“l’isola di Arturo”, di Elsa Morante: crescere nell’incanto di Procida

L’anno scorso sono stata a Procida. E, forse, non sono più veramente tornata.
Il romanzo è ambientato tra il 1935 e il 1940, poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Arturo Gerace è un bambino che ha vissuto tutta la sua vita sull’isola di Procida, la quale rappresenta il suo intero universo, affettivo e geografico. Cresce allevato da un uomo che gli fa da balia, perché la madre muore dandolo alla luce ed il padre Whillelm è sempre lontano da Procida. Suo padre, così come il resto del mondo che conosce solo attraverso i libri, assumono per lui una dimensione  leggendaria, che travalica la realtà per confodersi con la sua fantasia di bambino. Durante la bella stagione, che a Procida dura da aprile a settembre, passa il tempo a fare lunghi bagni, escursioni in mare con la sua barca, o a giocare in spiaggia con il suo cane Immacolatella. Quando l’autunno comincia ad abbracciare l’isola, anticipando ogni giorno l’ora del tramonto, Arturo si chiude nella “Casa dei Guaglioni” a leggere le storie dei Condottieri e a tracciare sull’atlante la linea immaginaria dei suoi viaggi. Quelli che, una volta cresciuto, avrebber intrapreso  con il padre. Per lui Wilhelm  è una specie di eroe, un marinaio avventuroso, un vero viaggiatore e cittadino del mondo: così giustifica in cuor suo le lunghe assenze del genitore, cercando nell’immaginazione quell’amore che non c’è mai stato, quell’assenza di carezze e di gesti d’affetto che per un bambino sono la vita stessa. La Morante non insiste mai sull’infanzia avara del bambino, ma anzi amplifica il sentimento di amore filiale di Arturo nei confronti di suo padre.
Le lunghe attese del ragazzo sulla spiaggia di Procida sono sempre descritte con emozione e gioia, perchè Arturo sepeva sempre in cuor suo quando il vaporetto sarebbe giunto da Napoli con il suo prezioso carico. Era per lui il giorno più bello, a cui sarebbero seguiti molti altri, fino alla nuova partenza di Wilhelm. Nonostante l’infanzia vissuta senza obblighi e senza regole, spensierata e giocosa,  Arturo  porta inevitabilmente  dentro di sè un grande vuoto: la malinconia di un bambino che non sa dare un nome alla sua fame d’amore.
Allora, i miei occhi e i miei pensieri lasciavano il cielo con dispetto, riandando a posarsi sul mare, il quale, appena io lo riguardavo, palpitava verso di me, come un innamorato. Là disteso, nero e pieno di lusinghe, esso mi ripeteva che anche lui, non meno dello stellato, era grande e fantastico, e possedeva territori che non si potevano contare, diversi uno dall’altro, come centomila pianeti! Presto, ormai, per me, incomincerebbe finalmente l’età desiderata in cui non sarei più un ragazzino, ma un uomo; e lui, il mare, simile a un compagno che finora aveva sempre giocato assieme a me e s’era fatto grande assieme a me, mi porterebbe via con lui a conoscere gli oceani, e tutte le altre terre, e tutta la vita!”
Gli incantesimi si sa, non durano per sempre. E anche l’incanto di Procida, che protegge l’infanzia di Arturo come una boccia di cristallo, si spezza un giorno come tanti. Un bagaglio nuovo di sentimenti contrastanti ed emozioni sconosciute fanno breccia nel cuore del ragazzo che, ancora una volta, non sa dare un nome a ciò che prova. Di ritorno da uno dei suoi viaggi,  Wilhelm  porta con sè a Procida una ragazza giovanissima, Nunziata, la sua nuova moglie. Arturo non ha mai conosciuto nessuna donna, nemmeno la propria madre, e all’inizio questo incontro lo disorienta. Il suo animo infantile la disprezza, ritenendola un essere inferiore, perché ha la convinzione che tutte le  femmine, nessuna esclusa, siano brutte e stupide. Ma soprattutto, Nunziata non è degna di prendere il posto di sua madre. Arturo è geloso delle attenzioni che il padre riserva alla sposa, ma non comprende  la vera natura sua rabbia; ed è così che alza un muro contro la ragazza, fatto di silenzi e di fughe. Durante le lunghe assenze di Wilhelm  da Procida Arturo e Nunziata sono costretti ad una convivenza difficile, perché mentre Nunziata cerca di instaurare un rapporto con il ragazzo, ottemperando ai suoi doveri di matrigna, lui non le rivolge la parola e la evita, addirittura non la chiama mai nemmeno per nome. Arturo è incosnapevolmente  attratto dalla giovane donna:  il rancore, il rifiuto e il disprezzo che le riserva non sono altro che i confusi germogli di un sentimento che piano piano si fa spazio dentro di lui.
Da questo momento in avanti, gli avvenimenti si susseguono rapidi e la malìa di Procida sembra aver allentato momentaneamente la presa su Arturo. Non corre più spensierato per le vie del borgo e poi giù fino alla spiaggia, pensando alle storie dei grandi Condottieri; nemmeno si illude più di compiere viaggi da grande esploratore intorno al mondo. I suoi tormenti sono ora reali, non immaginari, e non deve cercarli lontano da Procida perché sono proprio lì, nella grande casa che abita da quando è nato. Arturo sta crescendo, sta diventando un uomo, sperimenta la gioia e il turbamento dell’amore e del sesso, che troverà in un’intraprendente amica di Nunzia. Anche gli altri protagonisti vivono profondi sconvolgimenti, sembra che nulla sia più uguale a prima, per nessuno. Nunziata subisce come una disgrazia i  sentimenti che si accorge di provare nei confronti del figliastro, dilaniata dal senso di colpa e dal  peccato. Riversa tutto il suo amore sul figlioletto Carmine, nato l’anno prima, ormai consapevole di non avere mai avuto nulla all’infuori di questo: nè  Wilhelm, nè Arturo.
Wilhelm, tornato a Procida dopo un lunghissimo periodo di assenza, è ora sofferente e sfuggente, al punto che Arturo non lo riconosce più. Aspettava con ansia il suo ritorno perché era  sicuro che il padre l’avrebbe portato con lui durante il suo prossimo viaggio. La soluzione al suo disagio stava tutta lì, nella concreta possibilità di partire, di scappare da Procida e da quello che ormai l’isola rappresentava. Abbandona anche la sua amante, per la quale non prova nulla, perché si sente rifiutato da tutti e disperatamente solo. La scoperta più amara di Arturo  non sarà però l’amore non ricambiato per Nunziata, ma riguarderà l’eroe della sua fanciullezza: suo padre. Sarà la ferita definitiva, quella che non guarirà e che gli farà prendere una decisione sofferta ma inevitabile. Le pagine in cui la Morante ci guida nel labirinto di sentimenti che prova Arturo in questo frangente sono a mio avviso tra le più belle non solo di tutto il romanzo, ma che abbia mai letto in generale. La scrittura  raggiunge livelli altissimi mentre l’isola di Procida sfuma nei suoi contorni, non può più essere solo un paesaggio, perchè si confonde e si completa con l’anima di Arturo; la delusione e la  sofferenza del ragazzo non trovano pace, ma in quel disincanto c’è una poesia di rara bellezza. Riusciamo a percepire l’intensità del suo il dolore, ma al tempo stesso non possiamo sottrarci al fascino di Procida, che continua ad abitare il cuore del giovane anche quando è spezzato dagli eventi. Indimenticabili le ultime righe, quando Arturo dice addio a suo modo all’isola, abitata dall’amore e dall’odio nella stessa misura, ma pur sempre parte di sè. L‘isola è il simbolo della fanciullezza spensierata e dolce, in cui l’innocenza sembra eterna e la realtà è solo un’eco lontana che non ci sfiora mai. Quando la vita inevitabilmente irrompe con le sue dure leggi anche Procida assume un aspetto diverso, diventa desiderio di fuga, dispiacere, dolore. L’età adulta ci porta in dono la consapevolezza e la capacità di distinguere la realtà dalla fantasia, e rivela le menzogne che spesso ci costruiamo da soli, in un gioco infantile. Quasi sempre però è un boccone amaro, per Arturo come per chiunque di noi.
“…Come fui sul sedile accanto a Silvestro, nascosi il volto sul braccio, contro lo schienale. E dissi a Silvestro: – Senti. Non mi va di vedere Procida mentre s’allontana, e si confonde, diventa come una cosa grigia…Preferisco fingere che non sia esistita. Perciò, fino al momento che non se ne vede più niente, sarà meglio ch’io non guardi là. Tu avvisami, a quel momento.
E rimasi col viso sul braccio, quasi un malore senza nessun pensiero, finché Silvestro mi scosse con delicatezza, e mi disse: – Arturo, su, puoi svegliarti.
Intorno alla nostra nave, la marina era tutta uniforme, sconfinata come un oceano. L’isola non si vedeva più.”

L’isola di Arturo – Elsa Morante (Einaudi)

L'ISOLA DI ARTURO DELLA MORANTE, 60 ANNI INTRAMONTABILI

“Dio di illusioni”, di Donna Tartt: bellezza è terrore

 
Sono trascorsi ventiquattro anni da quando “Dio di Illusioni” è stato pubblicato per la prima volta, diventando un grande caso editoriale che ha acceso animi e dibattiti  fiume. All’epoca Donna Tartt era una scrittrice al suo primo romanzo, ed è molto raro  che un esoridio sia così folgorante: 5 milioni di copie è una cifra da capogiro. La nostra enigmatica autrice però è poco prolifica, tant’è che  da allora ha pubblicato solo tre libri: “Dio di Illusioni“, “Piccolo Amico” ed infine nel 2014  “Il cardellino“, con cui vince il premio Pulitzer. E’ proprio con questo ultimo lavoro che scopro la sua esistenza: la critica parla di “ennesimo capolavoro”, ed io non so chi sia quella donna. Ho deciso quindi che dovevo  colmare questa lacuna, partendo dall’inizio. Ed è così che dopo vari tentennamenti mi sono dedicata a “Dio di Illusioni”, non prima di aver letto qua e là alcune recensioni. Sono incappata in tanti commenti positivi e lodi profuse, ma sono in tanti anche quelli che parlano di un libro sopravvalutato di un’autrice standarizzata, un pacchetto costruito ad hoc per lettori ingenui. Mi viene quasi naturale schierarmi dalla parte dei buoni e quindi decido di affrontare la lettura con uno stato d’animo benevolo, alzando molto il livello delle mie aspettative. Per cui aspetto. Aspetto di imbattermi in qualcosa di indefinito che dovrebbe scuotermi, stravolgermi. Ma per 600 pagine e oltre tutto resta sospeso tra le righe e la mia ricerca si rivela vana: continuo a girare pagine su pagine, presa al cappio da una prosa a volte ostica che però non mi lascia scampo. Mi stanca il cervello, Donna Tartt. Io che amo la scrittura sobria ed essenziale mi sono ritrovata in balia di lunghe dissertazioni, di dialoghi ridotti all’osso  ma infiniti per lunghezza di pensiero, di descrizioni di stati d’animo interminabili. Eppure,  nonostante la lentezza di alcuni momenti, non sono mai stata capace di staccarmi da quelle pagine. Ogni volta che riprendevo la lettura alcune immagini, sempre le stesse, mi tornavano prepotenti davanti agli occhi: il Vermont, la neve. La solitudine di quel College così esclusivo. E Bunny, il sacrificio umano di un “Baccanale” finito in disgrazia.
 
La storia si snoda all’interno di una scuola elitaria del Vermont, in cui l’io narrante, Richard, finisce quasi per caso. Non c’entra nulla con il mondo dei college esclusivi, lui che arriva dalla provincia industriale della California, con alle spalle una famiglia modesta a cui non importa granchè dei suoi studi. Compila il modulo di richiesta spinto solo dalla noia e dal desiderio di cambiare scenari, senza seguire particolari inclinazioni se non quella verso gli studi classici. Una serie di circostanze favorevoli gli aprono le porte del prestigioso Hampton College,  facendolo entrare in contatto con una realtà fuori da ogni schema. Non troverà solo ricchezza e prestigio, perchè Hampton dietro la facciata di nobiltà  nasconde ben altro: una  parte insana e malata, che si nutre di boria e senso di superiorità. All’interno delle sue aule esiste un club ancora più esclusivo del college stesso, formato da cinque ragazzi dediti agli studi delle materie classiche e da un professore carismatico ed eccentrico, Julian. Presuntuoso, esteta, è il mentore del gruppo ed è colui che instilla nei ragazzi l’idea che il mondo classico può  e deve rivivere: la società attuale è troppo volgare, prosaica. Non sa cosa sia la vera bellezza, mentre i greci ne avevano il culto:  È un’idea tipica dei greci, e molto profonda. Bellezza è terrore. Ciò che chiamiamo bello ci fa tremare. E cosa potrebbe essere più terrificante e più bello che perdere ogni controllo?” Senza saperlo, senza intuirlo, Julian manipola le loro menti conducendo i suoi allievi verso un imprevedibile epilogo. Desiderosi di fondersi con un’epoca antica e misteriosa, il club dei classicisti si dedica al culto di Dionisio: vogliono osservare e studiare  su loro stessi gli effetti delle forze che si impossessavano degli antichi greci durante  i baccanali offerti al dio.
 
William-Adolphe_Bouguereau_1825-1905_-_The_Youth_of_Bacchus_1884
William Adolphe Bouguereau – The Youth of Bacchus (1884)

Nei rituali dionisiaci venivano stravolte le regole morali e sociali del mondo reale. Attraverso invocazioni allegoriche, l’ebbrezza del vino e danze ritmiche ossessive i devoti al culto raggiungevano uno stato di estasi   che aveva il potere di  riconciliare il genere umano con la natura: una sorta di armonia universale che abbatteva le convenzioni stabilite dall’uomo, in cui tutto era lecito.
Riportare in vita il mondo classico diventa per i ragazzi una sfida contro loro stessi, un gioco seducente e pericoloso. Prede di un delirio psicotico causato da alcol e droghe di ogni tipo,  la notte del baccanale la tanto agognata estasi  degenera rapidamente  in depravazione e violenza. Un uomo viene ucciso barbaramente, a sangue freddo. E sarà l’inizio della fine. L’illusione coltivata dal loro senso di superiorità svanisce quella sera stessa, gettandoli in dinamiche sempre più difficili da gestire e da prevedere. Il baccanale traccia un filo rosso di sangue, il male ormai ha ottenebrato le loro fragili menti ed il gruppo poco alla volta va in pezzi. Nessuna terribile bellezza li ha pervasi, la liberazione dei loro istinti  si è rivelata un fallimento, nessun oblio li ha sganciati dalla realtà. L’esaltazione si è trasformata in  senso di colpa, paura, alienazione, follia. Nessuno di loro riesce a reggere il peso di quella notte maledetta e delle conseguenze che si avvicenderanno rapidamente in seguito, come un’ infernale reazione a catena. Julian, una volta giunto a conoscenza degli atti omicidi compiuti dai suoi studenti in nome di un ideale che lui stesso aveva contribuito ad ingigantire e mitizzare, sparisce senza dare nessuna spiegazione. Da’ immediatamente le dimissioni e prende le distanze da quegli studenti che rischiano di macchiare il suo impeccabile curriculum.  Charles diventerà un alcolizzato, Camilla pederà ogni traccia di dolcezza trasformando la sua bellezza eterea in un guscio freddo e vuoto.  Francis, l’omosessuale del gruppo, continuerà ad essere perseguitato dai suoi fantasmi. L’unico che sembra non avere nessun rimorso è Henry, a cui però è riservato l’ultimo tragico, folle atto. Un gesto che compie non perché attanagliato dai sensi di colpa, ma perché la consapevolezza di aver deluso Julian è un dolore troppo grande da accettare, che lo getta nella disperazione più profonda.


Ci troviamo di fronte ad un capovolgimento assoluto dei ruoli: il gruppo degli eletti diventa poco alla volta un manipolo di disperati, in balia degli eventi. Questo scambio di ruoli è presente in tutto il romanzo, dall’ inizio alla fine: assistiamo ad una partita in cui spesso i ruoli si invertono, le maschere si scambiano, vengono gettate, se ne indossano altre, come in una tragedia teatrale.


Richard è “l’outsider” del gruppo,  un giovane provincialotto che all’ inizio pensa di essere stato catapultato per grazia divina in una realtà quasi perfetta: è stato accettato dal gruppo esclusivo degli studenti di Julian, studia materie elitarie, è ospite fisso della residenza di campagna dei gemelli Charles e Camilla in cui trascorre placidi week end a leggere, dormire e bere troppo. Richard mente sulla sua condizione economica e sulla sua vita familiare, perché è convinto di trovarsi di fronte a persone indiscutibilmente superiori a lui e non vuole perdere la sua chance di condurre un’esistenza idilliaca. Tutto sembra semplice, lineare: i gemelli Charles e Camilla, Francis, Henry e Bunny sono ricchi, colti, eleganti, raffinati, intelligenti. Sono i prescelti. Ma la realtà è ben altra cosa e presto scoprirà con terrore di essere stato manipolato da tutti loro,  ed accolto nel club esclusivo soltanto perché  la sua ingenuità  lo rendeva  ideale da raggirare. E’ stato facile per Henry, la mente del gruppo, usarlo come pedina ed aizzarlo contro Bunny.
Bunny: quello strano, quello diverso da tutti loro, l’amico di tutti, quello di cui non ci si poteva più fidare. Lo consideravano nient’altro che un cafone arricchito sempre senza una lira in tasca, che succhiava soldi ad Henry,  incapace di vivere secondo i loro dettami. Volgare, dozzinale, non era in grado di riconoscere ed apprezzare la vera bellezza. Il traditore, l’agnello sacrificale. La Tartt ci fa compiere lo stesso percorso di Richard, ci fa cadere negli stessi tranelli, vittime anche noi dei sottili maneggi del clan. All’ inizio del romanzo abbiamo tutti la certezza che sia Bunny quello sbagliato, quello indegno di stare all’ interno del gruppo. L’autrice ci conduce nella mente di Henry e ci fa assimilare il suo pensiero distorto. Ma poco dopo i ruoli si invertono spaventosamente: Richard prende coscienza di cosa sia realmente il gruppo, della gravità delle loro azioni, di come non ci sia in nessuno di loro una presa di coscienza riguardo al male che li ha investiti, ottenebrati, resi schiavi. Una volta pienamente consapevole esce dal gioco,  un gioco in cui forse non vi era mai entrato del tutto, riuscendo così a vedere gli altri ragazzi per quello che sono realmente: un branco di assassini senza speranza di redenzione. Prende le distanze e si salva da se stesso, mentre per tutti gli altri non ci sarà scampo.
Il romanzo si apre con una scena che, in realtà, è la sua conclusione. Un’immagine che, come accennato all’ inizio, porterò davanti agli occhi fino all’ultima pagina, esattamente come succede a Richard: Bunny, con il corpo che giace in una posizione innaturale, morto da molte settimane. Ben prima che giungesse il disgelo,  e che  la neve disciolta rivelasse così l’orrorifico segreto. Un segreto marcio, violento, crudele. Quel ragazzo giudicato sbagliato  perché senza fede e senza le virtù necessarie per comprendere l’ideale classico diventa la vittima di giovani fanatici, incapaci di distinguere la realtà dal mondo ideale che si sono costruiti.


Follia omicida, apoteosi del male  che sa plasmare i deboli, che si insinua nelle abitudini malsane, che si camuffa nelle vite ordinarie di persone apparentemente perbene, nella svogliatezza, nella noia, nell’ apatia, nell’ esagerata ricchezza che salva  dalle preoccupazioni quotidiane e che condanna ad un senso di superiorità fuorviante.


Non mi ha cambiato la vita leggere Dio di illusioni. Sarà perchè i vent’anni oramai li ho doppiati, e i romanzi di formazione non mi toccano più come avrebbero fatto una volta. Però è stata una lettura coinvolgente, che mi ha fatto molto riflettere sul male e sulla sua essenza, cosa che mi ha lasciato dentro un’inquietudine difficile da spiegare. Se  vale la pena attraversare il fiume impetuoso di Donna Tartt? Assolutamente sì. Dopo aver riletto quello che ho scritto non ho più dubbi.

Dio di illusioni, Donna Tartt – BUR RIZZOLI

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