“Italiana”, di Giuseppe Catozzella: la leggenda della prima brigantessa d’Italia

Cosa significa essere italiana all’alba del 1861?

L’unità del regno fu proclamata il 17 marzo del 1861 dal Re di Sardegna Vittorio Emanuele II, dopo due guerre di indipendenza contro il dominio austriaco e la spedizione dei Mille capitanata da Giuseppe Garibaldi. L’annessione del Regno delle due Sicilie fu l’episodio cardine con cui si conclusero decenni di moti insurrezionali da parte di un popolo ormai insofferente ai Borboni, colpevoli della situazione di degrado generale in cui versava tutto il regno, da Napoli alla Sicilia. Il mezzogiorno con i suoi grandi latifondi in mano ai pochi nobili locali aveva un’economia arretrata, improduttiva e sterile, che indusse il popolo ormai ridotto in miseria ad appoggiare la spedizione di Garibaldi. L’onda emotiva degli ideali mazziniani di libertà e giustizia, il concetto di un’unica nazione e di un unico popolo, furono il motore che spinse frotte di eserciti spontanei ad unirsi ai garibaldini appena sbarcati a Marsala. Vittorio Emanuele promise in cambio l’abbattimento del sistema colonico e un’equa distribuzione delle terre, ma purtroppo, come la storia ci insegna, non mantenne mai l’impegno preso: dalla sudditanza nei confronti dei Borboni si passò a quella nei confronti dei Savoia. Come affermò il Principe di Salina mentre assisteva impotente al suo inesorabile declino, “Bisogna che tutto cambi affiché niente cambi”. E così fu.

In questo contesto sociale e politico così difficile, segnato da guerre civili perlopiù ignorate dai libri di storia, Giuseppe Catozzella racconta la vita straordinaria di Maria Oliverio detta Ciccilla, nata nella Calabria borbonica del 1841, prima brigantessa d’Italia. Fatta eccezione per il già citato “Gattopardo”, che in ogni caso rappresenta il punto di vista della nobiltà borbonica, in pochi hanno approfondito le vicende degli sconfitti, che dopo l’annessione al Regno Sabaudo crearono sacche di resistenza in tutto il sud. A scuola studiamo con fervore la grande impresa di Garibaldi, che unì l’Italia sotto un’unica corona, aiutato dal popolo oppresso: in realtà la spedizione dei Mille fu un fallimento completo, e Il sentimento patriottico che accese di speranza i meridionali in rivolta contro i borboni fu come un’intensa fiammata di cui rimasero solo le ceneri. E le conseguenze furono drammatiche.

Maria nacque a Casole, un paesino situato nel cuore dell’altopiano della Sila, circondato da paesaggi di indescrivibile bellezza. I boschi della Sila, con la loro natura maestosa ed incontaminata, hanno un ruolo molto importante nella vita di Maria fin da quando era una bambina. Si sentiva pienamente felice e libera solo quando si inerpicava lungo i sentieri che dal paese conducevano fino al Monte Botte Donato, la vetta più alta della Sila, ai piedi del quale aveva vissuto la nonna materna e ancora abitava la zia “Terremoto”. Ogni volta che il suo sguardo si posava su quelle montagne avvertiva un richiamo ancestrale, una specie di presagio che poteva fiutare nell’aria, come se dentro di sè sapesse di appartenere a quei luoghi da sempre. I suoi genitori erano coloni che lavoravano nei latifondi dei signori locali, come la maggior parte dei popolani di quel periodo, e conducevano un’esistenza misera, fatta di privazioni e di fatica. La vita della famiglia cambia improvvisamente quando Concetta, la figlia maggiore data in adozione ad una coppia di aristocratici napoletani ( di cui in casa non si parlava mai) è costretta tornare a vivere al paese. Durante un tumulto di piazza i due nobili, in viaggio verso Casole per accordarsi anche sull’adozione di Maria, restano vittime di un agguato e muoiono entrambi. Concetta ritiene responsabile Maria per la tragica morte dei genitori adottivi e per la fine della sua vita agiata; per questo motivo, fin da subito, decide meschinamente che si sarebbe vendicata, distruggendole la vita. La famiglia, per compiacere quella figlia che veneravano quasi come fosse un essere superiore, si indebita affinché lei potesse mantenere le sue costose abitudini e le lasciano l’unica stanza da letto della casa. Maria, senza più un posto dove stare, trova ospitalità dalla zia Terremoto, che viveva in una baracca ai piedi del monte Botta, in mezzo agli animali. Paradossalmente quelli furono gli anni più felici della sua infanzia: dalla zia Terremoto, moglie di un brigante che da anni era fuggito dal paese, impara a vivere nei boschi in perfetta simbiosi con la natura circostante, traendo dalla sua figura solitaria e mascolina l’ affetto e la protezione di cui aveva bisogno. La storia della brigantessa Ciccilla affonda qui le sue radici, tra la maestosità di quelle montagne che le donne della sua famiglia avevano nel sangue da generazioni, emblema di libertà assoluta, rifugio e nutrimento per chi, come lei, non aveva un luogo che potesse davvero chiamare casa. Ritornata in famiglia dopo la partenza per Napoli del fratello maggiore si rassegnò al suo destino di tessitrice presso la massoneria dei signorotti locali, fino al fatale incontro con Pietro Monaco, giovane e brillante carbonaro animato dai nuovi ideali di libertà che stavano infiammando tutta la penisola. Pietro, inizialmente arruolato nelle truppe borboniche, diserta l’esercito regio per unirsi ai garibaldini in procinto di salpare verso Marsala. Nel mentre Maria e Pietro si sposano, lei ha solo 17 anni e crede intensamente nell’amore del ragazzo, ma ancora una volta la vita le presenterà un conto altissimo. Pietro è un sognatore insofferente alle regole, con un animo passionale ed irruento che crede fortemente in Garibaldi, al punto di rischiare più di una volta la sua stessa vita in nome di quegli ideali. Vittorio Emanuele però non manterrà mai nessuna delle sue promesse di libertà e giustizia: non fece altro che riciclare la vecchia classe dirigente borbonica, che nel frattempo aveva cambiato giubba. Quando Pietro percepisce il tradimento del nuovo Re una rabbia feroce si impadronisce di lui, esacerbando la sua indole violenta. Fugge sulle alture della Sila per combattere contro la stessa nazione che col suo sacrificio aveva contribuito a far nascere, dandosi al brigantaggio insieme ad un manipolo di disillusi come lui. Maria lo seguirà poco dopo, anche lei ormai senza via di scampo dopo aver commesso un terribile omicidio, ben sapendo che la vita con Pietro sarebbe stata un’altra guerra, un continuo amare per poi difendersi fino allo stremo delle forze. Tra le grotte silane abbandonò per sempre i panni di Maria e si trasformò in Ciccilla, una donna libera e fiera, brigantessa spietata e bellissima, una guerriera le cui gesta diventarono leggendarie e travalicarono i confini dell’Italia. Di lei parlò Alexander Dumas, all’epoca direttore del giornale “L’indipendente”, dedicandole diversi racconti, mentre si ispirò a Pietro Monaco per comporre il suo romanzo “Robin Hood il proscritto”.

💡La vicenda storica e umana di Ciccilla, raccontata in prima persona, è un piccolo gioiello . L’autore è riuscito a calarsi nei panni di questa giovane donna dando voce al suo complesso mondo interiore senza mai far percepire la finzione narrativa. Maria, lacerata tra l’amore per la sua famiglia e quell’intenso desiderio di vivere secondo le sue leggi e Ciccilla, brigantessa coraggiosa e indomabile: non sarebbe stato semplice nemmeno per una donna raccontare il profondo percorso evolutivo di un’altra donna, conosciuta solo attraverso la documentazione ufficiale degli atti processuali e degli archivi di stato. Giuseppe Catozzella invece riesce a scrivere in modo assolutamente credibile queste pagine, entrando in profonda connessione non solo con Maria ma con tutte le figure femminili che hanno accompagnato la sua vita: la madre, la sorella, la zia, la maestra, perfino la lupa che la sceglierà come capo branco durante il periodo da brigantessa ha un suo ruolo, un suo percorso, ed è fortemente simbolica. A tutto questo fa da contorno un paesaggio affascinante e primordiale che si fonde completamente con la figura di Ciccilla, creando intense suggestioni.

🔖”Italiana” è la storia di una donna che combatte per la sua libertà, ma è anche la storia di un paese, il nostro: abbandonato dai vincitori, ferito, unito geograficamente ma non nel suo intimo, in cerca di un senso di appartenenza che forse ancora non ha trovato.

“Il morso della vipera”, di Alice Basso: omicidi e dattilografe in erba

Doverosa premessa: io adoro Alice Basso. L’ho conosciuta per caso ad una presentazione in libreria qualche anno fa ma i suoi romanzi con protagonista Vani Sarca, la ghost writer detective per caso, li ho letti solo tra il 2019 e il 2020 (sono cinque e li ho acquistati tutti in blocco, poi li ho centellinati). La adoro perché scrive benissimo, è molto colta, ha una passione sfrenata per la musica rock, gli hard boiled americani degli anni trenta e possiede una tagliente ironia ed un acume spiccato che riesce a trasferire ai suoi protagonisti con grande abilità. Leggere i suoi libri equivale per me ad un vero e proprio spasso, anche se non mancano gli spunti di riflessione e i momenti più seri ed introspettivi. In ogni romanzo traspare il suo grande amore per la letteratura, in ogni sua forma. Secondo Alice i libri ci salvano, non in senso fisico ovviamente, ma in senso metaforico, perché il più delle volte ci salvano da noi stessi e dalla nostre piccole miserie quotidiane. Illuminano le nostre vite e la rendono migliore, infinitamente più ricca, allargano l’orizzonte della nostra scarsa visuale e spesso spalancano porte che non sapevamo nemmeno di aver chiuso. Dopo la conclusione della saga di Vani Sarca credevo che non fosse più possibile per l’autrice replicare creando un nuovo personaggio altrettanto originale e coinvolgente, con la stessa combinazione di leggerezza e sagacia. Ed invece mi sbagliavo, perché la nuova protagonista femminile di Alice Basso è, se possibile, ancora meglio. Anche con l’ambientazione ha fatto un passo avanti, perché il racconto è ambientato nella Torino degli anni trenta, precisamente nel 1936, e tutti noi sappiamo quanto cimentarsi in un romanzo storico sia decisamente più ostico per un autore.

In quegli anni l’Italia ancora non aveva capito bene se c’era o no da fidarsi di Mussolini, che i torinesi segretamente chiamavano “il Cerutti”, beffeggiandolo come se fosse stato un semplice governante del momento, come tanti ce n’erano stati prima di lui e tanti ce ne sarebbero stati dopo. Era l’Italia in cui il fascismo “ha fatto anche cose buone”, come le bonifiche e l’ammodernamento delle città, decorate con svettanti Torri Littorie che parevano grandi simboli fallici, trionfanti baluardi della virilità del perfetto patriota. Era l’Italia che ancora aleggiava sospesa in quella specie di limbo in cui “i fascisti ci hanno anche aiutato, cosa dovevamo fare…” , in cui “la rivoluzionaria” idea di società e famiglia, che premiava chi sfornava figli da gettare in pasto al neo proclamato Impero Fascista, era considerata giusta e perfettamente in linea con i precetti religiosi che volevano le donne sottomesse al marito, con l’unico scopo di allevare una prole numerosa ed educarla con rigore marziano. Lavoravano solo le ragazze nubili di umili origini che dovevano aiutare le famiglie in difficoltà e le vedove della grande guerra: nessun marito sano di mente avrebbe mai concesso alla propria moglie la libertà di lavorare, perché il lavoro creava indipendenza economica, e da lì a quella mentale il passo era breve. Troppo breve per un buon fascista. Questa è l’atmosfera che gravita intorno ad Anita Bo, una ragazza di ventun anni figlia di un commerciante locale, che in vita sua non ha mai fatto altro che essere bella. Ma non carina, proprio bella da mozzare il fiato, di quelle clessidre viventi con i capelli neri e lucidi, gli occhi enormi e una bocca a cuore fintamente truccata. E’ stata allevata con la convinzione che, essendo così sfacciatamente bella, poteva anche sfangarsi dalle fatiche scolastiche e restare irrimediabilmente ignorante e stupida, ché tanto per trovare un buon marito l’intelligenza e la cultura non erano doti necessarie. Il problema è che Anita stupida non lo è per niente, anzi. Diciamo che nessuno (tanto meno lei stessa) si è mai preso la briga di coltivare il suo atrofizzato cervellino, che tutto è fuorché un terreno arido. Solo la sua migliore amica e la sua ex insegnante di dattilografia hanno intuito che dietro l’aspetto da bambolina di Anita si nasconde qualcos’altro, un territorio inesplorato che a tratti si palesa con inaspettati colpi di astuzia ed intuizioni argute. E’ per questo che Anita, nonostante non conosca nemmeno la metà dei riferimenti culturali che comunemente utilizzano le sue amiche, è un’ottima compagnia per due donne così moderne e anticonformiste come Clara e Candida. Clara, ex compagna di classe di Anita, è bruttina ma estremamente intelligente e curiosa, e per mantenersi ed aiutare la famiglia lavora come dattilografa alla Reale Mutua. A Clara piace il suo lavoro, ama la sua indipendenza che le consente di non essere costretta a ripiegare su un uomo per vivere e ancora di più adora leggere, soprattutto quei libri così interessanti che le passa Candida la domenica pomeriggio. Candida, professoressa di dattilografia alla scuola per segretarie di San Donato, è una cinquantenne nubile fieramente contraria al regime, che fuma come una ciminiera e che nasconde in una cassapanca col doppio fondo i libri censurati dal Duce.

Anita, appena chiesta in moglie dall’aitante Corrado, che pare sbucato fuori da un collegio della gioventù Hitleriana, presa dal panico a sentire i suoi discorsi sulla quantità di figli che intende mettere al mondo insieme a lei, prende tempo e risponde all’ esterrefatto fidanzato che sì, il matrimonio va bene, però prima vorrebbe provare a lavorare per un po’ di tempo. Ed è così che Anita, imbranata com’è in qualsiasi cosa pratica della vita, riesce ad intortare Corrado (lui sì che è bello ma un po’ tonto) e a farsi assumere in una piccola casa editrice come dattilografa. Sbaragliata l’esigua concorrenza con un trucco da oscar comincia a lavorare alla rivista Saturnalia, che traduce e pubblica i racconti hard boiled direttamente provenienti dagli Stati Uniti. Un genere nuovo, che il pubblico italiano dimostra di apprezzare molto, seppur con le correzioni imposte della censura del regime. Anita comincia così a sondare il mondo della parola scritta, subendone il fascino e scoprendone il potere, fino ad appassionarsi realmente a quei gialli americani tutto fumo, whisky e piombo. Lei, che non ha mai letto un giallo prima d’ora, comincerà ad addentrarsi nelle menti dei detective in impermeabile che fanno ogni giorno a pugni con la vita, fino a quando si ritroverà a dover risolvere lei stessa un caso di omicidio. Non racconto di più perché non voglio spoilerare nulla, posso solo concludere rinnovando il mio plauso ad Alice Basso, che con grande dovizia di particolari ha ricostruito perfettamente un’epoca storica difficile, rievocandone le atmosfere, gli usi e i costumi in modo così verosimile che più volte mi sono stupita ritrovandomi ai piedi le sneakers anziché il mezzo tacco con la fibbietta, e i capelli come una massa informe anziché solcati da una perfetta ondina ricoperta di lacca.

“Lasciami contare le stelle”, di Elvia Grazi: la storia (vera) di Bianca

Le mie perplessità, di fronte ad una storia d’amore, sono sempre le stesse: temo di imbattermi nei soliti ridondanti cliché da romanzo rosa e di farmi venire la carie a forza di leggere frasi zuccherose. Ma, più tutte queste cose messe insieme, temo le scene di sesso. Ormai anche la più zitella del reame sbadiglia leggendo le scene di sesso dei romanzi d’amore, peggio ci sono solo le orrorifiche sfumature di Anastasia Steel detta Ana e Mr Grey. Per carità, non ho niente in contrario alla questione in sè, ma detesto quando vengono buttate  nel racconto a caso, solo per dare pepe ad una storia che non decolla, in stallo perenne. Le storie d’amore si somigliano tutte, e mi annoiano a morte. Non mi fanno sognare, perché trovo che l’amore delle nostre realtà quotidiane, quello in senso lato e non necessariamente riferibile ad una coppia di amanti, sia decisamente più interessante di quello patinato. Questo in linea generale, perché poi naturalmente ci sono le eccezioni. Ci sono  amori che sono storie molto più complesse di un apostrofo rosa, che coinvolgono un mondo intero e non solo quello fatto dai sentimenti. Abbracciano un’intera vita e ne compiono il senso profondo, segnano la direzione da prendere, tracciano il nostro cammino facendoci scoprire orizzonti nuovi, inesplorati. Ci ricongiungono con la parte più intima di noi stessi, quella con cui a volte non vogliamo confrontarci perché abbiamo paura che la scoperta ci destabilizzi. Ci regalano la libertà di essere noi stessi senza privarci di nulla, e la capacità di vedere dove prima era solo buio. Capita poche volte nella vita, e quando capita, se siamo così tanto fortunati, allora ha davvero ragione la signora Grazi: vale la pena dargli voce, ad un amore così. Bianca è la protagonista di questa storia, ed è una donna vera. E’ esistita veramente, così  come è esistito Walter. Quando si tratta di storie vere non abbiamo il diritto di giudicare, ma in ogni caso il racconto non si presta a questo tipo di reazione: l’ultima cosa che viene voglia di fare, una volta terminato il romanzo, è esprimere giudizi di qualsiasi tipo. Bianca, che inizialmente mal sopportavo per la sua apparente abnegazione nei confronti di un uomo orribile, mi ha impartito una grande lezione di vita. “Scegli di essere felice, datti il tempo di fermarti, scendi un attimo da quella corsa folle che hai intrapreso da quando sei nata, chiudi gli occhi e respira. Può darsi che sentirai qualche specie di richiamo, un’immagine, un profumo, un ricordo lontano: ingredienti di un desiderio che prende forma. Lasciati accarezzare dalla bellezza di quell’idea, e poi affidati a lei con il coraggio e l’incoscienza di quando avevi dieci anni… “Questo mi ha ispirato la storia di Bianca.

La incontriamo all’inizio del romanzo fresca di divorzio, un avvocata in carriera della Milano da bere degli anni 90. Ha solo 37 anni ma si sente come una donna vecchia a cui hanno rubato la vita: si ammazza di lavoro durante il giorno per arrivare a sera sfinita e sola nel suo appartamento, che puntualmente inonda di lacrime, tra una cena consumata fredda e la televisione che le riempie la testa di  parole e suoni. Ma non è questo il peggio che offre Bianca ai lettori: il peggio arriva quando finalmente per distrarsi decide di partire da sola per le vacanze di Natale, e si imbatte nel classico maestro di sci piacione e sciupafemmine. Nemmeno a dirlo, ci finisce a letto nel giro di un paio di sere. E se ne innamora, con la cocciutaggine e l’incoscienza di una quindicenne. Ecco, da qui in avanti il mio desiderio di prendere a schiaffi Bianca diventa incontenibile. Walter, abituato a vivere alla giornata, la saluta senza nessuna promessa, se non quella vaga e arcinota con cui solitamente questo tipo di uomo lascia la sua ultima conquista: “ci sentiamo, baby. Forse ti telefono. Sayonara”. Detestabile! Maschio Alfa, uomo che non deve chiedere mai, bello e inafferrabile. Volevo chiudere il romanzo e lasciar perdere, tanto più scontato di così…qui abbiamo l’intero regno dei Clichè amorosi! Ma per fortuna è bastato leggere un passo decisivo (a mio avviso) per capire che mi sbagliavo di brutto. Ricordo la scena: Bianca e Walter sono a Porto Venere, perché lui, che ha il mare che gli scorre nelle vene, vive su un’imbarcazione ancorata lì tutto l’anno, come un moderno bohemienne. Più che il mare Walter ha dentro di sè il significato profondo della parola libertà, che per lui si identifica con Tabata, la sua barca. Ha scelto chi essere, cosa essere, sa cosa lo rende felice e non ha paura di vivere assecondando i suoi desideri, rifiutando qualsiasi schema mentale. Non ha mai giurato fedeltà a Bianca, e questo lo redime un po’. Durante una delle splendide serate estive che trascorrono insieme, nel pieno del suo innamoramento, Bianca ha una visione profetica di quello che succederà nella sua vita. Lei non attribuisce a quell’immagine un significato particolare, anche se dentro di se si sente scombussolata. Qualcosa di ancestrale l’ha toccata nel profondo, e lei inconsapevolmente  risponde. In quell’istante ho capito come si sarebbe conclusa la loro storia, facendomi ricredere su tutto. Non c’era niente di scontato in quei due, non poteva esserci nulla di prevedibile sotto quel cielo fulgido d’agosto, in una barca che è la propria casa, e in un mare che è la propria linfa vitale. Una donna matura e sensata, specialmente dopo la delusione di un matrimonio finito male, sarebbe scappata via a gambe levate da una situazione così. Un avvocato giovane e di successo, con uno studio nel centro di Milano e vestiti griffati sempre nuovi ad attenderla nella cabina armadio avrebbe salutato Walter, magari dopo un’estate d’amore, ma l’avrebbe fatto. Avrebbe scelto la sua vita ordinata, la carriera, l’ufficio. Dalle nove alla cinque in tailleur e poi aperitivi, cene fuori, vernissage e concerti. Avrebbe continuato la strada che aveva tracciato con fatica e sudore fin da ragazza, perché l’età matura prevede radici e scelte definitive. Ma Bianca, a contatto con Walter, si lascia sedurre dal fascino della felicità vera. Non quella che può regalare un uomo, effimera e a scadenza, ma quella che arriva da dentro, dalla parte più profonda di noi.

Come dicevo all’inizio del post, spesso abbiamo paura di scoprire quanto e come possiamo essere veramente felici. Per questo continuiamo a vivere seguendo i nostri soliti binari, sicuri e solidi. Ma a volte capita di incontrare qualcuno che è in grado di aiutarci a compiere questo atto di coraggio, perché lui ha già fatto quel salto nel vuoto e sa quanto può essere emozionante la vertigine che ci coglierà. Walter  è così per Bianca: la luce di un faro. Ha illuminato il suo essere donna, il suo percorso su questa terra, l’amore per lui è marginale, o meglio è parte di un insieme. Uniti come mai pensavano di diventare, decidono di affrontare l’avventura che Walter sogna da sempre, diventata in poco tempo anche quella di Bianca. Il mondo contro, il vento a favore, le stelle a tracciare la rotta. Le pagine del romanzo, composto come un diario di bordo, si avviano alla loro conclusione quando capita ancora una volta l’imprevedibile. Ma ormai entrambi hanno capito che la vita non si può pianificare, e che l’unica cosa che possiamo fare è viverla, con pienezza e con un po’ di sana follia. Accettarla e lasciarsi trasportare da quello che ci da gioia, come Tabata quando viene cullata dalla risacca: è questo  il segreto, il messaggio nascosto che portiamo con noi fin dalla nascita. Per Bianca e Walter è stato così. E per noi? Cosa ci rende davvero felici? Abbiamo la follia necessaria per seguire il nostro sogno? Ce l’avremo mai un giorno, prima che sia troppo tardi?

“Le belle Cece”, di Andrea Vitali: ritorno a Bellano degli anni 30

Questo è uno di quei romanzi che si legge velocemente, un volumetto da compagnia senza tante pretese che ha consolidato l’idea che mi ero fatta su Andrea Vitali. A costo di tirarmi dietro le ire di migliaia di lettori e critici letterari, ammetto di non amare molto questo scrittore, seppur abbia voluto riservargli una seconda chance dopo il celeberrimo “Olive comprese”. Non si tratta di snobismo nei confronti della  produzione italiana da classifica e nemmeno credo si tratti solo di gusti personali: la sua prosa, infatti, il più delle volte mi stanca e non riesce a strapparmi sorrisi come invece pare succeda a tanti. Uno stile frizzante ma che alla lunga annoia, anche se si trattasse di un solo lettore, meriterebbe un approfondimento, perché quando uno scrittore tecnicamente è bravo chi ama leggere lo apprezza a prescindere. Tutto il resto è opinabile, ma non questo. Partiamo però dai punti di forza di Vitali, che accomunano tutta la sua prolifica bibliografia: l’ambientazione e la rievocazione storica dell’Italia all’ alba dell’Impero fascista. Le storie di Vitali sono tutte ambientate a Bellano, sul lago di Como, un piccolo paese che oggi conta circa 3000 abitanti che è anche il luogo natìo dello scrittore. In questo piccolo borgo si muovono i suoi protagonisti, che ad oggi ammontano ad una cifra incalcolabile, i quali con le loro vicende  quotidiane movimentano il paese dando vita a situazioni esilaranti (insomma), a sottintesi e malintesi, a fraintendimenti di ogni tipo. Perché i peccati della gente per bene di Bellano non si devono sapere: sono lo specchio dell’italia sul finire degli anni 30, quando tutto quello che importava faceva capo alla Casa del fascio,  alla Chiesa e alla Caserma dei Carabinieri. Vitali non racconta mai storie straordinarie, perché punta tutto sulle vicende personali di quel piccolo microcosmo, spesso assai più fantasiose e divertenti. Leggere un suo romanzo è come guardare alla tv un vecchio film di Peppone e Don Camillo, in cui le divertenti diatribe tra il sindaco e il parroco portavano scompiglio giù nella Bassa. Questa è una delle critiche che mi sento di muovere all’autore, perché quello di cui parla in fondo non è che una rivisitazione dell’idea che Giovannino Guareschi ebbe molto tempo prima di lui. Certo, a Brescello c’era il Partito Comunista a dirigere la vita del paesino, e la seconda guerra mondiale si era già conclusa. Però l’idea di fondo, quella di dare voce ad  una Italia dimenticata, che rischiava di perdersi nella memoria dei nostri nonni, è la medesima.Anche “Le belle Cece” è una storia semplice, che di più non si potrebbe, perchè porta alla luce peccati che esistono dalla notte dei tempi: quelli di infedeltà. Si parla di corna e questo lo si intuisce perfettamente sin dalle prime pagine, quando incontriamo Verzetta ed Orbella Cece, madre e figlia con certi pruriti che non esitano a soddisfare. La trama però non è così lineare, anzi! Si parte con la geniale trovata di Fausto Semola, segretario del fascio locale, che per festeggiare la campagna d’Etiopia decide di organizzare un concerto di campane a cui avrebbero dovuto partecipare tutte le chiese del paese e zone limitrofe. La sera in cui Mussolini proclama la nascita dell’Impero Fascista, il 9 maggio del 1936, la sinfonia di campane non è però l’unica cosa ad animare la gente di Bellano. Partiamo quindi con un improbabile concerto  per arrivare ad un furto di mutande da signora, con le iniziali ricamate sopra ad indicare senza ombra di dubbio il nome della proprietaria. In questo veloce procedere di eventi, la storia del Semola si confonde con quella di un burbero ispettore di cotonificio, elemento di spicco nel paese, e la sua consorte Verzetta. Poi si arriva alla suocera, la signora Orbella, ma passando attraverso la storia dell’effemminato Dolcineo, da sempre vittima di terribili scherzi, e del suo amico di colore direttamente importato dalla campagna d’Africa. A dirimere il traffico di vicende, il già noto maresciallo dei Carabinieri Maccadò. Un vero guazzabuglio, un inizio che prometteva bene ed una fine che sembra tirata col mattarello, allungata fino allo sfinimento con  dialoghi che non aggiugono nulla alla trama. Trenta pagine a parlare di mutande! Era molto più interessante se Vitali avesse riservato i pruriti delle signore Cece ad un altro romanzo, concentrandosi invece per questa volta solo sul Semola e sulle sue astute idee per dare lustro alla sezione locale del Partito.

Ci sono tanti modi diversi di amare un libro, non è solo questione di come è scritto: c’è chi scrive talmente bene che è in grado di ammaliare anche quando la trama è inesistente, c’è chi è in grado di imbastire storie che tengono incollati alle pagine anche se dialoghi e sintassi lasciano a desiderare, c’è chi ha una scrittura emozionale che punta sulla rievocazione di ricordi e immagini del nostro passato, e  c’è chi, come Andrea  Vitali,   cerca di raccontare con ironia e leggerezza un’ Italia che non c’è più, calcando la mano su personaggi irreali e bizzarri, dai nomi improbabili, che però spesso sono talmente distanti dalla realtà  che il sorriso rimane una smorfia strascicata. Anche questo lo posso affermare con certezza, perché io provengo dalla Bassa, e laggiù ai tempi dei miei nonni di personaggi strampalati ce n’erano a bizzeffe, con nomi anche più assurdi di quelli che si inventa Vitali. Ma le loro storie  erano proprio un’altra cosa.

“Il respiro delle anime”, di Gigi Paoli: una Firenze che non ti aspetti

Gigi Paoli, bravo giornalista toscano e neo scrittore, con la sua opera prima – “Il rumore della pioggia” – mi ha letteralmente conquistata. I motivi per cui questo autore è entrato di prepotenza nella schiera dei miei preferiti sono diversi: prima di tutto, la qualità della scrittura. La sua penna scorre fluida, sobria, ma al tempo stesso è di forte impatto e tiene saldamente la presa sul lettore. Ha saputo attingere dalla sua ventennale esperienza di cronista senza ingessare la storia in un  resoconto giornalistico, uno scivolone in cui poteva facilmente incappare data la sua professione. Paoli ha aggirato l’ostacolo confezionando nuovamente un romanzo di genere perfetto, che incalza pagina dopo pagina senza la minima caduta di stile. L’altro elemento vincente è la scelta, assai azzeccata, del protagonista: Carlo Alberto Marchi, giornalista di cronaca giudiziaria al ”Nuovo” di Firenze e padre single di Donata, una dodicenne alle prese con le sue prime paturnie adolescenziali. Uomo positivo e concreto, abituato a compiere quotidianamente slalom giganti per non trascurare la figlia, Marchi altro non è che l’alter ego romanzesco dell’autore, con il quale ha in comune carriera, vita familiare, città e taglio di capelli. E’ un giornalista vecchio stampo sopravvissuto all’ era tecnologica e all’ avvento di internet, ancora animato dal sacro fuoco di una  professione antica e nobile, in nome della quale è disposto a macinare orari impossibili ed a sacrificare giorni liberi ed interi week end. Per lui andare a caccia di una buona notizia non significa “googlare” alla scrivania annoiati e stanchi, ma esattamente l’opposto: significa alzare le chiappe anche quando vorrebbe solo svenire sul divano di casa sua, aggirarsi lungo i corridoi  del Palazzo di Giustizia ad orari improbabili affrontando lunghe attese ed inscenando appostamenti degni di uno stalker, che spesso si concludono con  porte sbattute in faccia senza pietà. Perché quello che lui ha simpaticamente ribattezzato “Gotham” (in onore dell’ avveniristica architettura che tanto lo fa assomigliare alla città di Batman) è un mondo a parte ed ha le sue regole inamovibili. Una di queste è che per i giornalisti rompiscatole come Marchi non è sempre aria, ma un’altra è che altrettanto spesso all ’interno dell’arido edificio si riescono ad instaurare buoni rapporti personali di fiducia e collaborazione reciproca, che alcune volte si trasformano in amicizie vere e proprie. Sono queste le fonti predilette di Marchi, altro che  smanettamenti internettiani: nessuno più di lui sa che un buon informatore necessita quasi sempre di un caffè alle prime luci dell’alba o di una cena a notte fonda in qualche bettola della città.

Una Firenze oscura e segreta, al riparo dagli occhi curiosi dei turisti, fa da contorno ancora una volta alle sue indagini giornalistiche, e non potrebbe essere altrimenti: alla “giudiziaria” non c’è spazio per le storie  da cartolina. La prima volta che siamo arrivati in città insieme a Marchi era novembre, ed una pioggia  incessante e fredda strapazzava ogni vicolo, rendendolo buio ed inospitale. Questa volta invece  la ritroviamo soffocata dall’ afa di luglio, ancora una volta sfuggente e misteriosa. Paoli non ci presenta mai Firenze quando la sua straordinaria bellezza è al culmine, e nemmeno ci fa girare estasiati tra le sue strade millenarie, così ricche di storia e di fascino. No, lui preferisce condurci negli angoli dimenticati di una città che ogni giorno dell’anno è assalita da turisti provenienti da tutto il mondo, luoghi  che solo i fiorentini conoscono e dove non troveremo mai frotte di giapponesi che sventolano felici bastoni per selfie. Questo lato oscuro, esacerbato da un clima  inospitale, crea un contrasto stridente con la magnificenza dei suoi palazzi, delle sue chiese, dei suoi monumenti, dei suoi giardini: il risultato è un innamoramento ancora più forte per chi, come me, porta Firenze nel cuore da quando l’ha vista la prima volta ed una curiosità che cresce ad ogni capitolo.

Quale fatto di cronaca dovrà seguire questa volta il nostro giornalista d’assalto? Tutto ha inizio quando in redazione affidano a Marchi un pezzo sulle numerosi morti per overdose che da qualche tempo affliggono la città, fino a quando un incidente apparentemente casuale stuzzica il suo fiuto da segugio: nella notte appena trascorsa un ciclista di nazionalità americana, dirigente di una importante casa farmaceutica, viene travolto e ucciso da un’autovettura. Pirateria stradale? Marchi non ne è affatto convinto e come al solito decide di seguire di sua iniziativa una pista non richiesta.  

Arguto, ficcanaso ed irriverente riuscirà ad interagire con le forze dell’ordine e con la magistratura affinché si faccia luce sulla vicenda, sfruttando tutte le conoscenze acquisite in anni di onorato servizio. Poco alla volta le tessere dei due puzzle convergeranno ed andranno al loro posto, portando alla luce una storia davvero incredibile. E dannatamente reale.

Quando un’opera prima fa centro così come è stato per “Il rumore della pioggia”, replicare per l’autore non è cosa semplice. Deve riprendere le fila del discorso cercando però di non banalizzare la storia né stereotipare i protagonisti, perché noi lettori a volte siamo  dei gran rompiballe: abbiamo bisogno di essere sempre stuzzicati con qualcosa di nuovo, altrimenti i romanzi “seriali” ci annoiano.  Gigi Paoli riesce di fatto a superare sé stesso, e lo fa con classe. Il valore aggiunto, a parte una storia che ho trovato più intrigante e meglio sviluppata della precedente, sta nell’ averci fatto entrare un po’ di più nell’ intimo del suo protagonista, rivelando tutta la fragilità di un padre single che ogni giorno cerca disperatamente di incastrare i suoi mille impegni con le esigenze di una figlia ancora piccola, che al mondo ha soltanto lui, soffocando rimpianti e sensi di colpa come meglio può.

Facevo il giornalista, sì. Facevo il babbo, anche e soprattutto. Ma il tempo che mi restava per fare Carlo Alberto Marchi era davvero poco, pochissimo. E forse un giorno l’avrei rimpianto.

Classificazione: 4 su 5.

“Il rumore della pioggia” di Gigi Paoli: Una report-story tutta italiana

 “IL RUMORE DELLA PIOGGIA” di Gigi Paoli, un giornalista toscano che da anni lavora nell’ambiente giudiziario come cronista, è stata una autentica rivelazione. Il  mio istinto di giallista non ha sbagliato quando lo ha selezionato senza esitare dagli scaffali dei nuovi arrivi nella mia libreria di riferimento, regalandomi una lettura coinvolgente da cui non sono riuscita a staccarmi quasi mai. Tre giorni et voilà, l’ho spazzolato via e già riposto sullo scaffale della mia libreria, pronta per il suo seguito.

Il protagonista del giallo è l’alter ego del suo autore. Carlo Alberto Marchi è un giornalista che si occupa di cronaca giudiziaria nella redazione del “Nuovo” di Firenze, sulla quarantina, divorziato, vive con la figlia pre-adolescente ed una gatta nera in un piccolo appartamento da scapolo, ed ha un rapporto difficile con le donne. Per la prima volta da quando leggo gialli italiani mi sono trovata di fronte ad un protagonista che non è afflitto, non è tormentato, non è dolente. Alleluja. Il nostro Carlo ha solo una vita complicata ed una marea di casini da gestire, in quanto padre single con lo spirito da giornalista d’assalto. Questo significa che incastrare le esigenze di una figlia undicenne con la sua perenne “caccia all’ articolo” è un problema piuttosto ostico che spesso non riesce a risolvere. Risultato? La figlia si incazza, lui si sente in colpa e le notizie buone sono da rincorrere, letteralmente. Il nostro giornalista è quindi un uomo problematico ma positivo e concreto, che ama la sua vita, adora la figlia ma soprattutto ha una vera e propria dedizione per il proprio lavoro.

 
 
 
Volevo essere “Tutti gli uomini del presidente” ed ero finito a fare “Mrs. Doubtfire”. Bella prova. Pensavo a questo, abbruttendomi assai, mentre quella mattina di novembre stavo compìto e contrito, già in camicia blu e cravatta, nel ruolo che ultimamente mi si addiceva in modo magnifico. La lavastoviglie.”
 
 

Carlo Alberto Marchi svolge ancora la sua professione con quello spirito così particolare che oggi molti suoi colleghi hanno perso. Non si è mai adagiato su una scrivania per  redigere articoli a comando, buttando l’occhio di tanto in tanto all’ orario  impaziente ed annoiato come un dipendente qualsiasi: lui ha ancora una passione bruciante che lo anima, mette il cuore in quello che scrive, ha il fiuto da segugio e quando gli si presenta tra le mani una buona storia da raccontare va  in fibrillazione. Per lui il giornalismo è una missione per la quale è disposto a macinare orari impossibili, sacrificando giornate libere e week end interi. La  sua toscanità poi è la ciliegina sulla torta, perché dona al tutto un’ ironia irresistibile e dissacrante che strappa sorrisi e buonumore, rendendo l’empatia  facile ed immediata. Un protagonista azzeccatissimo insomma, come altrettanto azzeccati sono i personaggi che gli gravitano attorno: l’amico giornalista, quelli del palazzo di giustizia (simpaticamente ribattezzato Gotham perché la sua particolare struttura ricorda la città di Batman) e poi la figlia Donata, che sta combattendo le sue prime battaglie di indipendenza verso l’unico genitore che le è rimasto.  L’ambientazione scelta non poteva che essere la città toscana per eccellenza, ovvero Firenze. Questa volta però non siamo di fronte alla capitale dell’arte  per antonomasia, con i suoi monumenti e la sua opulente bellezza, che richiama frotte di turisti provenienti da ogni parte del mondo e ad ogni pagina del calendario. Questa volta l’autore ci mette in contatto con la parte più intima e riservata della città, quella che solo i fiorentini conoscono, ma non per questo meno suggestiva e affascinante, anzi. Gli angoli nascosti in cui Carlo ci conduce sono ancora più attraenti di quelli che conosco così bene, perché Firenze è una città che mi ha rapita il cuore e ci torno ogni volta che posso.

I personaggi che Gigi Paoli mette in scena si muovono all’ interno di questi angoli sconosciuti alla maggior parte di noi, rendendoci curiosi e complici di una storia buia ed opprimente come il clima novembrino in cui tutto ha inizio. Una pioggia battente sta tormentando la città da diversi giorni, Carlo è alle prese con un pezzo che dovrà scrivere sull’ arrivo imminente  del Presidente israeliano quando un collega del Nuovo lo informa di un terribile delitto accaduto poco prima nella via degli antiquari. Inizia così una  caccia all’ uomo (e all’ articolo) che Carlo conduce da vero segugio, guidato da un istinto giornalistico che lo tiene costantemente in allerta, con le antenne ben drizzate e pronte a captare il minimo segnale. L’omicidio è efferato e le piste che si aprono indagando sull’ accaduto sembrano tante – troppe a dire il vero – per essere valide. Dietro all’ uccisione di un anziano commesso di un negozio di antichità religiose paiono annidarsi segreti inconfessabili, mentre le ombre dell’ omosessualità, della Chiesa e della Massoneria si allungano come tentacoli. Ad ogni nuovo approfondimento di questa indagine a triplo binario si aprono nuovi scenari, in un susseguirsi di verità svelate e di colpi di scena che tengono avvinghiati alle pagine, come nella migliore tradizione giallista. La triplice pista è però seguita solo da Marchi, perchè per la procura di Firenze il caso è già stato praticamente risolto. Ovviamente il nostro cronista d’assalto  non ha nessun titolo per condurre l’inchiesta, perchè come gli ricordano spesso a Gotham lui è un giornalista, ed è meglio che smetta di giocare a fare l’investigatore. Marchi però non molla l’osso e continua ad indagare, aiutato da  amicizie e vecchie conoscenze coltivate in anni di appostamenti tra le stanze del palazzo di Giustizia, oltre ad una buona dose di sfrontatezza. Come nelle migliori report-story.

 

I segreti che ogni vita porta con sè sono molteplici, spesso sono pesanti fardelli, altrettanto spesso sono circondati da sensi di colpa e da sentimenti disgraziati che ci preoccupiamo di nascondere con cura. La verità invece è sempre a senso unico, ed il più delle volte è  semplice e disarmante.

 
 

“La sposa scomparsa”, di Rosa Teruzzi: tre “Miss Marple” della periferia milanese e un femminicidio

Prima di leggere questo romanzo ho fatto quello che non si dovrebbe mai fare: leggere prima il suo seguito. Ma non ho saputo resistere, perché quando ho ordinato il libreria “La sposa scomparsa” era appena uscito “la fioraia del Giambellino” e purtroppo certi richiami sono il mio debole. Mi sono resa conto subito che avevo commesso uno sbaglio, perché anche se Rosa Teruzzi è indulgente con chi non ha conosciuto dall’inizio le tre investigatrici dilettanti, certi particolari della loro storia (intima e non) li avrei saputi cogliere e comprendere meglio se avessi letto per primo questo romanzo, apprezzandoli come meritavano. Ad ogni modo l’innamoramento è scattato subito: Iole, Libera e Vittoria sono personaggi dotati di una forza narrativa sorprendente, e costituiscono l’elemento vincente di questo romanzo. Solitamente nei romanzi gialli i veri protagonisti sono l’assassino, la storia, la suspense e l’originalità della trama, che più è intricata e più diverte noi lettori. Rosa Teruzzi invece, attingendo a piene mani dalla sua esperienza di caporedattore della trasmissione di cronaca nera Quarto Grado, ha puntato tutto su questo trittico al femminile: tre generazioni a confronto, tre donne che più diverse non potrebbero essere. Quello che le accomuna è ciò che manca ai protagonisti dei gialli che siamo abituati a leggere: l’istinto femminile e quella sensibilità speciale che solo le donne possiedono, che guiderà il gruppo verso la risoluzione dei casi.

Nel frattempo la saga delle Miss Marple milanesi è giunta a quota quattro: dopo “La sposa scomparsa” e ” La fioraia del Giambellino” sono stati pubblicati “Non si uccide per amore” e il recentissimo “Ultimo tango all’Ortica”. Li ho letti tutti e quattro, e nessuno mi ha delusa. Poche pagine, una storia che prende alla pancia e tre protagoniste che vorresti avere come amiche.

Nel quartiere milanese del Giambellino, alla periferia della città, in un vecchio casello ferroviario in disuso, abitano le tre donne inventate dalla penna dell’autrice. Iole è una settantenne ex figlia dei fiori che non ha mai smesso di vivere da sessantottina, e che continua ad affermare con fierezza il suo spirito libero e anticonformista: nonostante l’età infatti l’eccentrica signora non si priva di nulla, godendosi la vita esattamente come quando aveva vent ’anni e metteva fiori nei cannoni per dire no alla guerra, sì alle canne e molti più sì all’ amore libero. Iole è la madre di Libera, una quarantaseienne dall’ indole dolce e malinconica alla quale è stato dato un nome che la caratterizza ben poco. Libera ha un passato da libraia ma per vivere si arrangia creando bouquet per spose, particolari e ricercati; è vedova di un poliziotto, Saverio, rimasto ucciso molti anni prima in un agguato di cui si è sempre saputo pochissimo. A dire il vero Libera non ha mai voluto cercare la verità ad ogni costo, accontentandosi di quel poco che a suo tempo emerse dalle indagini: al tempo della tragedia la figlia Vittoria, ormai più che ventenne, era solo una bambina e forse per un senso di protezione estremo nei confronti della figlia e di sé stessa decise che le cose dovevano restare così, con luci e ombre. Poteva accettarlo, doveva farlo. Vittoria crescendo ha seguito le orme del padre ed oggi è una poliziotta innamorata del proprio lavoro che però, a differenza della mamma e soprattutto della nonna, ha un carattere chiuso e riottoso. Non ama ingerenze nella propria vita privata e mal sopporta le iniziative da detective dilettanti della sua famiglia. In questa cornice così particolare si snoda una vicenda complessa, un caso irrisolto da più di trent’anni che improvvisamente torna a chiedere attenzione. In un mese di luglio stranamente piovoso, una donna vestita a lutto ed ingrigita dagli anni bussa alla porta del casello ferroviario in cerca di aiuto. E’ una Rosalia Minardi, una madre ormai anziana che non si rassegna e continua a chiedere giustizia per sua figlia Carmen, scomparsa molti anni prima a causa di una storia con molti punto oscuri e piena di sofferenza. Si è spinta fino al casello sperando di ottenere l’attenzione di Vittoria, ma la ragazza non ne vuole sapere. Considera la signora un’illusa e c’è un caso urgente al quale sta lavorando: non ha tempo da perdere con un “cold case”. Libera però, sensibile ed emotiva, non può non provare una stretta al cuore pensando a cosa ne sarebbe di lei se fosse sua figlia a sparire per sempre in un giorno qualunque. Sarebbe insopportabile. E così Libera, aiutata dall’ eccentrica Iole, intercede con Vittoria in favore di Rosalia e riesce a far riaprire il caso, facendo luce sulle misteriose vicende legate alla scomparsa di Carmen. La sparizione della ragazza dall’ apparente vita irreprensibile e monotona è avvenuta proprio il giorno in cui avrebbe dovuto sposarsi: un macabro regalo per nozze che non si sarebbero mai celebrate.


Come spesso succede nella vita reale, la verità il più delle volte è una cosa semplice e al tempo stesso terribile. La realtà ha molta più immaginazione della fantasia, e spesso è anche più crudele. Fa più male, ed è la peggiore delle bastarde.


Ho intravvisto nella vicenda di Carmen i riflessi di tante donne che in questi ultimi anni hanno riempito le pagine di cronaca nera del nostro Paese: mogli, madri, fidanzate, sorelle che ad un certo punto vengono inghiottite nel nulla lasciando in chi le ha amate solo il ricordo di un ultimo abbraccio frettoloso, dato per abitudine. Non esistono donne scomparse, esistono solo donne uccise. E questo Libera lo sa. Lo sa Libera perchè glielo dice l’ istinto, lo sa Iole perchè ha vissuto molto ed intensamente, ed in fondo lo sa anche Vittoria nonostante la sua indole da poliziotta la tenga ancorata ai fatti più che alle sensazioni.

La realtà è che sua figlia è scomparsa da trent’ anni ed è sicuramente morta. Ma non riusciremo mai a trovare il suo corpo perché chi l’ha uccisa l’ha fatta franca, anche se lei non vuole rassegnarsi.

La storia di fondo è tutt’ altro che leggera, ma Rosa Teruzzi stempera la crudeltà dei fatti con uno stile garbato e con una grande abilità narrativa. Ad aiutarla in questo può essere una battuta sagace di Iole, allergica alla biancheria intima e alla tristezza, oppure uno di quei momenti in cui Libera sceglie con cura i fiori e le erbe per i suoi bouquet speciali, o ancora quando sprigiona il suo estro culinario sfornando ricette vegetariane che mettono appetito e buonumore. Ma è soprattutto l’immagine che l’autrice ci regala di quel casello ferroviario disperso in una Milano sconosciuta ed affascinante, intriso di profumi ed aromi, ad avermi incantata, rincuorata e rinfrancata.

La sposa scomparsa, Rosa Teruzzi – Sonzogno

“Borgo Propizio” di Loredana Limone: una favola moderna

Immaginate uno di quei borghi centenari nascosti negli anfratti della nostra bella penisola: vicoli acciottolati che si arrotolano su se stessi, case di pietra antica rivestite di edera e vite americana, gerani dai colori sgargianti che fanno bella mostra di sè alle finestre,  e gatti che si scaldano sonnacchiosi al sole. Ora provate a dare un’occhiata agli abitanti che si aggirano per le vie del paese: troverete, quasi certamente, un gruppetto di comari intente a spettegolare del più e del meno, ognuna con l’ultima novità da raccontare alle altre. E siccome nel borgo non succede mai nulla, le invenzioni delle signore corrono veloci sulle ali della fantasia, per rimbalzare poi di bocca in bocca e di porta in porta. Ma se un giorno come tanti succedesse qualcosa, un fatto a dir poco straordinario, che squarcia improvvisamente l’immobilità di quel tempo sospeso? Succede che inizierebbe una storia. La storia di Borgo Propizio.

Loredana Limone presta la sua penna a questo paese, trasformando la sua storia in una favola moderna. All’ inizio non avevo capito lo spirito della narrazione, concentrata com’ ero a non perdermi una sola parola. Questo romanzo (e il suo seguito) da quando è stato pubblicato, ovvero nel 2012, continua a riscuotere un grande successo, soprattutto nell’ ambiente dei blog letterari. Impossibile non incappare in qualche citazione o recensione: tutte entusiastiche. Le mie aspettative erano quindi molto alte, al punto che durante le prime cento pagine, disturbata dalla frenesia di trovare anche io l’eccezionalità nel romanzo ho perso di vista il mio diktat, la regola n.1 che sempre mi impongo di seguire quando mi approccio ad una lettura: calarsi nel contesto. Non si può affrontare una lettura senza sapere prima in quale dimensione dobbiamo entrare, perchè ogni mondo narrativo ha le sue regole e le sue eccezioni. Il rischio che si corre, senza prendere i dovuti accorgimenti, è di non coglierne il senso e di non vedere quello che l’autore ha voluto nascondere tra le pagine. Così è capitato che io, fino a metà del libro, cercassi qualcosa che non c’era.  Mi sono goduta molto poco la surreale stravaganza di  Mariolina e Marietta, due personaggi che da sole potevano tessere le fila di tutto il romanzo. Due sorelle di 46 e 47 anni, single da tutta la vita, diverse come più non si potrebbe fatta eccezione per la verginità che le accomuna, e che ancora conservano come un lascito morale della defunta madre: l’una che non vede l’ora di disfarsene, l’altra che lo cura come una reliquia. Ad agitare le acque della placida vita da impiegata comunale di Mariolina arriva Ruggero, un costruttore edile piacione e sgrammaticato che per amore indossa le vesti di  cavaliere dalla scintillante armatura, colui  che la salverà da un futuro di ragnatele. Come mai Ruggero si trova proprio a Borgo Propizio, dove le case sono antiche e antiche restano, e dove nessun negozio  esiste più? Perché in paese sta per arrivare una fresca novità: una latteria. Un’attività commerciale che più anacronistica non si potrebbe,  dove un tempo risiedeva la bottega di un ciabattino, diventerà il luogo perfetto per ricominciare. Belinda, la proprietaria, ha bisogno di diventare adulta ed è decisa a realizzare il suo sogno di bambina: isolarsi dal mondo industrializzato per lanciarsi senza paracadute in un’avventura in mezzo al nulla, cercando di trasformare la sua infantile passione per il latte in qualcosa di stuzzicante, originale e nuovo. A fare da contorno ci sono altri personaggi, ognuno con la sua matassa da sbrogliare: per esempio i genitori di Belinda, una coppia di mezza età in piena crisi coniugale; ed ancora zia Letizia, una vedova  nostalgica dei bei tempi andati, fan sfegatata di Gianni Morandi.


Tutto in questo romanzo ha le dimensioni di una fiaba, ogni cosa sembra sbucata fuori dal tempo, dalla logica e dallo spazio. E come in ogni fiaba che si rispetti, ogni cosa troverà il suo posto ed ognuno il suo lieto fine. Borgo Propizio è un paese inesistente che diventa un simbolo, il simbolo di chi ha speranza, di chi ha il coraggio di cambiare, di chi vuole allontanare la paura, di chi crede nel lato buono delle persone.


Non è un caso se l’autrice, come lei stessa dichiara nella postfazione, ha scritto questo romanzo mentre stava uscendo da un periodo personale difficile ed aveva fortemente bisogno di tornare ad avere speranza e fiducia nella vita. Borgo Propizio è diventato così un nido accogliente, per lei stessa prima che per tanti altri lettori.  Questa dimensione favolistica è la caratteristica vincente del romanzo, ma esiste anche il rovescio della medaglia: quello che ho colto io, purtroppo. Per tutta la durata della lettura, volata via in un batter d’occhio, mi sono chiesta continuamente dove stava la fregatura per Mariolina, per Belinda, per Ruggero e per la coppia in crisi. Mano a mano che ottenevo le mie risposte una parte di me rimaneva delusa, aggrappata come sono alla vita reale che come ben sappiamo è fatta di delusioni, sconfitte, cadute rovinose e miracolose rimesse in sesto. Borgo Propizio mi ha fatto capire quanto io non sia più in grado di credere nelle favole, nella mia come in quelle di nessun altro. “...E vissero tutti felici e contenti” è una locuzione che oggi come oggi mi infastidisce, spesso mi irrita anche.

Forse un giorno tornerò a Borgo Propizio, magari quando sarò pronta a farmi trasportare da un’ondata di pensieri positivi, perchè per credere che alla fine tutto andrà bene occorre una buone dose di coraggio: il coraggio di gettare via la rassicurante zavorra delle nostre paure, quel dannato peso che ci portiamo sempre dietro e che ci tiene saldamente ancorati a terra, al riparo da voli che potrebbero costarci le ossa.

Purtroppo Loredana Limone è mancata l’anno scorso, vinta da una terribile malattia contro la quale lottava da tempo. Lei, così positiva e sorridente, che ha saputo creare una deliziosa favola moderna, non è riuscita a costruire un lieto fine per sè stessa.

 

“Il conte di Montecristo”, di Alexander Dumas: storia di una vendetta

“…E non dimenticare mai che, fino al giorno in cui Iddio si degnerà di svelare all’uomo l’avvenire, tutta l’umana saggezza sarà riposta in queste due parole: aspettare e sperare”.

Così si è conclusa, circa un paio di mesi  fa, la mia avventura con il Conte di Montecristo. Tutti noi, chi più chi meno, conosciamo la storia della più grande vendetta mai concepita dalla mente umana. Film, vecchi sceneggiati a puntate…sulla storia inventata da Alexander Dumas è già stato prodotto di tutto. Il romanzo però, nemmeno a dirlo, è tutt’ altra cosa. Perché si sa: niente può contro la potenza evocativa delle parole. Si possono scegliere come attori figuranti perfetti, ma non ci sarà mai nessuno all’ altezza delle descrizioni di Dumas quando parla dello sguardo del Conte. Uno sguardo che più volte viene ricordato ai lettori, unica traccia di un passato di disperazione e di solitudine inimmaginabile. Dumas ha ucciso Edmond Dantes e l’ha fatto rivivere nella straordinaria figura del Conte di Montecristo, ma non smette mai di ricordarci come dietro l’incredibile ricchezza, la cultura, l’eleganza e l’irreale compostezza di quest’uomo uscito dal nulla ci sia sempre l’ombra di quel semplice marinaio la cui vita fu distrutta proprio all’ apice della felicità, a causa dei peggiori tra i sentimenti umani: invidia, brama di potere, codardia.
Quando mi chiedono qual è il mio romanzo preferito (in realtà non me lo chiede quasi nessuno, perché ai più non interessa) ho sempre risposto “Delitto e Castigo” di Dostoevskij. Poi è stata la volta del mio incontro con Dickens, e il David Copperfield ha preso il suo posto. Da ora in poi, non c’è più gara: ha vinto il Conte di Montecristo, chiusa la questione.
Questo tomo di 1.200 pagine, che con la sua impressionante mole mi aveva sempre tenuto a distanza (stupida me) è un viaggio straordinario tra le coste di Marsiglia, Parigi, Roma, che vale assolutamente la pena compiere.

E’ uno di quei libri che non si possono leggere con superficialità, quando qualcos’altro ci distrae con immagini e rumori di sottofondo, perché ha bisogno di silenzio e di devozione totale: capiterà anche a voi, come è capitato a me, di volersi ritagliare sempre più spesso momenti di totale isolamento per potersene gustare fino in fondo la lettura. Dumas non lascia scampo. Ogni frase, ogni parola, ogni dettaglio sono importanti e ne sarete avidi. Leggerlo è stato un terremoto emotivo, ed è molto complicato cercare di rendere nero su bianco quello che mi ha trasmesso e soprattutto quello che mi ha lasciato. E non sto esagerando: chi ama leggere sa di cosa parlo.

La storia, come dicevo prima, la conoscono più o meno tutti: Edmond Dantes è un giovane marinaio che sta per essere promosso capitano di una nave mercantile, è innamorato della bella Mercedes che sposerà di lì a qualche giorno ed è un figlio premuroso e devoto. Ma il destino, che fino ad un attimo prima pareva così carico di promesse, si abbatterà su di lui impietosamente. Viene arrestato con l’infamante accusa di bonapartismo proprio il giorno del suo fidanzamento, davanti a suo padre e alla donna che ama. Condotto il giorno stesso di fronte al procuratore del Re, non riuscirà a districarsi dal complotto ordito alle sue spalle, anzi: al brutto scherzo giocato dai suoi nemici, si aggiungerà anche l’opportunismo e la brama di potere di colui che dovrebbe garantire l’applicazione della Legge e della Giustizia . Nonostante le finte rassicurazioni del Procuratore del Re, viene condotto nottetempo nelle prigioni del Castello d’If, al largo della costa marsigliese. In questo luogo terribile trascorrerà quattordici anni, quattordici anni senza sapere perché e per colpa di chi è stato privato così a lungo della sua vita onesta, dimenticato dalla giustizia di Dio e degli uomini. Proprio quando ormai, stremato dalla solitudine e dalla disperazione, tenta il suicidio lasciandosi morire di fame, un barlume di speranza si riaccende in lui. Un rumore, dapprima impercettibile, poi sempre più insistente, arriva fino alla sua cella. E poi una voce, che dopo un tempo infinito rompe quel silenzio immobile. E’ l’Abate Faria, incarcerato anche lui da molteplici anni e creduto pazzo: incontro che cambierà per sempre la vita di Edmond. (Se volete approfondire la sua incredibile storia, leggete questo mio vecchio post )Le pagine in cui Edmond e Faria stringono amicizia sono tra le più belle del romanzo, quelle in cui a mio avviso emerge tutta la straordinaria bravura di Dumas. La descrizione di come la vita in cella diventa improvvisamente un momento felice di conoscenza e di affetto, di studio, di insegnamenti preziosi, è avvincente come un moderno tv movie. L’Abate Faria infatti è un uomo dotato di un ingegno fuori dal comune e di una immensa cultura, da cui Edmond apprenderà moltissimo. Ma soprattutto, ormai legati indissolubilmente come padre e figlio, pianificheranno insieme la fuga dal Castello. Grazie alla sagacità di Faria, Edmond riuscirà a vedere sempre più chiaramente cosa si cela dietro il suo arresto, e comincerà così a tessere le trame di una vendetta che si abbatterà implacabile sui suoi nemici.
 
Quello che più mi ha colpito, a parte l’intrigo della trama e la costruzione lenta, metodica e geniale della vendetta, è stata la trasformazione psicologica del protagonista. Quando viene condotto nelle segrete del Castello D’ If Edmond è solo un ragazzo semplice che crede nella vita e negli uomini, con l’ingenuità tipica dei vent’anni. Quattordici anni di prigionia, per mano di esseri meschini e vigliacchi che invidiavano il suo piccolo mondo felice, cambieranno per sempre il suo animo puro. Quando finalmente si ritroverà libero ed infinitamente ricco, quel ragazzo morirà definitivamente. Il corpo invecchiato dalla prigionia è l’unica cosa che rimarrà intatta di Edmond Dantes, oltre ad una indicibile sofferenza che solo lo sguardo, a volte, tradirà.
Il corpo di Edmond sarà la dimora del Conte di Montecristo, un uomo totalmente diverso: ricco, colto, affascinante, enigmatico. Con i suoi modi raffinati, il linguaggio ricercato e uno straordinario carisma riuscirà ad insinuarsi nell’ alta società parigina, soggiogando con la sua aurea di mistero tutti coloro che un tempo l’avevano tradito e ricoperto d’infamia. Abile calcolatore, muove le sue ignare pedine verso il compimento di una vendetta che sente di dover infliggere a questi uomini come se non fossero solamente suoi nemici, ma come se punisse per mano di Dio un esempio di umanità empia e codarda. In preda ad un delirio di onnipotenza, più volte si sentirà un tramite della giustizia Divina, un emissario della Divina Provvidenza che lo ha salvato dalla morte affinché portasse a termine la sua volontà suprema, quella di premiare i giusti e condannare gli infami. E’ con queste deliranti convinzioni che la sua vendetta si alimenterà di orrore in orrore, fino a quando Il Conte capirà che nemmeno lui, così duramente colpito dalla vita, può arrogarsi il diritto di distruggere senza alcuna pietà quelle altrui. Ricorderà di essere ancora Edmond Dantes grazie a colei che un tempo amava profondamente, Mercedes. Solo lei, con il suo esempio di sconfinato amore materno, riuscirà ad aprire una breccia nell’ impenetrabile corazza del Conte. Poco alla volta, e non senza tormento, nel suo animo troverà posto il perdono e arriverà finalmente a conoscere la pace ed una nuova, insperata felicità.
 
Solo colui che ha conosciuto l’estrema sventura è in grado di provare l’estrema felicità. Bisogna aver desiderato morire per sapere quanto sia bello vivere.
 
Un elemento di grande attrattiva è anche l’ambientazione, un vero e proprio viaggio nel tempo: la società ottocentesca dell’ultimo Impero di Bonaparte e della successiva Restaurazione, di cui Parigi costituiva il fulcro vitale, scorre davanti a noi lettori come un film e ci regala bellissime immagini: scorci della vita marinara di Marsiglia, il Carnevale di Roma, i banditi che infestavano le campagne dell’Italia, le serate nei teatri parigini, le passeggiate in carrozza nei grandi boulevards della Ville Lumiere, i duelli con cui si dovevano risolvere le questioni tra galantuomini, e poi ancora amori clandestini, figli nati dal peccato, “dark lady” esperte in micidiali veleni….
Insomma, buttatevi in quest’avventura. Ne uscirete prima di quanto pensiate, immensamente soddisfatti.

 

“Ninfa dormiente” di Ilaria Tuti: Teresa Battaglia è tornata

“Ninfa dormiente” di Ilaria Tuti è un romanzo che merita assolutamente di essere letto. L’ho chiamato volutamente romanzo e non thriller perché è senza dubbio molto più di ciò che comunemente viene catalogato in questo genere. I canoni  del giallo classico, così come le evoluzioni dei noir e dei thriller più moderni, vengono rivisitati dall’autrice con un meccanismo  nuovo, diverso, spiazzante. Pensi di leggere una storia nera da divorare in un paio di giorni sotto l’ombrellone, mettendo in stand by i neuroni, ed invece ti ritrovi a riflettere sul significato più intimo del dolore, sul peso della storia, sul senso di perdita, sull’istintiva ferocia degli esseri umani. Non è una novità per me, che di Ilaria Tuti avevo letto  già “Fiori sopra l’inferno”, un esordio di prim’ordine la cui malìa della narrazione, così atipica nel genere poliziesco, mi aveva completamente soggiogata. “Ninfa Dormiente” ha la stesso centro, lo stesso irresistibile fascino. Le sue pagine non  catturano con espedienti mozzafiato, ma con una narrazione  inaspettata che  prende la pancia, in cui gli ingredienti base del romanzo  e quelli tipici dei thriller sono amalgamati in dosi perfette. Prima di tutto c’è lei, il commissario di polizia Teresa Battaglia. Teresa è l’anti eroina per eccellenza: non è più tanto giovane, è in sovrappeso, solitaria, scorbutica e schietta. E’ diabetica, ed ogni santo giorno deve fare i conti con il proprio inferno personale, al quale recentemente si è aggiunto un nuovo, terrificante girone. Eppure Teresa resiste, combatte, perché di cognome fa “Battaglia” non a caso. Il suo eroismo non si esprime attraverso il “physique du role”, ma con l’atteggiamento fiero ed indomito con cui affronta le numerose difficoltà che la vita le ha posto dinanzi.  Ha un passato di violenza alle spalle da cui è riuscita a liberarsi pagando uno scotto durissimo, trasformando il dolore in un profondo “sentire” che arricchisce il suo essere poliziotta. Tutto questo bagaglio emotivo la rende un personaggio estremamente affascinante, pieno di sfaccettature, fortemente empatico. Lei, che conosce gli abissi più bui dell’animo umano, riesce ad entrare in contatto con vittime e carnefici come nessun altro, compiendo ad ogni indagine un nuovo viaggio dentro sè stessa. L’empatia di cui è capace Teresa è la stessa che, alla fine, riusciamo a provare anche noi lettori per l’assassino. Anche in questo i romanzi di Ilaria Tuti si differenziano dagli altri di genere, perché i “suoi” cattivi non sono mai creature fredde e spietate, consapevoli delle sofferenze che infliggono; sono uomini e donne con un passato difficile, dal quale sono riemersi a stento, senza poter scegliere.  L’ humana pietas prevale sul senso di giustizia, lasciandoci con il cuore sgomento a riflettere sulla vera natura  del Male.

Anche questa volta quindi Ilaria Tuti si spinge oltre i dettagli dell’omicidio, un cold case risalente al 1945, per raccontarci la storia di un quadro dipinto con sangue umano. Una storia che affonda le sue radici negli anni terribili della seconda guerra mondiale, un evento che lacerò  profondamente il suo amato Friuli, terra di confine che diede  vita ai primi focolai di resistenza. Ma c’è molto più di questo. La vera culla di questa miserabile vicenda risale ad un’epoca ancora più lontana, e si perde nei culti ancestrali del femminino sacro, che poneva al centro dell’universo fisico e spirituale la Dea Madre. Prima che le religioni monoteiste facessero la loro comparsa mettendo al centro del  credo l’uomo (inteso come maschio), il femminile era rappresentativo di un potere assoluto legato alla creazione. Agli albori delle civiltà la donna era considerata espressione delle forze naturali e divine; in ogni donna era racchiuso il mistero della creazione, ed il suo corpo, fortemente legato ai cicli naturali, era considerato una via d’accesso al trascendente.  A tenere insieme i due lembi della storia c’è la Val di Resia, un suggestivo angolo di Friuli  la cui tradizione linguistica e culturale  si perde letteralmente nella notte dei tempi. Il patrimonio culturale della comunità resiana, rappresentato dalla lingua, dalla musica, dal ballo e da tradizioni antichissime come il carnevale (Pust), ha origini arcaiche ed è preservato dai pochi resiani rimasti, con fierezza e senso di appartenenza. E’ la comunità della Val di Resia la vera protagonista di questo romanzo, a cui l’autrice riserva il suo speciale tributo. La magia della Valle,  con i suoi misteri indecifrabili e le sue tradizioni millenarie, aleggia sulle vicende narrate,  complice o forse ispiratrice di culti pagani che il mondo civilizzato ha cercato di annientare. Riti potenti in grado di richiamare a sè forze ancestrali, tanto benefiche quanto distruttive e  pericolose, se perpetrati da menti disturbate.


Suggestione, misteri, paure ataviche, antichi riti e storie familiari dolorose, il tutto imbastito con una scrittura  ricca di fascinazione e classe. Ilaria Tuti ha fatto centro ancora una volta, conquistando definitivamente un posto di prim’ordine  all’interno del panorama giallistico italiano ed europeo.


Il meccanismo narrativo utilizzato dall’autrice è perfetto,  mi permetto però una sola considerazione: a mio modesto parere, la carne al fuoco questa volta è stata un po’ troppa. In questo secondo romanzo anche il vice del commissario Battaglia, l’ispettore Massimo Marini, acquista un ruolo più attivo nella storia e salda ancora di più il legame con il suo superiore. Anche lui viene caricato di un fardello estremamente doloroso, e dovrà cercare di combattere i suoi demoni interiori esattamente come Teresa e come ogni altro protagonista. Tutti questi conflitti personali e questa sofferenza sottaciuta a mio avviso hanno sovraccaricato l’intensità emotiva della storia, rendendola in alcuni punti opprimente. Inoltre i due filoni principali su cui si dipana il romanzo alla fine  non convergono tra loro, restano come sospesi nel vuoto e lasciano un senso di incompiutezza che avrei preferito non trovare. Diversi sono i punti  rimasti oscuri, ma magari chissà, l’autrice ha volutamente omesso di svelare tutti i dettagli per preparare il nuovo terreno di indagine del Commissario Battaglia e della sua squadra…Speriamo!