo di noi stessi. Il motivo è molto semplice: il protagonista del romanzo è un bambino seienne, Fabio Mancini per l’appunto, che incontriamo poco prima che inizi le elementari e lasciamo oramai alle prese con le scuole medie. L’immedesimazione di noi lettori in Fabio è immediata, semplice, inevitabile e naturale ed è per questo motivo che la tenerezza e la nostalgia ci avvolgono fin da subito così intensamente, come una coperta morbida.  Anche l’ambientazione gioca un ruolo importante, perché la vita di Fabio si svolge in quell’epoca magica che per noi quarantenni è rappresentata dagli anni 80. Un periodo che è sconfinato nella leggenda grazie alla vittoria dell’Italia ai Mondiali di Spagna nel 1982, che ha portato nelle nostre case il Personal Computer e che ha visto nascere una nuova classe sociale: quella degli yuppies, i giovani manager di successo diventati in breve tempo simboli di una ricchezza nuova che veniva ostentata ed invidiata. Il mondo di Fabio però sembra   essere ancora impermeabile a questa modernità che viene osservata con  distacco, guardata come qualcosa di cui avere paura e che non gli apparterrà mai veramente. Perchè lui ha una famiglia sui generis, anacronistica, strampalata, in cui il suo essere figlio unico è ampiamente compensato dall’invadente onnipresenza dei  numerosi prozii, fratelli del nonno paterno Arolando, morto qualche anno prima. Aldo, Arno, Athos, Aramis, Adelmo  sono un po’ tutti i nonni di Fabio, un po’ padri, un po’ zii…dipende dalle circostanze. Fabio trascorre con loro la maggior parte del suo tempo libero, imparando tutto su come si caccia nei boschi, come si pesca o come si raccolgono funghi, ma non sa nulla di come trascorrono le giornate i suoi coetanei. Non conosce il mondo dei bambini, non sa il nome dei loro giochi, e  si stupisce del fatto che i nonni sono al massimo quattro per ogni nipote, mai di più. Tranne che al Villaggio Mancini. Sì, perchè da quella parte del paese i Mancini sono così numerosi che si sono addirittura appropriati di una fetta di strada, intitolandola al loro nome. I Mancini sono tutti maschi, portano tutti nomi che cominciano per “A”, sono tutti scapoli, bevono come spugne, fumano come turchi, parlano male ma, soprattutto, sono tutti un po’ svitati. In paese si dice che un maschio Mancini, se supera i quarant’anni senza essersi mai sposato, diventa matto. E questo Fabio lo sa, l’ha sentito una volta origliando una conversazione della mamma e della nonna, ma non ce ne sarebbe stato bisogno in effetti perchè la verità stava proprio lì, sotto il naso di tutti. Bastava osservare uno a caso dei suoi zii per sfatare ogni dubbio.
 
E’ così che Fabio avanza passo a passo nella vita, con quella maledizione che gli grava sulla testa e che lo preoccupa non poco, piccolo bambino gettato in quel casino che è la vita degli adulti, investito di amore ma incapace di instaurare un legame con i suoi coetanei, che lo considerano strano e lo evitano volentieri. Gli occhi di Fabio sono fari che illuminano ogni sfumatura buia e riescono a cogliere la magia e l’incanto ovunque, anche quando il dolore travolgerà la sua famiglia. E’ un bambino cresciuto con gli adulti, ma  per fortuna non è riuscito ad assimilare i loro pensieri complicati, le mille preoccupazioni, la tristezza dei rimpianti, l’angoscia per il futuro. Anzi: è lui ad insegnare ai suoi genitori ed ai suoi tanti nonni che la vita in fondo non è altro che meraviglia e  stupore continuo, se solo riuscissimo ad abbandonarci ciecamente alla fiducia, e se cominciassimo di nuovo a credere che non c’è niente di veramente impossibile, anche quando tutto sembra andare nella direzione contraria. Fabio è  il simbolo di una purezza che tutti ormai abbiamo smarrito tra le pieghe dell’ansia e della paura di vivere , è una ventata di aria fresca che fa respirare il cuore, strappa sorrisi a più riprese e allontana l’amarezza con un soffio leggero. Racconta di un mondo che non c’è più ma che ci appartiene più di ogni altra cosa al mondo, è un storia che sa di buono, sa di giornate trascorse a scorrazzare  in bicicletta su e giù per il paese, sa di sole, di mare, di estati lunghissime e spensierate, fatte per imparare a pescare e a nuotare. Anche laggiù, dove la profondità del mare colora l’acqua di un blu inteso, che a volte fa paura. Eppure bisogna tuffarcisi, perchè è solo dove non si tocca che si impara a nuotare veramente.
 
È strano : aspetti sempre che qualcuno ti aiuti a imparare qualcosa, e invece impari così tanto quando sei tu che ti metti ad aiutare qualcun altro.
 
Questo romanzo ha il pregio di alleggerirci il cuore ed invitarci a ricordare, riesce a toccare i punti più nascosti della nostra memoria, quella a cui dovremmo attingere quando la vita ci prende a schiaffi, imprevedibile e violenta. Il vero capolavoro sta però nella scrittura di Genovesi, un piccolo prodigio linguistico: affida la narrazione ad un bambino, e come tale si esprime. I suoi pensieri hanno l’ingenuità  propria dell’infanzia e al contempo un cuore profondo,  una sensibilità speciale in grado di farci sorridere e commuovere allo stesso tempo.  Lo stile, la grammatica, la sintassi non perdono di una virgola il loro spessore, anzi se possibile risultano arricchite dal vocabolario infantile di Fabio. E’ difficile da descrivere, perché è un artificio letterario, e come tale va preso. Sarebbe bastato pochissimo a far precipitare Genovesi e tutti i suoi personaggi in una inverosimile parodia familiare, dove un bambino di sei anni è costretto a fare l’adulto da un manipolo di anziani,  talmente matti da non sembrare reali. Invece tutta la costruzione narrativa  è talmente ben riuscita che spesso mi sono ritrovata a pensare a quanto l’autore  abbia messo di sè e della propria vita in questo romanzo: non solo perchè il bimbo protagonista si chiama proprio Fabio, ma perché ogni pagina è intrisa di ricordi che non possono essere trascritti con tale intensità se non si sono vissuti. Traspare tutta l’anima di un ragazzino, un altro Fabio, cresciuto con amore da una famiglia numerosa, con un migliore amico emarginato da tutti perché molto più strano di lui, innamorato di una ragazzina ancora più sola di lui, che un giorno come tanti scopre per caso il potere delle parole e si perde nella magia dei libri. Ma che, soprattutto,  ha imparato a nuotare nel mare dove non si tocca grazie ad un papà straordinario, quel mare nero che a volte fa paura, proprio come la vita.
 
 
 
 
 

“Stagioni diverse”, di Stephen King: il meglio del Re

  • L’eterna primavera della speranza – Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank, da cui è stato tratto il film “Le Ali della libertà” (Frank Darabont, 1994)
  • L’estate della corruzione – Un ragazzo sveglio, da cui è stato tratto il film “L’Allievo” (Bryan Singer, 1998)
  • L’autunno dell’innocenza – Il corpo (stand by me), da cui è stato tratto il film “Stand by me – Ricordo di un’estate (Rob Reiner, 1986)
  • Una storia d’inverno – Il modo di respirazione

Una volta terminato Stagioni diverse  avevo detto a me stessa che non me la sentivo di scrivere nulla a riguardo, perché avevo la sensazione di essermi completamente svuotata dopo aver letto l’ultima riga del terzo racconto (Stand by me). Mi sembrava che non potessi dire nulla, perché ogni commento sarebbe stato superfluo. In effetti, da questi quattro racconti hanno già tirato fuori tre film di cui due assolutamente straordinari. Cosa posso aggiungere io a tanta magnificenza? Poco. Però qualcosa, alla fine, vorrei dirla. Ci sono libri che possiamo divorare in un giorno intero, ma che dopo poco dimentichiamo perfino di aver letto. Sono fatti per il consumo, per il piacere, per oziare. E poi ci sono “QUEI libri”, quelli che riempi di orecchie per segnare un passo o un pensiero, quelli che una volta terminati ti restano dentro anche se non vuoi, quelli che entrano a far parte di un posto speciale, un “per sempre” tutto tuo che con condivideresti mai con nessuno, nemmeno sotto tortura. L’estate scorsa, sdraiata su uno scoglio, quando ho finito Stand by me fortunatamente avevo gli occhiali da sole, se capite cosa intendo. Il desiderio di diventare grandi e al tempo stesso la paura di crescere, quell’ amicizia così unica e pura come solo a dodici anni puoi sperare di trovare, perché poi puff! sparisce. E se ne va così, senza un reale motivo. Se ci pensiamo bene è vero quanto dice King : “quando si diventa adulti gli amici entrano ed escono dalle nostre vite come camerieri in una sala da pranzo, ma quando hai dodici anni per difendere i tuoi amici faresti a pugni con chiunque.” Anche se sei una femmina.

Le cose più importanti sono le più difficili da dire.
Sono quelle di cui ci si vergogna, perchè le parole le immiseriscono, le parole rimpiccioliscono cose che finchè erano nella vostra testa sembravano sconfinate, e le riducono a non più che a grandezza naturale quando vengono portate fuori.
Ma è più che questo, vero?
Le cose più importanti giacciono troppo vicine al punto dov’è sepolto il vostro cuore segreto, come segnali lasciati per ritrovare un tesoro che i vostri nemici sarebbero felicissimi di portar via.
E potreste fare rivelazioni che vi costano per poi scoprire che la gente vi guarda strano, senza capire perchè vi sembrava tanto importante da piangere quasi mentre lo dicevate.”

Chi non si è rivisto dodicenne insieme a quel gruppo di ragazzini scalcagnati? Non vi viene un po’ di magone, dopo? Io sono stata inghiottita da un’ immensa voragine di nostalgia.

E poi c’è la meravigliosa storia di Andy ed il suo sogno di libertà, un racconto che da solo potrebbe racchiudere tutte le metafore sulla condizione umana, che contiene tutte le domande e le risposte che vi sono mai venute in mente quelle sere un po’ storte in cui, sdraiati sul letto e fissando il soffitto, vi siete chiesti cosa siete venuti a fare in questo mondo. La paura e l’orrore? Mi spiace, qui non c’è nulla di tutto questo. Che poi, finiamola una volta per tutte: dove è l’orrore in King? E’ vero, a volte scrive storie che  fanno tremare le budella, ma non è perché sa descrivere dannatamente bene la paura. O meglio: è molto più di questo. Lui tira fuori la paura che è in noi e ce la sbatte in faccia. E’  quella che ci spaventa a morte, non certo i banali clichè da horror spiccio che spesso utlizza. L’immedesimazione con i suoi personaggi, quasi sempre uomini e donne come tanti, che fanno quotidianamente a cazzotti con un’esitenza amara, ci trascina in una sorta di catarsi emotiva che ci lega indissolubilmente alle pagine.  E questo spiega perché noi che lo leggiamo da sempre  abbiamo paura dei pagliacci anche se abbiamo quarantanni suonati, degli hotel isolati non ne parliamo nemmeno, ed in genere siamo terrorizzati dalle tranquille cittadine della provincia americana…

Stagioni diverse, Stephen King (Sperling & Kupfer)

51zerhCCJmL._SX306_BO1,204,203,200_

“Dio di illusioni”, di Donna Tartt: bellezza è terrore

 
Sono trascorsi ventiquattro anni da quando “Dio di Illusioni” è stato pubblicato per la prima volta, diventando un grande caso editoriale che ha acceso animi e dibattiti  fiume. All’epoca Donna Tartt era una scrittrice al suo primo romanzo, ed è molto raro  che un esoridio sia così folgorante: 5 milioni di copie è una cifra da capogiro. La nostra enigmatica autrice però è poco prolifica, tant’è che  da allora ha pubblicato solo tre libri: “Dio di Illusioni“, “Piccolo Amico” ed infine nel 2014  “Il cardellino“, con cui vince il premio Pulitzer. E’ proprio con questo ultimo lavoro che scopro la sua esistenza: la critica parla di “ennesimo capolavoro”, ed io non so chi sia quella donna. Ho deciso quindi che dovevo  colmare questa lacuna, partendo dall’inizio. Ed è così che dopo vari tentennamenti mi sono dedicata a “Dio di Illusioni”, non prima di aver letto qua e là alcune recensioni. Sono incappata in tanti commenti positivi e lodi profuse, ma sono in tanti anche quelli che parlano di un libro sopravvalutato di un’autrice standarizzata, un pacchetto costruito ad hoc per lettori ingenui. Mi viene quasi naturale schierarmi dalla parte dei buoni e quindi decido di affrontare la lettura con uno stato d’animo benevolo, alzando molto il livello delle mie aspettative. Per cui aspetto. Aspetto di imbattermi in qualcosa di indefinito che dovrebbe scuotermi, stravolgermi. Ma per 600 pagine e oltre tutto resta sospeso tra le righe e la mia ricerca si rivela vana: continuo a girare pagine su pagine, presa al cappio da una prosa a volte ostica che però non mi lascia scampo. Mi stanca il cervello, Donna Tartt. Io che amo la scrittura sobria ed essenziale mi sono ritrovata in balia di lunghe dissertazioni, di dialoghi ridotti all’osso  ma infiniti per lunghezza di pensiero, di descrizioni di stati d’animo interminabili. Eppure,  nonostante la lentezza di alcuni momenti, non sono mai stata capace di staccarmi da quelle pagine. Ogni volta che riprendevo la lettura alcune immagini, sempre le stesse, mi tornavano prepotenti davanti agli occhi: il Vermont, la neve. La solitudine di quel College così esclusivo. E Bunny, il sacrificio umano di un “Baccanale” finito in disgrazia.
 
La storia si snoda all’interno di una scuola elitaria del Vermont, in cui l’io narrante, Richard, finisce quasi per caso. Non c’entra nulla con il mondo dei college esclusivi, lui che arriva dalla provincia industriale della California, con alle spalle una famiglia modesta a cui non importa granchè dei suoi studi. Compila il modulo di richiesta spinto solo dalla noia e dal desiderio di cambiare scenari, senza seguire particolari inclinazioni se non quella verso gli studi classici. Una serie di circostanze favorevoli gli aprono le porte del prestigioso Hampton College,  facendolo entrare in contatto con una realtà fuori da ogni schema. Non troverà solo ricchezza e prestigio, perchè Hampton dietro la facciata di nobiltà  nasconde ben altro: una  parte insana e malata, che si nutre di boria e senso di superiorità. All’interno delle sue aule esiste un club ancora più esclusivo del college stesso, formato da cinque ragazzi dediti agli studi delle materie classiche e da un professore carismatico ed eccentrico, Julian. Presuntuoso, esteta, è il mentore del gruppo ed è colui che instilla nei ragazzi l’idea che il mondo classico può  e deve rivivere: la società attuale è troppo volgare, prosaica. Non sa cosa sia la vera bellezza, mentre i greci ne avevano il culto:  È un’idea tipica dei greci, e molto profonda. Bellezza è terrore. Ciò che chiamiamo bello ci fa tremare. E cosa potrebbe essere più terrificante e più bello che perdere ogni controllo?” Senza saperlo, senza intuirlo, Julian manipola le loro menti conducendo i suoi allievi verso un imprevedibile epilogo. Desiderosi di fondersi con un’epoca antica e misteriosa, il club dei classicisti si dedica al culto di Dionisio: vogliono osservare e studiare  su loro stessi gli effetti delle forze che si impossessavano degli antichi greci durante  i baccanali offerti al dio.
 
William-Adolphe_Bouguereau_1825-1905_-_The_Youth_of_Bacchus_1884
William Adolphe Bouguereau – The Youth of Bacchus (1884)

Nei rituali dionisiaci venivano stravolte le regole morali e sociali del mondo reale. Attraverso invocazioni allegoriche, l’ebbrezza del vino e danze ritmiche ossessive i devoti al culto raggiungevano uno stato di estasi   che aveva il potere di  riconciliare il genere umano con la natura: una sorta di armonia universale che abbatteva le convenzioni stabilite dall’uomo, in cui tutto era lecito.
Riportare in vita il mondo classico diventa per i ragazzi una sfida contro loro stessi, un gioco seducente e pericoloso. Prede di un delirio psicotico causato da alcol e droghe di ogni tipo,  la notte del baccanale la tanto agognata estasi  degenera rapidamente  in depravazione e violenza. Un uomo viene ucciso barbaramente, a sangue freddo. E sarà l’inizio della fine. L’illusione coltivata dal loro senso di superiorità svanisce quella sera stessa, gettandoli in dinamiche sempre più difficili da gestire e da prevedere. Il baccanale traccia un filo rosso di sangue, il male ormai ha ottenebrato le loro fragili menti ed il gruppo poco alla volta va in pezzi. Nessuna terribile bellezza li ha pervasi, la liberazione dei loro istinti  si è rivelata un fallimento, nessun oblio li ha sganciati dalla realtà. L’esaltazione si è trasformata in  senso di colpa, paura, alienazione, follia. Nessuno di loro riesce a reggere il peso di quella notte maledetta e delle conseguenze che si avvicenderanno rapidamente in seguito, come un’ infernale reazione a catena. Julian, una volta giunto a conoscenza degli atti omicidi compiuti dai suoi studenti in nome di un ideale che lui stesso aveva contribuito ad ingigantire e mitizzare, sparisce senza dare nessuna spiegazione. Da’ immediatamente le dimissioni e prende le distanze da quegli studenti che rischiano di macchiare il suo impeccabile curriculum.  Charles diventerà un alcolizzato, Camilla pederà ogni traccia di dolcezza trasformando la sua bellezza eterea in un guscio freddo e vuoto.  Francis, l’omosessuale del gruppo, continuerà ad essere perseguitato dai suoi fantasmi. L’unico che sembra non avere nessun rimorso è Henry, a cui però è riservato l’ultimo tragico, folle atto. Un gesto che compie non perché attanagliato dai sensi di colpa, ma perché la consapevolezza di aver deluso Julian è un dolore troppo grande da accettare, che lo getta nella disperazione più profonda.


Ci troviamo di fronte ad un capovolgimento assoluto dei ruoli: il gruppo degli eletti diventa poco alla volta un manipolo di disperati, in balia degli eventi. Questo scambio di ruoli è presente in tutto il romanzo, dall’ inizio alla fine: assistiamo ad una partita in cui spesso i ruoli si invertono, le maschere si scambiano, vengono gettate, se ne indossano altre, come in una tragedia teatrale.


Richard è “l’outsider” del gruppo,  un giovane provincialotto che all’ inizio pensa di essere stato catapultato per grazia divina in una realtà quasi perfetta: è stato accettato dal gruppo esclusivo degli studenti di Julian, studia materie elitarie, è ospite fisso della residenza di campagna dei gemelli Charles e Camilla in cui trascorre placidi week end a leggere, dormire e bere troppo. Richard mente sulla sua condizione economica e sulla sua vita familiare, perché è convinto di trovarsi di fronte a persone indiscutibilmente superiori a lui e non vuole perdere la sua chance di condurre un’esistenza idilliaca. Tutto sembra semplice, lineare: i gemelli Charles e Camilla, Francis, Henry e Bunny sono ricchi, colti, eleganti, raffinati, intelligenti. Sono i prescelti. Ma la realtà è ben altra cosa e presto scoprirà con terrore di essere stato manipolato da tutti loro,  ed accolto nel club esclusivo soltanto perché  la sua ingenuità  lo rendeva  ideale da raggirare. E’ stato facile per Henry, la mente del gruppo, usarlo come pedina ed aizzarlo contro Bunny.
Bunny: quello strano, quello diverso da tutti loro, l’amico di tutti, quello di cui non ci si poteva più fidare. Lo consideravano nient’altro che un cafone arricchito sempre senza una lira in tasca, che succhiava soldi ad Henry,  incapace di vivere secondo i loro dettami. Volgare, dozzinale, non era in grado di riconoscere ed apprezzare la vera bellezza. Il traditore, l’agnello sacrificale. La Tartt ci fa compiere lo stesso percorso di Richard, ci fa cadere negli stessi tranelli, vittime anche noi dei sottili maneggi del clan. All’ inizio del romanzo abbiamo tutti la certezza che sia Bunny quello sbagliato, quello indegno di stare all’ interno del gruppo. L’autrice ci conduce nella mente di Henry e ci fa assimilare il suo pensiero distorto. Ma poco dopo i ruoli si invertono spaventosamente: Richard prende coscienza di cosa sia realmente il gruppo, della gravità delle loro azioni, di come non ci sia in nessuno di loro una presa di coscienza riguardo al male che li ha investiti, ottenebrati, resi schiavi. Una volta pienamente consapevole esce dal gioco,  un gioco in cui forse non vi era mai entrato del tutto, riuscendo così a vedere gli altri ragazzi per quello che sono realmente: un branco di assassini senza speranza di redenzione. Prende le distanze e si salva da se stesso, mentre per tutti gli altri non ci sarà scampo.
Il romanzo si apre con una scena che, in realtà, è la sua conclusione. Un’immagine che, come accennato all’ inizio, porterò davanti agli occhi fino all’ultima pagina, esattamente come succede a Richard: Bunny, con il corpo che giace in una posizione innaturale, morto da molte settimane. Ben prima che giungesse il disgelo,  e che  la neve disciolta rivelasse così l’orrorifico segreto. Un segreto marcio, violento, crudele. Quel ragazzo giudicato sbagliato  perché senza fede e senza le virtù necessarie per comprendere l’ideale classico diventa la vittima di giovani fanatici, incapaci di distinguere la realtà dal mondo ideale che si sono costruiti.


Follia omicida, apoteosi del male  che sa plasmare i deboli, che si insinua nelle abitudini malsane, che si camuffa nelle vite ordinarie di persone apparentemente perbene, nella svogliatezza, nella noia, nell’ apatia, nell’ esagerata ricchezza che salva  dalle preoccupazioni quotidiane e che condanna ad un senso di superiorità fuorviante.


Non mi ha cambiato la vita leggere Dio di illusioni. Sarà perchè i vent’anni oramai li ho doppiati, e i romanzi di formazione non mi toccano più come avrebbero fatto una volta. Però è stata una lettura coinvolgente, che mi ha fatto molto riflettere sul male e sulla sua essenza, cosa che mi ha lasciato dentro un’inquietudine difficile da spiegare. Se  vale la pena attraversare il fiume impetuoso di Donna Tartt? Assolutamente sì. Dopo aver riletto quello che ho scritto non ho più dubbi.

Dio di illusioni, Donna Tartt – BUR RIZZOLI

9788817106825_0_170_0_75