“Tu sei il mio gatto, io sono il tuo umano” (Joseph Belloc)

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Il 24 ottobre 2017, la sera del mio 42° compleanno, al rientro a casa dopo un aperitivo con le amiche, ho trovato ad aspettarmi dei regali alquanto strani. Prima ho scartato un tiragraffi, poi due ciotole di metallo ed infine una cuccia e una cassetta di plastica azzurra. Avevo ovviamente già capito alla prima scatola. Dentro un trasportino, pigolante ed impaurito dai nostri festeggiamenti, vidi un micetto bianco e nero, uno scricciolo magro, col pelo arruffato, il moccio al naso e gli occhi cisposi: non esattamente un Adone! Me ne innamorai subito, e promisi a me stessa che avrei trasformato quella piccola creatura indifesa, sfuggita al gattile grazie all’adozione del mio compagno e di suo figlio, nel gatto più bello, più felice e più fortunato che si potesse immaginare. La signora che lo affidò a Roberto dopo qualche giorno si scusò così: “Se avessi saputo che era il regalo di compleanno della tua fidanzata, ne avrei scelto uno più bello”. Che offesa, Charlie! Il vero gatto non è un bambolotto peloso in sovrappeso, il vero gatto è come te: esile, con gli occhi obliqui che fendono l’aria, verdi come foglie, un manto soffice con disegni perfetti, un corpo sinuoso, scattante, che non si lascia domare facilmente. I gatti da pubblicità non fanno per me. Io ho scelto te, e tu, sicuramente, da quel giorno hai scelto me. E ci siamo salvati a vicenda. A volte, mentre ti osservo divertita corrermi incontro galoppando, con la coda bella dritta, penso che tu sia un gatto piuttosto anomalo. I gatti di solito restano indifferenti quando il loro umano rientra a casa, a meno che non abbiano fame: allora si strusciano contro le loro caviglie, fanno le fusa e poi, una volta svuotata la ciotola delle crocchette, tornano nella loro indifferenza felina. Tu invece no: quando mi senti salire le scale corri a sederti sul mobile in ingresso e miagoli dolcemente, per farti sentire da me. Mi aspetti fiducioso, perchè sai che una volta entrata da quella porta mi avvicinerò al tuo muso e cominceremo una danza affettuosa che solo noi due conosciamo. E’ il tuo modo per salutarmi, per comunicarmi che sei felice di vedermi, perchè anche oggi sono tornata a casa, a prendermi cura di te. Raramente mi aspetti lì perchè hai fame…quando hai fame, per prima cosa mi mordi i piedi! Beh, sai una cosa? Anche io sono felice di rivederti. Spesso in questi ultimi mesi sono tornata a casa stanca, arrabbiata, a volte sull’orlo delle lacrime. Ma aprire la porta e trovare il tuo muso che mi fissa, così pieno di attesa e di fiducia, mi strappa un sorriso, di quelli sinceri e leggeri che si fanno inconsapevolmente, anche quando tutto mi appesantisce il cuore. Le tue fusa, il tuo corrermi tra le gambe rischiando spesso di farmi cadere con borsa e giacca ancora addosso, è un rituale che mi rasserena. Occuparmi di te e delle tue necessità mi riporta con i piedi sulla terra e dissipa le mie ansie, perché tu non mi giudichi mai. Con te il rapporto è semplice, è un dare e un avere, senza fraintendimenti, senza dubbi, senza delusioni, senza conflitti, senza domande, senza risposte giuste o sbagliate. Non esistono discorsi da fare, parole da scegliere con cura, cose che vorresti dire ma che all’ultimo momento ricacci in gola per timore di scatenare le guerre puniche. Posso essere vestita male, posso essere ingrassata o dimagrita troppo, posso essere inadeguata, ma lo sarò solo per gli altri, mai per te. Per te sarò sempre perfetta così come sono, perché di me non ami certo la forma. Questo per una persona ipersensibile come me, che detesta il confronto continuo, è una cosa estremamente benefica e rilassante, che mi rimette in pace con il mondo. Di me ami il mio odore che sa di casa, le mie mani che ti procurano il tuo cibo preferito, che ti spazzolano il pelo, che giocano con te e che ti accarezzano quando, in piena notte, salti sul letto e cominci ad “impastare” il mio collo, facendo le fusa come un trattore. La mia presenza ti rassicura, ti calma, ti fa sentire protetto: questo l’ho letto da qualche parte, ma penso ci sia anche dell’altro. Nonostante la scienza affermi che il gatto è un animale solitario, che si affeziona più alla casa che alle persone, io non ci credo. Tu sicuramente provi qualcosa per me, non so bene cosa sia, non so se si può equiparare ad un sentimento umano, magari è solo istinto, magari mi vedi come se fossi un gigantesco gatto che ti comunica cura e devozione, ma una cosa è certa: sono sicura di occupare un posto importante nel tuo cuore felino. Ti osservo spesso affascinata, per come sai essere così indipendente ed orgoglioso, volitivo e testardo, riuscendo nonostante tutto a farti amare completamente. Dal mio punto di vista di essere umano, la tua esistenza è un’ eterna reclusione domestica, ma pur vivendo sempre in quarantena (come noi adesso), riesci ad essere il principe incontrastato dell’oggi che hai a disposizione. Non passi le giornate a desiderare un’altra vita, sei troppo occupato a sfruttare al meglio quella che hai. Sei signore e padrone del tuo tempo, un tempo in cui non esistono rimpianti per il passato e preoccupazioni per il futuro. Sei fiero del tuo aspetto, ti prendi cura del tuo mantello come se fossi la creatura più fantastica dell’universo, e non un semplice gatto pezzato. Quanta saggezza c’è in questo semplice gesto che compi decine di volte al giorno! Sei come un filosofo che ha compreso il significato profondo dell’esistenza: vivi la tua vita da gatto come più ti piace, te ne infischi dei giudizi altrui, libero di essere, di andare e venire quando vuoi, distribuendo fiducia con parsimonia e affetto solo a chi se lo è faticosamente conquistato. Per tutti gli altri non c’è posto, e se qualcuno ti fa un torto che tu giudichi irreparabile, non torni mai suoi tuoi passi. Piuttosto te ne vai a vivere per strada cacciando topi, se stare al caldo con la pancia piena significa perdere la tua dignità. La tua fierezza innata ti impedisce di chinare la testa: come sono sciocchi i cani, che si accucciano ai piedi del loro padrone anche dopo essere stati bastonati. Io nella mia vita sono stata molte volte un cane, per motivi che non ho ancora compreso bene, ma ora sono un aspirante gatto. Vuoi insegnarmi, Charlie? Vuoi insegnarmi come si fa a vivere l’attimo con tutto il proprio essere, senza curarsi d’altro?

Ora esco fuori a cercarti perchè sono ore che non ti fai vedere: l’ultima volta sei caduto dal terrazzo cacciando un piccione ben più grosso di te, ti ho trovato solo perché rispondevi al mio richiamo come un uccellino. Anche tu hai bisogno di me. Abbiamo bisogno l’uno dell’altro.

Dedicato al mio micio Charlie. Sarai sempre nel mio cuore, piccolino. (agosto 2017-ottobre 2021)

E book? NO, grazie!

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Forse è perchè in fondo sono un po’ retrò. Forse è perché se un libro non lo vedo posizionato in casa da qualche parte, mi sembra di non possederlo veramente. Non è solo un fatto sentimentale, una mania  o  il semplice desiderio a farmi sempre optare per questa soluzione. Ho analizzato la questione obiettivamente e sono giunta alla conclusione che le mie motivazioni sono reali, e  fanno tutte assolutamente parte della mia natura. Quindi non c’è modo di farmi cambiare idea. Ma quali sono questi motivi?

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1) Lavoro tutto il giorno al PC. Otto ore (spesso anche di più) allo schermo sono tante, sono troppe, mi stancano incredibilmente gli occhi e la mente al punto che spesso quando torno a casa la sera anche guardare un po’ di TV per me è un supplizio. Non ne posso più di schermi illuminati, voglio la quiete domestica con le sue luci naturali. Quando sono sola  spesso cucino con lo stereo acceso, mentre la minestra sobbolle sfoglio qualche pagina di libro, oppure una rivista. Ma la tv spesso resta spenta, ed ogni giorno che passa diventa sempre di più un oggetto d’arredamento e sempre meno un piacevole passatempo. In queste condizioni psico-fisiche leggere con un supporto digitale è fuori discussione, anche se lo schermo degli e-reader è retro-illuminato e quindi riposante per gli occhi e bla bla bla non mi interessa: mi disturba solo per il fatto che è un aggeggio  che necessita di una presa USB per sopravvivere.
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2) Credo che dopo aver letto il punto precedente si capisca molto bene una cosa: non sono un’appassionata di tecnologia. Diciamo che la utilizzo, la conosco, e soprattutto ne riconosco l’indubbia utilità e i grandi vantaggi, ma ho un pessimo rapporto con tutto quello che diminuisce l’elasticità mentale ed i contatti umani….fosse per me si potrebbe ancora comunicare tranquillamente con il Nokia 6630 e trastullarsi con il Commodore 64, ché tanto a caricare un gioco ci mettevi 57 minuti e nel mentre si potevano fare due chiacchiere con gli amici (i quali grazie a dio erano seduti lì con te sul divano, non erano ectoplasmi fluttuanti in una connessione wifi). Tutto questo smanettamento e  questa smania di essere sempre e comunque connessi con un mondo virtuale che  non esiste (rendiamocene conto per favore) la considero un’involuzione della specie umana. Siamo sempre più tecnologici, e sempre più soli. Le emozioni che proviamo ancora prima di essere elaborate dal nostro cervello vengono fotografate, opportunatamente filtrate e instagrammate. Diamo in pasto la nostra vita intima a internet, come se fosse una medaglia da esibire, e misuriamo la felicità contando i “like”.
Non rifiuto il secolo in cui vivo, non sono una Amish. La verità è che la tecnologia mi annoia a morte. Non capisco cosa ci sia di entusiasmante in un telefono che fa tutto il possibile immaginabile tranne quello per cui è stato progettato, ovvero telefonare. Millemila applicazioni diverse per fare quello che in teoria dovrebbe essere un istinto naturale degli esseri umani: socializzare. Sì, sono retrò. Ed in questo caso lo considero un pregio.

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3) Da qualche tempo colleziono segnalibri. Ogni volta che viaggio o che giro  per la città  e noto in libreria o in qualsiasi altro negozio segnalibri particolari, li compro. Meglio ancora quando mi aggiro tra  bancarelle, mercatini dell’usato e similari: lì si trovano delle vere chicche, spesso riesco a scovare segnalibri fatti a mano davvero originali e leziosissimi. Non si tratta certamente di un collezionismo di valore, ma è quel tipo di chincaglieria che riesce a donare un’aria festosa al  mio angolo dei libri  e che mi piace vedere ogni volta che lo spolvero, che cambio la disposizione degli oggetti, o che semplicemente lo osservo compiaciuta. Ma il momento che mi da più soddisfazione in assoluto è quando mi avvicino al portapenne che li contiene per scegliere quello  che segnerà le pagine della mia nuova lettura. Prima decido  il nuovo romanzo da leggere (altro momento topico, rulli di tamburi, momenti di tensione) e poi scelgo l’oggetto che mi accompagnerà per tutta la lettura. Mi dite come faccio, se leggo un ebook? Come posso utilizzare un anonimo segnalibro elettronico, che nemmeno vedo?
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4) Sono una di quelle lettrici che segnano le frasi, i pensieri, addirittura brani interi del libro che sta leggendo. Una pratica molto diffusa tra i bibliofili, a quanto ne so. Una volta, quando ero una sconsiderata che leggeva prevalentemente edizioni tascabili ed economiche, li segnavo facendo antipatiche orecchie alle pagine, o addirittura sottolineavo a matita i passi che mi interessavano. Poi mi sono evoluta, ho cominciato ad acquistare le prime edizioni e non volendo rovinare nulla del loro contenuto ho iniziato ad utilizzare post it colorati per sottolineare ciò che mi  colpiva di più. Ogni tanto prendo tutti questi post it, trascrivo le righe segnate su un blocco per appunti o sul pc, et voilà. Ho la mia piccola enciclopedia delle frasi. A pensarci bene, è tantissimo tempo che non ricopio più le frasi dai post it, quando mi deciderò a farlo dovrò scrivere per ore. Magnifico!

5) Tornando all’inizio del post: se una cosa non la vedo, non la tocco e non occupa uno spazio fisico  è come se non mi appartenesse. Non la sento mia. La percepisco come effimera, inconsistente, inesistente. E’ lo stesso motivo per cui compro anche la musica che mi piace davvero, spendendo cifre e cifre che non vi dico in cd e vinili: gli mp3 mi servono solo da riempitivo o da sottofondo mentre faccio le pulizie.  I libri e la musica per me non esistono in formato virtuale. Sono come i vestiti: devo aprire l’armadio e godere di quella vista, provare piacere e soddisfazione realizzando che, seppur tra mille difficoltà,  sono riuscita a crearmi una zona di comfort che mi rappresenta in pieno, che mi contraddistingue, e che segna il mio passo in questo mondo. Come direbbe Carrie in Sex and the City :” I miei soldi li voglio là dove posso vederli: tutti appesi nel mio armadio”. Libreria o armadio , che differenza fa?

“Immagina i corvi”, di Luca Sorrenti: storie nere di provincia

Io ho immaginato.
Ho immaginato un piccolo paese della Puglia arroccato su Le Murge, dove il tempo pare essersi fermato. Ho rievocato nella mia mente quella lontana estate del 1986, teatro di questa storia tragica ma allo stesso tempo bellissima, ed ho rivisto una  ragazzina undicenne alle prese con l’insondabile mondo degli adulti. Il campionato mondiale di calcio che si svolgeva in Messico faceva da sottofondo alla pace di quei lontani pomeriggi di vacanza, oziose giornate in cui mio padre era a casa dal lavoro e la telecronaca di Bruno Pizzul era un’eco comune a tutto il vicinato. Quegli anni me li ricordo bene. Ricordo tutto: “la mano de dios” di Maradona, l’Italia che perse il titolo conquistato in Spagna quattro anni prima lasciandoci delusi e polemici, e quel caldo torrido che aveva colpito anche la liguria. Più volte, scorrendo le pagine, mi è sembrato di leggere una parte della mia infanzia.
“Immagina i corvi” è stata  una lettura per certi versi casuale con risultati inaspettati, che mi ha coinvolta e tenuta col fiato sospeso fino alla fine. Si tratta di un thriller, o meglio, di un giallo. Preferisco definirlo “giallo” perché il thriller ha alcuni elementi imprescindibili che qui non ci sono, o meglio, non completamente. Il ritmo non è sempre serrato, la suspence a tratti si perde nelle pieghe della storia, i colpi di scena spesso sono preceduti da affermazioni dell’autore che inevitabilmente tolgono pathos e fanno calare la tensione narrativa. C’è però il delitto irrisolto, il mistero che aleggia intorno a fatti apparentemente inspiegabili, una matassa che pare aggrovigliarsi ad ogni pagina anziché dipanarsi, fino ad arrivare alla verità. Una verità terribile e crudele, forse la più agghiacciante a cui ero mai stata messa di fronte in tanti anni di letture di genere. Il punto forte del romanzo è l’ambientazione, particolare e  suggestiva. Come spiegavo all’inizio l’autore riesce abilmente a catapultare il lettore  nell’estate  del 1986, in un piccolo paese dell’entroterra pugliese.
In quel microcosmo sperduto tra le montagne il tempo sembra essersi congelato, abbracciato da un’immobilità che mette i brividi. E’ il periodo del primo governo socialista nella storia della repubblica italiana, con Bettino Craxi ai vertici ma  ormai dimissionario, mentre la politica internazionale è segnata dall’anti europeismo della Lady di Ferro, al secolo Margareth Thatcher. E’ l’epoca della Milano da bere, degli yuppies, di nuovi ceti sociali che emergono grazie ad un diffuso benessere economico che viene ostentato senza freni. Ma la modernità che avanza non riesce a penetrare a Spinosa, dove gli abitanti continuano a vivere barricati dietro i loro pregiudizi e la società sembra impermeabile ai cambiamenti: il parroco, il sindaco, il medico, il farmacista, la zitella, l’immigrato, il barbone avvinazzato, il matto del paese di cui tutti hanno paura. Questa è la stratificazione sociale di Spinosa, un equilibrio inalterato nei secoli che un giorno come tanti cade in mille pezzi, sotto i colpi della follia omicida. C’è una chiesa sconsacrata a Spinosa, dove da sessant’anni giacciono sepolti gli scomodi segreti  di alcuni anziani del posto, che allora erano appena adolescenti. Un patto antico, una promessa tra ragazzi che però aveva in sè un forza devastante.  Nessuno di loro ha mai più dimenticato, trascinandosi dietro quell’assurdo fardello fino a quando  ciò che sembrava sepolto per sempre si è risvegliato. Come l’avverarsi di una terribile profezia.
I corvi, il Male, Dio, il Diavolo, l’uomo, la morte. Appassionatamente stretti in un caldo e soffocante abbraccio nel tuo paese.
Immagina un bimbo seviziato e il suo cadavere finito, non si sa come, nel giardino di un’abitazione maledetta.
Immagina un delitto in un luogo chiuso. Porte e finestre sono sbarrate dall’interno. E nessuno avrebbe potuto uccidere in quelle condizioni e nessuno sarebbe potuto fuggire. Eppure è accaduto.
Anche i corvi sono tornati in paese, proprio come nel 1926, e gli abitanti di Spinosa sanno bene che il loro arrivo può significare solo una cosa: disgrazia, morte, orrore.
Questo giallo/thriller ha i toni cupi di un romanzo gotico, e strizza l’occhio a diversi autori importanti della letteratura internazionale. Quando descrive il piccolo paese teatro degli atroci delitti mi è sembrato attingesse a piene mani da Stephen King, che è un vero maestro del genere (La piccola provincia americana è la sua scenografia preferita). Altri  richiami  sono poi evidenti quando l’autore fa entrare in scena il personaggio di Eugenio Corsi, un uomo con una forte menomazione psichica che da anni vive recluso insieme agli anziani genitori, incapace di avere un qualsiasi contatto sociale. E’ la vittima sacrificale dell’ignoranza e della diffidenza dei compaesani, che non conoscono la sua malattia e per questo ne hanno paura. Le grida che dicono di sentire nel cuore della notte, urla agghiaccianti di disperazione e dolore, per gli abitanti di Spinosa, così timorati di Dio, hanno solo un significato:  è la voce di un mostro, una creautra del demonio, essere immondo capace di qualsiasi tipo di violenza. Eugenio Corsi non è altro che  la versione pugliese di Boo Ridley, il protagonista silenzioso de “Il buio oltre la Siepe” di Harper Lee. Meno riuscito forse, ma sempre efficace proprio  per il significato importante che la sua triste storia porta con sè. Infine il nostro bravo autore ha voluto omaggiare un classico della letteratura gialla di tutti i tempi: l’ “enigma della camera chiusa“. Una locuzione con la quale si indica una specie di “sottogenere” di romanzo giallo in cui il delitto viene compiuto in una camera chiusa dall’interno, in una circostanza quindi  apparentemente impossibile. Il fulcro della vicenda non è la ricerca del colpevole, bensì scoprire come sia stato commesso il crimine in questione. Una roba assolutamente intrigante, trattata da geni quali  Edgar Allan Poe  (I delitti della Rue Morgue) e da John Dickson Care (le tre bare). Rispettivamente il capostipite e il maggior esponente di questo genere. Verrebbe da pensare quindi che  il nostro Luigi Sorrenti ha compiuto un certo numero di azzardi mettendo tutti questi riferimenti importanti in un romanzo d’esordio, ma tant’è. L’ha fatto e tutto sommato gli è riuscito piuttosto bene, perché il romanzo si legge senza riuscire a smettere, mi ha tenuta  inchiodata alle pagine e  una volta richiuso mi ha  lasciato quel sottile velo di angoscia che noi giallisti conosciamo bene. Quando succede questo, significa che il giallo funziona. Ha rispettato tutti i dogmi della letteratura di genere ed ha superato ampiamente la prova, almeno per quanto mi riguarda.
Credo che l’autore sia originario dei posti narrati, perché descrivere con tale trasporto una terra arida e ingrata come  quella delle  Murge Pugliesi di quegli anni è possibile solo se quei luoghi ce l’hai nel cuore. Doveva per forza esserci stato quando il progresso bussava alla porta dell’immaginaria Spinosa ma gli abitanti lo respingevano, forti delle loro tradizioni e delle loro superstizioni. Nelle ultime pagine si sente tutto l’amore e la nostalgia per questo paese, nonostante le terribili contraddizioni e l’arretratezza culturale in cui versava la maggior parte della popolazione locale. Ma l’ignoranza non è quasi mai una colpa, perché quella terra amara bisognava pure lavorarla,  non c’era tempo da perdere con i libri.
Essendo un esordio è naturale che i difetti ci siano e che siano piuttosto evidenti. Ho trovato l’edizione poco curata, con diversi refusi, ed il fatto che la pubblicazione sia avvenuta tramite una casa editrice minore non giustifica tali mancanze. Minore non vuol dire peggiore. Inoltre non mi è piaciuto il finale, sicuramente non all’ altezza di tutto il resto del romanzo: mi è parso frettoloso e raffazzonato, non mi ha soddisfatto per niente il confronto tra il commissario di polizia e il colpevole. Sbrigativo e superficiale,  lascia molti dubbi e tante domande senza una risposta esaustiva.
Non ho voglia però di dare troppo rilevanza a questi aspetti, perché tutto sommato non lo trovo giusto. Un esordio così non va deplorato a causa di un finale sottotono o di un editing poco curato, perchè gli elementi validi sono tanti e Luigi Sorrenti è un autore davvero in gamba, con un ottimo stile e che sa fare presa sui sentimenti umani. Una felice scoperta, una lettura appagante e completa: un’affermazione che non si può fare spesso quando si parla di gialli.

Immagina i corvi – Luigi Sorrenti (TRE60)

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La notte di Santa Lucia

Mia nonna Maria, dopo che mia madre e i suoi fratelli si erano finalmente addormentati aspettando invano Santa Lucia fino a tardi, tracciava con un bastone dei solchi nella neve davanti alla porta di casa, che andavano fin dentro al granaio; dopo di che portava via dalla finestra le carote e i biscotti che i suoi figli avevano lasciato per ringraziare Lucia e il suo asinello di essersi ricordati anche della loro umile casa. L’indomani mattina, tre paia d’occhi colmi di stupore e di gioia infantile trovavano sempre fuori dalla porta un giocattolo di legno ciascuno; i segni del carretto che spiccavano nella neve fresca erano la prova tangibile che Santa Lucia era passata davvero con l’asinello di San Pietro, e che si erano rifocillati con il loro cibo.

La felicità, nel 1945, in una casa di mezzadri della Bassa Padana, esisteva davvero.
Come Santa Lucia.