Tre libri “up-lit” per imparare la resilienza

ELEANOR OLIPHANT STA BENISSIMO, di Gail Honeyman

Di Eleanor Oliphant parlai già tempo addietro, quando qui sul blog pubblicai un’ entusiasta recensione per il gruppo di lettura che frequentavo all’epoca. ( per chi fosse interessato ad approfondire, eccola) Questo romanzo alla sua uscita riscosse un enorme ed insperato successo: il libro venne pubblicato grazie ad un concorso per esordienti e spopolò tra i lettori, diventando il rappresentante perfetto di un nuovo sottogenere letterario che si andava profilando all’orizzonte: quello della “Up Lit Literature“, ovvero la “letteratura uplifting” e cioè “edificante”, nel senso di costruttiva e positiva.

La protagonista è una trentenne londinese ordinaria: abita da sola in un bilocale, lavora come contabile in un’agenzia pubblicitaria e ha la passione per le parole crociate e la lettura. Una vita apparentemente come tante, se non fosse per alcuni dettagli che ci vengono rivelati fin da subito: è sociopatica, il fine settimana si stordisce di vodka fino all’oblio ed ogni mercoledì sera riceve le inquietanti telefonate di sua madre dal carcere. Tutto questo all’inizio genera irritazione e antipatia verso Eleanor, che nella prima parte del romanzo avrete voglia di prendere perennemente a schiaffi, ma con il progredire della storia qualcosa nella sua corazza si incrina. Poco alla volta, attraverso quelle crepe, riusciremo ad intravvedere tutta la sofferenza e la fragilità che le sue manie di controllo ed un’ inespugnabile routine quotidiana riuscivano a celare al mondo. Mentre insieme a lei affrontiamo il suo percorso di rinascita, l’empatia poco alla volta prende il posto dell’insofferenza fino a coinvolgerci profondamente in quella che è storia toccante di solitudine ed emarginazione, di speranza e di riscatto di cui non sapevamo di avere così bisogno.

CAMBIARE L’ACQUA AI FIORI, di Valérie Perrin

“Cambiare l’acqua ai fiori” è uno di quei romanzi che ti fanno riconciliare con la vita e che per questo motivo vorresti non finisse mai. Se il termine “up-lift” nella letteratura ha un senso, sta proprio nelle 480 pagine di questa storia: Violette Tuossaint è la custode del cimitero di un piccolo paesino della Borgogna, una giovane donna bella e solare che guarda la vita con incanto e ottimismo, a dispetto del luogo in cui ha scelto di abitare e di un doloroso passato. In quel microcosmo sperduto in cui il respiro dei morti si fonde coi palpiti dei vivi, un evento imprevedibile arriverà a scuotere l’esistenza che Violette è riuscita a costruirsi con tanta fatica, costringendola a riaprire la scatola dei ricordi e a fare i conti con i suoi demoni. Ad ogni capitolo si alternano salti temporali, frammenti di diari, lettere dal passato e nuovi incontri che, uniti dal filo del racconto, ci aiuteranno poco alla volta ad entrare nella vita di Violette e a comprendere le ragioni di quella sofferenza che pare esserle così familiare. Perché la scelta di vivere all’interno di un cimitero non è stata una decisione come tante, tutt’altro. E la gioia di vivere che sprigiona, e che manifesta silenziosamente attraverso gesti quotidiani semplici, come improvvisare un pranzo con le verdure dell’orto o curare i fiori tra le lapidi, è il solo modo che conosce per sopravvivere: lasciarsi andare al dolore, accoglierlo come un amico così come si accoglie la gioia e perdersi dentro questo caleidoscopio di sentimenti senza opporre resistenza. Violette Toussaint è un luminoso esempio di rinascita, di speranza, un emblema di resilienza che ci farà guardare alla nostra esistenza con occhi diversi e, soprattutto, grati. Anche solo per qualche minuto.

FINCHE’ IL CAFFE’ E’CALDO, di Toshikazu Kawaguchi

I libri giapponesi sono così: un insegnamento dietro l’altro, una filosofia di vita che si apprende tra le righe, un viaggio in bilico tra realtà e mondo onirico che da Murakami in poi ha fatto scuola ed ha finito per stigmatizzarli un po’ tutti. Quindi, prima di intraprendere questa lettura, è bene sapere che se siamo lettori molto razionali questo romanzo non fa per noi.

Questa è la storia di una caffetteria giapponese molto particolare, e dei suoi avventori. Pare che sia aperta da più di cento anni e che sia possibile, per chi ha il coraggio di entrarvi, rivivere un momento preciso della propria vita semplicemente bevendo una tazza di caffè. Ma c’è una regola fondamentale da rispettare perché questo avvenga: è assolutamente necessario finirlo prima che si raffreddi. Ecco quindi che la caffetteria rappresenta un’occasione per riavvolgere il nastro, per rimangiarsi quelle parole che non avremmo mai dovuto pronunciare in quel preciso momento, per imboccare l’altra strada davanti al bivio della nostra esistenza. Chi ha il coraggio di varcare la soglia e sedersi su quello sgabello solitario scoprirà una cosa fondamentale, che poi è il messaggio di fondo che l’autore vuole rappresentare con questa storia surreale e poetica: viaggiare indietro nel tempo e rivivere alcuni brevi istanti del nostro percorso terreno non modificherà nulla del nostro presente, ma può donarci la pace ed insegnarci il perdono e l’accettazione. Il passato non si può cambiare, ma possiamo farne tesoro per plasmare un futuro che, invece, è una pagina bianca ancora tutta da scrivere.

Libri in pillole: “Suite francese” di Irène Némirovsky

Irene Némirovsky è una delle mie scrittrici preferite, la mia comfort zone per eccellenza. Diversi anni fa la casa editrice Adelphi pubblicò per l’Italia la sua opera incompiuta, SUITE FRANCESE, che riscosse un enorme successo in tutto il mondo (è stato tradotto in 38 lingue) e che fece conoscere l’autrice al grande pubblico, me compresa. Sono stata catturata subito dalla sua prosa, innamorandomi all’istante della suo stile di scrittura essenziale, intimo, profondo. Nell’idea originaria dell’ autrice il romanzo avrebbe dovuto comporsi di 5 parti, una specie di “poema sinfonico”, ma purtroppo la Némirovsky fu arrestata durante la sua stesura e deportata ad Auschwitz. Nonostante si fosse recentemente convertita al cattolicesimo, per le leggi razziali della Francia era considerata ancora un’ebrea, e come tale subì le conseguenze della Shoah.

Era il luglio del 1942. Morì l’anno dopo di tifo, lasciando Suite Francese neppure a metà. Nei suoi appunti, poco prima di essere arrestata, scrive: 

Il libro in sé deve dare l’impressione di essere semplicemente un episodio… com’è in realtà la nostra epoca, e indubbiamente tutte le epoche. La forma, dunque… ma dovrei dire piuttosto il ritmo: il ritmo in senso cinematografico… collegamenti delle parti fra loro. L’importante sono i rapporti fra le diverse parti dell’opera. Se conoscessi meglio la musica, credo che questo potrebbe aiutarmi. In mancanza della musica, quello che al cinema si chiama ritmo. Insomma, preoccuparsi da una parte della varietà e dall’altra dell’armonia. Nel cinema un film deve avere una unità, un tono, uno stile”.

Grazie a questa sua struttura particolare, il romanzo è sopravvissuto a sé stesso: nonostante si componga solo di due delle cinque parti previste, non sembra affatto privo del suo centro. Il risultato è un romanzo corale di rara eleganza, in cui le piccole storie private dei protagonisti si mescolano con i grandi avvenimenti storici. La seconda guerra mondiale con il suo incomprensibile orrore è un’ ombra minacciosa che opprime continuamente, ma è sempre stemperato dalla bellezza di ciò che è vivo, e dalla purezza dei sentimenti che, nonostante tutto, nascono e si nutrono tra meraviglia e turbamento. I protagonisti della Némirovsky sono persone comuni, costrette ad affrontare la tragicità dei loro tempi ciascuno col proprio bagaglio di forza e di miseria, di speranza e di afflizione. La realtà ci viene raccontata senza risparmiarci nulla, togliendo quel velo di ipocrisia e di perbenismo con cui spesso vengono “abbellite” le storie di vita vissuta: a noi lettori le restituisce ripulite e vere e ce le fa amare così come sono, imperfette e difettose.

Chissà come sarebbe proseguito questo progetto se la Némirovsky avesse avuto la possibilità di terminarlo, chissà se la bellezza e la dolcezza della prima parte avrebbero perso terreno nel proseguimento della “sinfonia”, o se invece avrebbero continuato a fare da contraltare all’oscenità della guerra, come la colonna sonora di un film muto.

Libri in pillole: “Tenera è la notte” di Francis Scott Fitzgerald

Francis Scott Fitzgerald, fin dalle prime battute di questo suo romanzo- simbolo (in assoluto il suo lavoro più ambizioso) catapulta noi lettori nel mondo dorato della Costa Azzurra degli anni venti, dove il giovane Dick e la bellissima moglie Nicole sembrano incarnare lo splendore e la freschezza di quell’epoca ruggente a cavallo tra le due guerre. Ma a poco a poco entriamo nella vita della coppia, attorno alla quale ruotano altri personaggi eccentrici e problematici, e scopriamo così che Dick è uno psichiatra e Nicole è una malata di mente che l’incesto paterno subito da adolescente ha reso schizofrenica. Moglie e marito, medico e paziente, tra i due esiste un rapporto d’amore tanto forte quanto esigente e distruttivo, simbiotico e pericoloso, che condurrà i due ad un triste ma inevitabile epilogo. L’incredibile di questo romanzo è come Fitzgerald riesca a farci sentire la solitudine e il turbamento interiore di tutti i personaggi come se fossimo noi a viverla, con lo stesso trasporto e la stessa commozione. Ed è altrettanto stupefacente come anche gli aspetti concreti della vicenda siano resi estremamente vivi e reali, tanto che molte volte pare  sentire davvero l’estate sulla pelle in quell’epoca lontana e mai vissuta, la musica jazz nelle sere stellate, le bravate tra amici, le risate, i lunghi discorsi inconcludenti tra un drink e l’altro.  E’ un libro molto delicato, per nulla melodrammatico nonostante i temi attorno ai quali si svolge, che pagina dopo pagina  lascia un gusto piacevolmente amaro, una tristezza non angosciante ma molto sottile. Un vero gioiello della letteratura che all’epoca della pubblicazione non ottenne un grande successo, che conosce cinque differenti versioni,  e che è essenzialmente un’opera autobiografica. La protagonista femminile del romanzo è infatti la trasposizione letteraria di Zelda, la moglie nevrotica e perennemente infelice di Fitzgerald che negli anni si ammalò di schizofrenia, proprio come la Nicoledel libro.

Ho appena chiuso il libro e l’ho riposto nella mia libreria accanto a “Il Grande Gatsby”, ma so già che sarà uno di quei rari romanzi che rileggerò negli anni.

Tre libri da leggere in autunno

(Tempo di lettura: 5 minuti)

Per scivolare pigramente tra le braccia dell’autunno appena arrivato, non c’è niente di meglio che abbandonarsi alla lettura. Le ombre della sera si allungano, le domeniche pomeriggio si fanno quiete e silenziose, avvolte da una soffusa luce dorata; agosto, con la sua sfacciataggine, lo abbiamo accomodato ormai fuori dalla porta. E’ ora di mettere su una tazza di the, di accoccolarci in poltrona e sprofondare in una storia che ci rapirà letteralmente l’anima.

1. L’OMBRA DEL VENTO di Carlos Ruis Zafròn

Pubblicato per la prima volta nel 2004, è il tipico esempio di un best seller che ce l’ha fatta, sopravvivendo a se stesso. Nel giro di qualche anno è diventato un vero e proprio classico della narrativa contemporanea tanto da guadagnarsi, per il suo quindicesimo anniversario, una nuova edizione riccamente corredata dalle suggestive immagini del fotografo Francesc Catalá-Roca, dedicate alla Barcellona post bellica in cui il romanzo è ambientato. Zafron, scomparso prematuramente nel 2020, ha imbastito una trama piuttosto originale che strizza l’occhio ad una molteplicità di generi: romanzo storico, mistery, giallo classico con spunti thrilleristici e notevoli incursioni nel gotico. Il tutto condito con elementi sovrannaturali che faranno storcere il naso alle menti più razionali e manderanno invece in solluchero tutte le altre. Ambientato a Barcellona del 1946, la storia ha come protagonista un ragazzino di undici anni, Daniel, il cui padre, proprietario di un piccolo negozio di libri usati, lo inizierà all’amore per la lettura e lo condurrà nei meandri di un mistero che si annida tra le pagine di alcuni vecchi testi. Durante la lettura attraverseremo insieme a Daniel i vicoli della città vecchia alla scoperta di antichi libri dimenticati ed orribili segreti, immersi in atmosfere plumbee e suggestive che renderanno la lettura di questo romanzo la compagnia perfetta per i nostri pomeriggi ottobrini.

2. I FALO’ DELL’AUTUNNO di Irène Nemirovski

La scrittura di Irene Nemirovski dispensa sempre momenti di pura gioia letteraria. Delicata e profonda, oltre che stilisticamente perfetta, la sua prosa evoca istanti di rara bellezza ed intensità, lasciandoci immersi in nostalgiche visioni, come se stessimo osservando rapiti un quadro impressionista. E’ davvero complicato riassumere in poche righe i motivi per cui vale la pena leggere questo romanzo, anche se una narrazione di così alto livello da sola potrebbe bastare come unica ragione. I protagonisti sono molteplici e differenti piani temporali scandiscono quella che è a tutti gli effetti un’opera corale, ambientata a Parigi negli anni a cavallo tra la prima e la seconda guerra mondiale. Tuttavia è la complessa storia d’amore tra Thérèse e Bernard a costituire il centro del romanzo, giovani vittime di un tempo feroce ed ingiusto. Le loro vite incarnano l’eterno conflitto dell’umanità tra il bene ed il male, qui rappresentati dall’amore ostinato di Thérèse e dal cinismo di Bernard, che torna dal fronte totalmente trasformato, come se la guerra gli avesse strappato via l’anima. La coralità delle voci protagoniste e la suddivisone della trama in “blocchi” narrativi, nonché le tematiche affrontate, verranno poi riprese e sviluppate dall’autrice nel suo capolavoro “Suite Francese“, rimasto incompiuto. L’autrice era un’ebrea ucraina naturalizzata francese, e come tale subì le terribili conseguenze della Shoah. Venne deportata Auschwitz, dove fu uccisa il 17 agosto del 1942.

” Vedi,” dice la nonna alla nipote, immaginando di prenderla per mano e condurla attraverso vasti campi in cui vengono bruciate le stoppie “sono i falò dell’autunno, che purificano la terra e la preparano per nuove sementi.

3. LE NOSTRE ANIME DI NOTTE di Kent Haruf

In questo romanzo non è l’autunno in senso fisico ad essere evocato dalla narrazione, ma l’autunno percepito come fase della vita, quella parte dell’esistenza che ci accompagna piano piano alla fine del nostro cammino terreno. Kent Haruf, dopo la pubblicazione postuma della sua famosa “Trilogia della pianura“, ci conduce ancora una volta nell’immaginaria cittadina di Holt, Colorado, facendoci conoscere due anziani vedovi, Addie e Louis. Un giorno come tanti Addie bussa alla porta di Louis proponendogli di dormire con lei per quella notte e per altre a venire, solo per farsi compagnia, per non sentire troppo il peso della solitudine. Nonostante le perplessità iniziali Louis accetta: nasce così un tenero sentimento fatto di notti trascorse a raccontarsi la vita a fior di labbra, mano nella mano, in attesa che arrivi il sonno. Nella quiete domestica di quelle sere le confidenze dei due diventano sempre più intime; attraverso confessioni, ricordi e rimpianti le loro anime affiorano in superficie in un modo nuovo, privo di giudizio, totalmente inaspettato. Naturalmente questa relazione non viene compresa dalla piccola comunità di Holt che ritiene decisamente inopportuni quegli incontri, se non addirittura scandalosi; ma, soprattutto, verrà osteggiata dai rispettivi figli, i quali considerano la convivenza notturna dei genitori una specie di follia senile. Nessuno riesce a percepire l’essenza di questo legame, l’atto di coraggio e di libertà che in realtà rappresenta. La vecchiaia per Haruf si trasforma in un’occasione di rinascita e la scelta di Luis ed Addie esprime il legittimo desiderio di essere nuovamente felici, contrariamente ad un’assurda regola sociale che vorrebbe gli anziani stare seduti al loro posto senza più disturbare, mentre attraversano con nostalgia e solitudine l’autunno della vita.

Vale la pena sottolineare però che lo stile di Haruf non è adatto a tutti: la trama è scarna e l’atmosfera rarefatta, i dialoghi sono ridotti all’essenziale e tutto contribuisce a proiettarci in una dimensione quasi spirituale, in cui gli avvenimenti restano sullo sfondo, superflui.

“Il mio amico Maigret”, di Georges Simenon: un omicidio alle isole Porquerolles

La forza dei romanzi dedicati al Commissario Maigret risiede in due punti fondamentali: l’ambientazione, sempre particolarmente suggestiva, e lo spessore psicologico dei protagonisti. La trama e l’intreccio giallistico passano in secondo piano, perchè l’attenzione si sposta sempre verso l’aspetto umano più che su quello metodologico delle indagini. Simenon è stato l’autore che, negli anni trenta, ha rivoluzionato il genere del romanzo poliziesco: lo schema del giallo classico, tutto improntato sulla ricerca meticolosa del colpevole e sull’analisi minuziosa della scena del crimine,  viene abbandonato in favore di ambientazioni popolari e piccolo borhgesi, microcosmi proletari in cui sono gli esseri umani con i loro turbamenti ad essere scandagliati ed osservati, per arrivare infine a comprendre le motivazioni del delitto più che il movente in sè. Anche questa volta ritroviamo gli stessi elementi, amalgamati però in modo differente dal solito: il vero protagonista diventa il paesaggio isolano, che cattura i suoi avventori in un vortice di emozioni a cui nemmeno Maigret può sottrarsi. L’intreccio psicologico quasi non esiste, la trama è lineare e semplice, al punto che spesso durante la lettura non ci accorgiamo nemmeno che il commissario stia in realtà svolgendo un’indagine per omicidio: i colloqui sono scarni, rari, gli interrogatori rapidi e sembrano non portare a nulla, ancora più  del solito. I personaggi che incontriamo, seppur variegati, li abbiamo tutti più o meno già incontrati nella galleria umana di Simenon, ma questa volta anzichè sfuggire tra dimenticati bistrot della periferia parigina o lungo le strade della campagna francese sono tutti prigionieri della malìa dell’isola, che avvinghia e fa ammalare di “porquerollite”, come affermano gli abitanti stessi.

Maigret viene chiamato nel cuore del mediterraneo perché è stato assassinato un uomo, tale Marcelline, un malvivente da quattro soldi che la sera prima del delitto aveva dichiarato di essere amico del famoso commissario parigino. Maigret è ormai diventato un personaggio di spicco, uno che compare sui giornali nazionali e che fa molto parlare di sè per la brillante risoluzione di casi difficili. Addirittura la sua notorietà ha attraversato La Manica, destando curiosità persino tra i colleghi di Scotland Yard, che proprio nei giorni dell’assassinio decidono di spedire in visita al  Quai des Orfèvres il pari- grado commissario Pyke. Pyke viene accolto con sollecitudine dai colleghi francesi e messo alle costole di Maigret, affinché possa vedere con i suoi occhi in cosa consiste il suo tanto decantato metodo, che poi metodo non è.

Una volta approdato sull’isola Maigret si lascia completamente trasportare, vittima inconsapevole di quella strana malattia che gli abitanti del posto conoscono così bene. Il porticciolo con le sue imbarcazioni turistiche, le barche tirate in secca dai pescatori che quando c’è il Mistral stanno tutto il giorno a cucire le reti, la piazzetta su cui si affaccia l’unico ritrovo del posto, “L’Arche de Noe”: con poche sapienti pennellate Simenon descrive un paesaggio che sembra sbucato fuori da un quadro impressionista, regalando al lettore intense suggestioni. Il Mistral se n’è andato lo stesso giorno in cui Maigret è sbarcato in quel luogo incantato, in cui il tempo  sembra avere  un respiro differente rispetto a quello che scorre a Parigi. Il tempo qui si dilata fino a farti dimenticare di vestirti per uscire dalla tua stanza d’albergo, ritrovandoti in ciabatte e veste da camera ad osservare il via vai del porto. E poi l’odore della domenica, un profumo di caffè e nostalgia che Maigret riconoscerebbe ovunque e che qui sull’isola è così amplificato da sconfiggerlo inesorabilmente, un sentimento languido a cui vorrebbe potersi abbandonare. Eppure,  tra quelle viuzze bianche investite da colori e profumi mediterranei, è stato commesso un efferato omicidio. Ed il colpevole non se ne è mai andao. Si  aggira noncurante insieme agli altri abitanti dell’isola, trascorrendo oziose giornate al sole caldo della primavera provenzale, tra un bianchino consumato all’Arche de Noè ed una partita a petanque. Tocca quindi investigare, e quel che è peggio è che lo deve fare in presenza di Pyke, il quale forse si aspettava qualcosa di più da quel viaggio e invece gli tocca fare il turista. Perchè quando Maigret si mette all’opera non prende penna e taccuino e non scandaglia la scena del crimine come un radar, ma comincia ad osservare: scruta la varietà umana che per un motivo o per l’altro popola l’isola – ognuno con un buon motivo per restare ed altrettanti per andarsene – si immerge nelle atmosfere che lo circondano e si lascia guidare dalle sensazioni che gli arrivano fino a quando, finalmente, tutto gli sarà chiaro. Come si può spiegare all’inglese Pyke cosa è l’intuizione, e come arriva? ” Questo è il mio metodo”, gli spiega Maigret.  E noi, una volta di più, abbiamo la certezza che nulla come l’empatia verso i nostri simili sia la chiave per comprendere la complessità delle vicende umane.

“La scelta decisiva”, di Charlotte Link: un’autrice che non sbaglia un colpo!

La nostra vita è fatta di scelte continue. Un incessante susseguirsi di bivi quotidiani traccia il percorso della nostra esistenza, ma nella maggior parte dei casi non ce ne rendiamo conto. Cosa succede però quando una delle tante decisioni che prendiamo quotidianamente, per una rocambolesca casualità del destino, diventa  fondamentale al punto da invertire drasticamente la rotta della nostra vita? La risposta è semplice ma destabilizzante: possiamo fatalmente ritrovarci nel posto sbagliato al momento sbagliato,  proprio come capita a Simon, il protagonista di questo nuovo, entusiasmante thriller psicologico firmato Charlotte Link.

📖

Questa volta abbiamo di fronte un surplus di protagonisti, tra i quali ne spiccano essenzialmente due: Simon,   che  come accennavo all’inizio a causa di una scelta sbagliata resta imbrigliato in una terribile vicenda, e Nathalie, una giovane ragazza in fuga che suo malgrado lo trascinerà in un incubo ad occhi aperti. Simon vive ad Amburgo, ha quarant’anni e si guadagna da vivere come traduttore free lance; ha una compagna, Kristina, una ex moglie che pare si diverta a mettergli continuamente il bastone tra le ruote e due figli con i quali, dopo il divorzio, non riesce più a relazionarsi. Proprio con loro avrebbe dovuto trascorrere le settimane antecedenti il Natale nella casa di famglia in Provenza, un programma a cui Simon teneva molto anche se – come sempre – la vacanza non avrebbe previsto la compagnia di Kristina, che i figli ancora non conoscono.   Poco prima della partenza, quando ormai Simon si trova già in Francia, i ragazzi cambiano idea e decidono di trascorrere il Natale con la madre ed il nuovo compagno, lasciandolo solo. Ormai è troppo tardi per ripiegare su Kristina, la quale non sta vivendo affatto bene la situazione di fidanzata part time, e nemmeno ha il coraggio di tornare ad Amburgo perchè significherebbe ammettere  l’ennesimo fallimento.  Abbattuto e in crisi profonda Simon si aggira sul lungomare quando si imbatte in Nathalie: la ragazza sta avendo un alterco con altri due uomini e Simon, istintivamente, cerca di aiutarla. Nathalie ha vent’anni, è spaventosamente magra ed infreddolita, non ha un posto in cui ripararsi dalla pioggia battente e soprattutto appare tremendamente spaventata. E’ così che Simon lancia la sua monetina, e prende la decisione che gli stravolgerà completamente la vita: decide di aiutarla.  Da questo momento in avanti Simon verrà trascinato in una spirale di orrore e violenza, in cui tutti coloro che hanno a che fare con la ragazza vengono uccisi barbaramente da killer spietati. Anche Nathalie è il pezzo di un domino, l’anello di una catena rosso sangue che unisce Parigi a Metz, Amburgo alla Provenza, per finire in Bulgaria, dove tutto ha inizio. A Sofia, nonostante l’ingresso in Europa, il progresso economico è ancora un miraggio per la maggior parte della popolazione. L’indigenza per alcune famiglie è tale che molti genitori sono costretti a vendere letteralmente le proprie figlie adolescenti (anche bambine, nel peggiore dei casi)  al mercato del sesso, illudendosi di dare loro un futuro migliore. Potenti organizzazioni criminali gestiscono un traffico spaventoso di esseri umani, facendo leva sulla disperazione di chi non ha più nulla, nemmeno gli occhi per vedere cosa si cela in realtà dietro fantomatiche agenzie di modelle: un subdolo  specchietto per allodole che fa presa sui più miserabili.

🔍

Lo spettro dei recenti attentati terroristici aleggia su tutta l’Europa, rendendo l’angoscia ancora più palpabile, più pressante, più dannatamente reale. Non c’è un attimo di respiro mentre seguiamo la corsa  di Nathalie e Simon, che poco alla volta riescono ad apprendere la verità.  Forse la Link, a livello di trama, ha scritto cose migliori e più originali, ma questo thriller ha molti punti di forza che lo rendono una validissima lettura. L’intreccio che l’autrice ha saputo creare è da dieci e lode: i capitoli si alternano di volta in volta seguendo due diversi centri di narrazione, uno che fa capo agli avvenimenti francesi ed un altro che segue le vicende di Selina e Ninka, due ragazze di Sofia cadute nella rete della prostituzione. L’incedere così incalzante, che all’ inizio lascia disorientati per l’apparente mancanza di collegamenti tra le due vicende, viene di tanto in tanto inframmezzato da alcune pagine  del diario di Nathalie. Questo si rivelerà fondamentale per capire come mai, ad un certo punto, la ragazza si ritrova  in una piccola località della costa francese completamente sola, senza un soldo in tasca e così terribilmente magra e spaventata. Ammaliante, come sempre, la descrizione dei paesaggi da cui trapela la desolazione dei sobborghi di Sofia e la solitudine del mare d’inverno, quando la pioggia ed il vento sferzano la costa. Infine l’autrice ci fa riflettere come sempre sulle fragilità umane, che mai come in questo romanzo appaiono la vera causa di ogni male, di ogni sbaglio, di ogni sofferenza inflitta o subita.

🔖TE LO CONSIGLIO SE:

  • I thriller psicologici sono la tua zona di comfort
  • ricerchi gialli di qualità
  • Lo splatter non fa per te

“il passeggero del Polarlys”, di Georges Simenon: un delitto tra i fiordi

“Il passeggero del Polarlys” è uno dei primissimi romanzi di Simenon, pubblicato per la prima volta nel 1932, ovvero la bellezza di 88 anni fa. La datazione di un romanzo è spesso qualcosa di relativo, lo sappiamo bene, ma mai come in questo caso mi è parso evidente. La contemporaneità dello stile narrativo e delle vicende umane che intessono la trama rendono infatti questo noir un romanzo senza tempo, tanto perfetto e verosimile negli anni trenta quanto oggi. Nonostante rappresenti praticamente un esordio ritroviamo già tutti gli elementi cari all’ autore,  quelli che lo contraddistingueranno negli anni a venire e che renderanno immortale la sua intera produzione: la profonda conoscenza delle umane passioni,  l’attenta analisi psicologica dei personaggi, la predilezione per ambienti chiusi al limite del claustrofobico a cui sempre fa da sfondo un paesaggio suggestivo. E poi, naturalmente, uno o più  delitti a completare il quadro.

Il Polarlys è una nave mercantile la cui rotta è da anni sempre la stessa: parte da Amburgo con un carico di carne salata, frutta e macchinari per raggiungere via via tutte le piccole cittadine portuali della costa norvegese scambiando la merce trasportata con merluzzo, olio di foca e pelli d’orso. Nonostante sia un’imbarcazione nient’affatto ospitale è solita trasportare anche qualche passeggero, che approfittano della rotta per raggiungere luoghi isolati tra i fiordi. Quella mattina, quando  il Polarlys è ancora ormeggiato in porto, il capitano Petersen avverte nell’ aria glaciale ammantata di nebbia un presagio nefasto, quello che i lupi di mare come lui chiamano “Il malocchio“.  Non sarà uno dei soliti viaggi, di questo è certo. Quello che non comprende è il perché. Potrebbe dipendere, riflette, dal fatto che l’equipaggio è cambiato per la prima volta dopo anni: la compagnia gli ha mandato infatti un terzo ufficiale, un ragazzo imberbe appena uscito dalla scuola navale, dall’ aspetto smunto ma impeccabile che però non gradisce,  provando un’immediata diffidenza. Il suo capo macchinista ha poi letteralmente raccattato sul molo un vagabondo nulla facente per sostituire all’ ultimo minuto un carbonaio malato, che gli piace ancora meno del suo terzo ufficiale. Infine, ci sono i passeggeri: dei cinque che si sono registrati all’ imbarco uno è scomparso immediatamente dopo, lasciando solo il suo bagaglio a testimoniarne la presenza a bordo; un fatto quanto meno insolito, come ancora più insolito  è l’imbarco di Katia Storm, una giovane donna bionda, dai tratti infantili ma dalla bellezza conturbante. Una creatura misteriosa, ambigua, raffinata, in netto contrasto con lo stile semplice e rozzo della nave. Perché una donna così decide di imbarcarsi su un mercantile come il Polarlys, con la puzza di merluzzo che invade le cabine  ed il ponte costantemente ingombro di merci? Perchè quel viaggio tra i fiordi ghiacciati, con una temperatura polare che stringe le membra come in una morsa? 

Mano a mano che il mercantile prosegue il suo viaggio addentrandosi nel fitto di una tempesta di neve, l’oscuro presagio annusato nell’ aria dal capitano Peterson sembra trovare conferma nel misterioso delitto che viene compiuto a bordo, a cui seguono strani ritrovamenti che sembrano indicare un colpevole ma che, invece, servono solo a deviare i sospetti. Un altro assassinio, avvenuto tempo prima a Parigi, pare essere collegato con l’omicidio compiuto a bordo: un miglio alla volta il mistero si dipana, ma l’atmosfera cupa  e spettrale continuerà a gravare su quel disgraziato mercantile come una maledizione. Peterson, marinaio di lungo corso, è uno dei protagonisti più indovinati e meglio tratteggiati dalla penna di Simenon. Dalla corporatura tarchiata e robusta, energico e concreto, prende in mano la situazione cercando di capire cosa stia succedendo durante quella traversata, indaga, interroga il suo equipaggio, si pone mille dubbi e cerca risposte alle sue domande osservando, o meglio scrutando, la vita di bordo. In particolare si arrovella su una certa frase, buttata lì quasi per caso dal carbonaio improvvisato, della quale non riesce a comprendere il significato e che pure suona come un monito, un avvertimento. Anche Katia Storm  è una figura perfettamente delineata, una dark lady dall’ aria innocente ma dalla personalità viziosa e disturbata fatta apposta per scombinare gli equilibri di passeggeri ed equipaggio.

Chiudendo gli occhi pare anche a noi di scorgere  in lontananza la nave mercantile mentre cerca il suo spazio all’ interno dei fiordi, con il suo scambio di averi e di uomini che avviene puntuale in ogni  minuscolo porticciolo della Norvegia, altrimenti isolato. La fitta nebbia, densa e ghiacciata come glassa, avviluppa il Polarlys trasformandolo in una macchia di luce evanescente nel buio della notte polare,  pulsante di solitudine, smarrimento ed inquietudine.

 

Il passeggero del Polarlys, Georges Simenon – Gli Adelphi

phpthumb_generated_thumbnailjpg

“Strade di notte”, di Gajito Gazdanov: l’esilio dell’anima

Per chi già ha conosciuto ed amato Gajito Gazdanov in “Incontrarsi a Parigi”, in questo romanzo troverà la riconferma del suo grande talento letterario. Gazdanov nacque a San Pietroburgo agli albori del 1900, e dopo aver trascorso la giovinezza in Siberia ed Ucraina prende parte alla guerra civile russa arruolandosi nelle file dell’armata bianca. Nel 1920, in seguito alla sconfitta dei controrivoluzionari, fu costretto all’ esilio e si rifugiò a Parigi. Qui Gaznadov conduce un’esistenza precaria, svolgendo innumerevoli lavori che non gli permettono di coltivare a tempo pieno il suo talento letterario. Tra le varie mansioni che svolse in gioventù  vi fu anche quella di tassista notturno, e sarà  proprio questa l’esperienza da cui  trarrà ispirazione per comporre “Strade di notte”.

Le strade che ripercorre scrivendo sono quelle che una notte dopo l’altra l’hanno portato ad attraversare  il cuore nero di Parigi, quello popolato da miserabili e reietti, prostitute ed alcolizzati cronici capaci di sperperare tutto il guadagno di un mese  in un solo night club. La città vista attraverso i suoi occhi è nuda e scarna, è una giostra che ha finito la sua corsa e che non ha nulla del fascino de “La Ville Lumière”. E’ un altro sguardo quello che  ci offre Gaznadov, forse più sincero, sicuramente del tutto impermeabile alle suggestioni che Parigi offre ai suoi avventori. E’ uno sguardo distaccato, intriso di una invincibile nostalgia per la sua amata Russia che lo accompagna costantemente, fino a quando giunge l’ora di caricare anche l’ultimo vagabondo di Les Halles. Prima di prendere la licenza come tassista Gaznadov lavorò nella fabbrica della Renault per qualche tempo, ma dopo poco si licenziò perchè non riusciva a sopportare  quell’ esistenza da topo in gabbia, fatta di giornate sempre uguali, scandite dal suono della sirena ed inframmezzata da qualche sigaretta fumata insieme ai colleghi. Non riusciva a comprendere come facessero gli altri  operai a trascorrere una vita intera in quelle condizioni di staticità e di monotonia  che tanto facevano a cazzotti con la sua natura curiosa e ricca di sfumature.

Se avevo detto addio alla fabbrica non era per il troppo lavoro: ero sanissimo e non sapevo, o quasi, cosa fosse la stanchezza. Però non sopportavo di starmene rinchiuso in reparto, mi sentivo in gabbia e mi chiedevo come facessero gli altri a passare la vita, decine di anni, in quelle condizioni.

Il lavoro di tassista notturno gli permetteva se non altro di entrare in contatto con altri esseri umani, uomini e donne sull’ orlo del baratro che però muovono qualcosa dentro di lui. Sono, in fondo, i molti  riflessi di sè stesso, la compagnia perfetta per la sua solitudine, una  consolazione alla sua tristezza di esule.  Gaznadov riconosce nelle loro storie in bilico una disperazione che li è familiare,  in grado di donargli un conforto di cui ha assoluto bisogno. Non è necessario ascoltare le loro storie per conoscere le loro vite, non sempre: all’autore basta soffermarsi ad osservare i loro visi erosi dal tempo, inespressivi, rassegnati a non avere più prospettive, capaci solo di vivere il momento con un’intensità spaventosa, al tempo stesso tragica ed affascinante.

Ricordo in eterno il viso di una donna che ho incrociato una volta soltanto, tengo a mente per anni emozioni e pensieri di una singola giornata. L’unica cosa che dimentico con facilità sono le formule matematiche, le trame e i contenuti dei libri e manuali letti nel tempo. Le persone, invece, le ricordo tutte quante, anche se la stragrande maggioranza di loro non ha avuto alcun ruolo nella mia esistenza.

Qualcuno inevitabilmente attira più di altri la curiosità dell’autore, spingendolo a cercare la loro compagnia anche quando la corsa finisce: è così per la Raldi, una prostituta ormai sul viale del tramonto che ai tempi de La Belle Epoque era la più desiderata di Parigi, corteggiata da uomini ricchi e potenti, a cui ora non resta che qualche misero orpello a ricordarle i fasti di una vita passata.  E poi c’è Platone, un alcolizzato che Gaznadov incontra praticamente tutte le notti, alcune volte per caso, altre per scelta: è un uomo colto, che ama parlare di filosofia e che non ha nessuna speranza di redimersi. Forse, nemmeno la cerca. Una donna ed un uomo allo sbando, loro come  tanti altri che Gaznadov osserva dallo specchietto retrovisore, o sul ciglio della strada mentre aspettano di essere trascinati ancora un po’ lungo le strade buie dei quartieri suburbani. Ogni notte queste creature inconsapevolmente umane cercano la forza per andare avanti dissolvendosi tra bettole fumose e squallidi caffè, prima che il giorno li respinga ancora una volta nei bassifondi, inchiodati all’ angolo dallo sguardo impietoso della gente perbene.


Il senso di questo romanzo è tutto qui: offrire a noi lettori una prospettiva diversa, aiutarci a comprendere come la vita sia spesso attraversata da un gomitolo di strade malamente illuminate, come quelle che percorre lui ogni notte, così diverse dai lussureggianti boulevard del centro, ma non per questo meno degne di essere percorse. Ognuno dei suoi avventori ha una storia alla spalle che merita di essere raccontata ed ascoltata, da cui trarre profondi insegnamenti a dispetto delle apparenze: quello che Gaznadov impara, e noi lettori  con lui, non è altro che la vita stessa, con i suoi percorsi tortuosi, i suoi successi e le sue rovinose cadute, spesso annunciate ed inevitabili, alle quali assistiamo impotenti.

“Il conte di Montecristo”, di Alexander Dumas: storia di una vendetta

“…E non dimenticare mai che, fino al giorno in cui Iddio si degnerà di svelare all’uomo l’avvenire, tutta l’umana saggezza sarà riposta in queste due parole: aspettare e sperare”.

Così si è conclusa, circa un paio di mesi  fa, la mia avventura con il Conte di Montecristo. Tutti noi, chi più chi meno, conosciamo la storia della più grande vendetta mai concepita dalla mente umana. Film, vecchi sceneggiati a puntate…sulla storia inventata da Alexander Dumas è già stato prodotto di tutto. Il romanzo però, nemmeno a dirlo, è tutt’ altra cosa. Perché si sa: niente può contro la potenza evocativa delle parole. Si possono scegliere come attori figuranti perfetti, ma non ci sarà mai nessuno all’ altezza delle descrizioni di Dumas quando parla dello sguardo del Conte. Uno sguardo che più volte viene ricordato ai lettori, unica traccia di un passato di disperazione e di solitudine inimmaginabile. Dumas ha ucciso Edmond Dantes e l’ha fatto rivivere nella straordinaria figura del Conte di Montecristo, ma non smette mai di ricordarci come dietro l’incredibile ricchezza, la cultura, l’eleganza e l’irreale compostezza di quest’uomo uscito dal nulla ci sia sempre l’ombra di quel semplice marinaio la cui vita fu distrutta proprio all’ apice della felicità, a causa dei peggiori tra i sentimenti umani: invidia, brama di potere, codardia.
Quando mi chiedono qual è il mio romanzo preferito (in realtà non me lo chiede quasi nessuno, perché ai più non interessa) ho sempre risposto “Delitto e Castigo” di Dostoevskij. Poi è stata la volta del mio incontro con Dickens, e il David Copperfield ha preso il suo posto. Da ora in poi, non c’è più gara: ha vinto il Conte di Montecristo, chiusa la questione.
Questo tomo di 1.200 pagine, che con la sua impressionante mole mi aveva sempre tenuto a distanza (stupida me) è un viaggio straordinario tra le coste di Marsiglia, Parigi, Roma, che vale assolutamente la pena compiere.

E’ uno di quei libri che non si possono leggere con superficialità, quando qualcos’altro ci distrae con immagini e rumori di sottofondo, perché ha bisogno di silenzio e di devozione totale: capiterà anche a voi, come è capitato a me, di volersi ritagliare sempre più spesso momenti di totale isolamento per potersene gustare fino in fondo la lettura. Dumas non lascia scampo. Ogni frase, ogni parola, ogni dettaglio sono importanti e ne sarete avidi. Leggerlo è stato un terremoto emotivo, ed è molto complicato cercare di rendere nero su bianco quello che mi ha trasmesso e soprattutto quello che mi ha lasciato. E non sto esagerando: chi ama leggere sa di cosa parlo.

La storia, come dicevo prima, la conoscono più o meno tutti: Edmond Dantes è un giovane marinaio che sta per essere promosso capitano di una nave mercantile, è innamorato della bella Mercedes che sposerà di lì a qualche giorno ed è un figlio premuroso e devoto. Ma il destino, che fino ad un attimo prima pareva così carico di promesse, si abbatterà su di lui impietosamente. Viene arrestato con l’infamante accusa di bonapartismo proprio il giorno del suo fidanzamento, davanti a suo padre e alla donna che ama. Condotto il giorno stesso di fronte al procuratore del Re, non riuscirà a districarsi dal complotto ordito alle sue spalle, anzi: al brutto scherzo giocato dai suoi nemici, si aggiungerà anche l’opportunismo e la brama di potere di colui che dovrebbe garantire l’applicazione della Legge e della Giustizia . Nonostante le finte rassicurazioni del Procuratore del Re, viene condotto nottetempo nelle prigioni del Castello d’If, al largo della costa marsigliese. In questo luogo terribile trascorrerà quattordici anni, quattordici anni senza sapere perché e per colpa di chi è stato privato così a lungo della sua vita onesta, dimenticato dalla giustizia di Dio e degli uomini. Proprio quando ormai, stremato dalla solitudine e dalla disperazione, tenta il suicidio lasciandosi morire di fame, un barlume di speranza si riaccende in lui. Un rumore, dapprima impercettibile, poi sempre più insistente, arriva fino alla sua cella. E poi una voce, che dopo un tempo infinito rompe quel silenzio immobile. E’ l’Abate Faria, incarcerato anche lui da molteplici anni e creduto pazzo: incontro che cambierà per sempre la vita di Edmond. (Se volete approfondire la sua incredibile storia, leggete questo mio vecchio post )Le pagine in cui Edmond e Faria stringono amicizia sono tra le più belle del romanzo, quelle in cui a mio avviso emerge tutta la straordinaria bravura di Dumas. La descrizione di come la vita in cella diventa improvvisamente un momento felice di conoscenza e di affetto, di studio, di insegnamenti preziosi, è avvincente come un moderno tv movie. L’Abate Faria infatti è un uomo dotato di un ingegno fuori dal comune e di una immensa cultura, da cui Edmond apprenderà moltissimo. Ma soprattutto, ormai legati indissolubilmente come padre e figlio, pianificheranno insieme la fuga dal Castello. Grazie alla sagacità di Faria, Edmond riuscirà a vedere sempre più chiaramente cosa si cela dietro il suo arresto, e comincerà così a tessere le trame di una vendetta che si abbatterà implacabile sui suoi nemici.
 
Quello che più mi ha colpito, a parte l’intrigo della trama e la costruzione lenta, metodica e geniale della vendetta, è stata la trasformazione psicologica del protagonista. Quando viene condotto nelle segrete del Castello D’ If Edmond è solo un ragazzo semplice che crede nella vita e negli uomini, con l’ingenuità tipica dei vent’anni. Quattordici anni di prigionia, per mano di esseri meschini e vigliacchi che invidiavano il suo piccolo mondo felice, cambieranno per sempre il suo animo puro. Quando finalmente si ritroverà libero ed infinitamente ricco, quel ragazzo morirà definitivamente. Il corpo invecchiato dalla prigionia è l’unica cosa che rimarrà intatta di Edmond Dantes, oltre ad una indicibile sofferenza che solo lo sguardo, a volte, tradirà.
Il corpo di Edmond sarà la dimora del Conte di Montecristo, un uomo totalmente diverso: ricco, colto, affascinante, enigmatico. Con i suoi modi raffinati, il linguaggio ricercato e uno straordinario carisma riuscirà ad insinuarsi nell’ alta società parigina, soggiogando con la sua aurea di mistero tutti coloro che un tempo l’avevano tradito e ricoperto d’infamia. Abile calcolatore, muove le sue ignare pedine verso il compimento di una vendetta che sente di dover infliggere a questi uomini come se non fossero solamente suoi nemici, ma come se punisse per mano di Dio un esempio di umanità empia e codarda. In preda ad un delirio di onnipotenza, più volte si sentirà un tramite della giustizia Divina, un emissario della Divina Provvidenza che lo ha salvato dalla morte affinché portasse a termine la sua volontà suprema, quella di premiare i giusti e condannare gli infami. E’ con queste deliranti convinzioni che la sua vendetta si alimenterà di orrore in orrore, fino a quando Il Conte capirà che nemmeno lui, così duramente colpito dalla vita, può arrogarsi il diritto di distruggere senza alcuna pietà quelle altrui. Ricorderà di essere ancora Edmond Dantes grazie a colei che un tempo amava profondamente, Mercedes. Solo lei, con il suo esempio di sconfinato amore materno, riuscirà ad aprire una breccia nell’ impenetrabile corazza del Conte. Poco alla volta, e non senza tormento, nel suo animo troverà posto il perdono e arriverà finalmente a conoscere la pace ed una nuova, insperata felicità.
 
Solo colui che ha conosciuto l’estrema sventura è in grado di provare l’estrema felicità. Bisogna aver desiderato morire per sapere quanto sia bello vivere.
 
Un elemento di grande attrattiva è anche l’ambientazione, un vero e proprio viaggio nel tempo: la società ottocentesca dell’ultimo Impero di Bonaparte e della successiva Restaurazione, di cui Parigi costituiva il fulcro vitale, scorre davanti a noi lettori come un film e ci regala bellissime immagini: scorci della vita marinara di Marsiglia, il Carnevale di Roma, i banditi che infestavano le campagne dell’Italia, le serate nei teatri parigini, le passeggiate in carrozza nei grandi boulevards della Ville Lumiere, i duelli con cui si dovevano risolvere le questioni tra galantuomini, e poi ancora amori clandestini, figli nati dal peccato, “dark lady” esperte in micidiali veleni….
Insomma, buttatevi in quest’avventura. Ne uscirete prima di quanto pensiate, immensamente soddisfatti.

 

“Central Park”, di Guillaume Musso: molto più di un thriller

 
Immaginate di svegliarvi una mattina su una panchina di Central Park, e di non ricordare più nulla della notte precedente.  Il vostro ultimo ricordo risale ad una  piacevole serata trascorsa in compagnia delle amiche, sugli Champes Elysées. Nel Vecchio Continente, dall’altra parte dell’Oceano. Un giro di locali, parecchi drink e poi il risveglio in un luogo sconosciuto e distante ore di volo da casa vostra. Accanto a voi, ammanettato, c’è un uomo di cui ignorate l’identità: comincia così questo coinvolgente thriller di Guillaume Musso, scrittore di cui avevo sentito parlare ma di cui non avevo ancora letto nulla. Questa mi è sembrata un’ottima occasione per fare la sua conoscenza.
Sono le otto del mattino e Central Park è ancora avvolto  in un’aura di pacifica sonnolenza quando Alice e Gabriel si risvegliano ammanettati insieme su una panchina, in una zona interna e poco frequentata del parco. Lo sgomento iniziale diventa quasi panico nel momento in cui si rendono conto di come sono finiti in quel luogo così lontano dalle loro vite: la camicetta di Alice è sporca di sangue, ed ha in mano una pistola a cui manca una pallottola. Alice è una poliziotta della “Crim” di Parigi, mentre Gabriel è un pianista Jazz newyorkese che la sera precedente si stava esibendo in un locale di Dublino. Apparentemente quindi nessun legame unisce i due protagonisti, se non il fatto che entrambi la notte precedente si trovavano in Europa. E non ricordano nulla. L’istinto da segugio di Alice si risveglia immediatamente: non c’è tempo da perdere, bisogna agire in fretta per risolvere l’enigma e soprattutto per tirarsi fuori dai guai. Alice e Gabriel cominciano così un’indagine che è una corsa contro il tempo, in cui nulla è come sembra. Non voglio spoilerare nulla, quindi non farò altre allusioni alla trama: se deciderete di leggere questo thriller, sarà un sicuro piacere scoprire pagina dopo pagina quali segreti custodiscono i due protagonisti, quale intricata matassa devono sbrogliare mentre  dolorosi ricordi emergono poco alla volta dai meandri delle loro menti confuse.
 

Questa lettura tiene aggrappati alle pagine e non da nessuna tregua, il ritmo è affannoso e ansiogeno, carico di momenti di pathos e di tensione. Musso fa e disfa una matassa che sembra sempre sul punto di dipanarsi, per poi intricarsi ancora di più. Quando pensi di avere chiara la situazione, lui stravolge le carte in tavola e ti ributta dentro la storia con altre domande e nuovi dubbi. Fino alle ultime pagine, quando un finale che assolutamente non mi aspettavo  mi si è  rovesciato addosso con un carico da novanta, lasciandomi sbigottita, incredula e anche molto arrabbiata.

 
Sì caro Musso, questo non me lo dovevi fare. Non l’ho sopportato, l’ho trovato ingiusto e troppo duro da accettare, mi hai ingannata per 350 pagine e poi mi hai lasciata lì, ormai talmente coinvolta nella storia al punto che leggendo l’explicit mi sono venute anche le lacrime agli occhi. Mi sono commossa per la più crudele  storia d’amore che si potesse inventare. Amore per la vita, amore per la speranza. Sono sentimenti  che non si trovano facilmente in un thriller,  ed è anche questo ad avermi spiazzato completamente. Il destino che ha inventato per Alice è troppo accanito, troppo spietato. E anche se nelle ultime pagine ci lascia intravedere uno spiraglio di possibile felicità, non è sufficiente a stemperare l’eccessiva crudeltà con cui questa ragazza è costretta a fare i conti. Alice è un personaggio straordinario, che mi è piaciuto moltissimo per la sua energia e per la sua carica esplosiva. E’ una donna forte, una combattente. Ha un linguaggio diretto ed è abituata a decidere in fretta, il suo lavoro non le permette di indugiare e questo atteggiamento risolutivo e battagliero se lo porta dietro continuamente, perché fa  parte integrante della sua natura. E’ così anche nella vita privata: è una donna per la quale le mezze misure non esistono. E’ questo spirito indomito la sua carta vincente, quello che le ha permesso di fare carriera in polizia a soli trent’anni, ma è anche ciò che le ha causato molti guai nella vita privata. I rapporti  con la sua famiglia sono freddi e distaccati, perché la sua diversità non viene accettata. Sua madre e i suoi fratelli la compatiscono e la giudicano dall’alto delle loro vite da copertina, la guardano con commiserazione  perché è single,  perché non è elegante, perché da la caccia ai serial killer e passa le serate alla Crim. Nessuno la riesce a comprendere tranne suo padre, un famoso ex agente di polizia caduto in disgrazia. La sua vita privata, così come quella da poliziotta, subisce imprevedibili cambi di rotta tanto repentini quanto spiazzanti. Come sulle montagne russe, Alice alterna una  profonda  solitudine ad istanti di felicità intensa, per i quali pagherà uno scotto durissimo. E’ dotata di un istinto da cacciatrice che non si placa nemmeno per un attimo, per seguire il quale rischia tutta se stessa. E poi c’è Gabriel, questo sconosciuto che si risveglia accanto a lei, stropicciato ed affascinante, con lo sguardo affilato come la lama di un rasoio. La sua identità è avvolta nel mistero, un garbuglio che sembra sciogliersi per poi attorcigliarsi su sè stesso almeno un paio di volte. Quando pensi di aver capito finalmente chi è, ecco che la pagina dopo capisci che in realtà non hai capito proprio nulla. E’ come se Musso continuasse a giocare  a scacchi con i pensieri del lettore, facendo ogni volta la mossa giusta.
Potrei muovere diverse critiche a questo thriller, perché non è immune da difetti e soprattutto verso la fine l’autore  compie scelte narrative troppo spinte, decisamente oltre il limite della veridicità. Inoltre, sempre verso il finale, sconfina in qualche banalità sentimentale di troppo, cosa che  poteva tranquillamente evitare e che non convince. Però fa il suo dovere, e lo fa dannatamente bene. Un thriller deve tenere alta e costante la tensione nel lettore, e Musso ci riesce perfettamente. L’ho letto in soli tre giorni, tenendo accesa la luce dell’ abat-jour fino a tardi, nonostante le palpebre calanti e il sonno prepotente. Ma non potevo staccarmi, non riuscivo. Un bravo autore di thriller deve anche saper depistare: mentre i gialli classici solitamente tengono il lettore sullo stesso binario durante tutto il tragitto per poi farlo improvvisamente deragliare, Musso ci fa cambiare treno spesso, facendoci scendere ogni volta alla fermata sbagliata. Inoltre, cosa poco usuale nei thriller, ha saputo dare vita a personaggi per cui è facile provare una forte empatia. O almeno, con me è stato così. E’ questo il motivo per cui, alla fine, mi sono commossa pensando alla vita di Alice. Quando questo elemento manca il trasporto verso i protagonisti si esaurisce in fretta, o non compare nemmeno: quello che mi ha stupita è stato trovare così tanto pathos  in un genere letterario in cui le emozioni di solito non sono previste. Le motivazioni che spingono Gabriel ad agire in un determinato modo, che come si scopre nelle ultime pagine hanno retto i fili della storia fin dall’ inizio, sono piuttosto inverosimili e sbrigative. Penso sinceramente che  Musso abbia perso un’occasione per scrivere un finale degno del resto del libro. Però voglio tenermi tutto il buono che c’è, perché un buon thriller non si giudica solo dal finale ma da  come l’autore ha saputo giocare con noi. E Musso ha giocato la sua partita sapientemente, vincendo a mani basse.
 
 
 
Ci saranno mattine chiare e mattine cariche di nubi.
Ci saranno giorni d’incertezza, giorni di paura, ore vane e grigie nelle sale d’attesa che sanno d’ospedale.
Ci saranno parentesi leggere, primaverili, adolescenti, in cui persino la malattia riuscirà a farsi dimenticare.
Come se non fosse mai esistita.
Poi la vita continuerà.
E tu ti ci aggrapperai.
Ci saranno la voce di Ella Fitzgerald, la chitarra di Jim Hall, una melodia di Nick Drake, tornata dal passato.
Ci saranno passeggiate in riva al mare, l’odore dell’erba tagliata, il colore di un cielo tempestoso.
Ci saranno giorni di pesca con la bassa marea.
Sciarpe annodate per affrontare il vento.
Castelli di sabbia che terranno testa alle onde salate.
E cannoli al limone mangiati in piedi lungo le strade del North End.
(…) Ci saranno altre degenze in ospedale, altri esami, altri trattamenti.
E ogni volta sarai lì a combattere, la paura nella pancia e il cuore stretto, con l’unica arma del tuo desiderio di vivere ancora.
E ogni volta dirai che, qualunque cosa ti possa capitare adesso, sarà comunque valsa la pena di vivere tutti quei momenti che hai strappato alla fatalità.
E che nessuno te li potrà mai togliere”

 

6477161_817316