“Dracul” di Dacre Stoker & J.D. Barker: tra miti e antiche leggende

Vlad III di Valacchia, Voivoda discendente dei Drakul conosciuto col nome patronimico “Dracula”, passato agli onori delle cronache come “Vlad Tepes”, che in rumeno significa “L’impalatore”:  la leggenda più famosa del mondo, un personaggio realmente esistito che Bram Stoker prende in prestito dalla storia per dare vita ad una delle figure letterarie più famose e indimenticabili, quella del vampiro “Dracula”. Come sappiamo, Bram Stoker si ispirò al principe rumeno, noto per la sua brutalità, per creare l’ultimo, e probabilmente il più grandioso, dei romanzi gotici. Ad alimentare la fantasia dell’autore vi era anche quel nome così intriso di significati occulti, perché “Drakul” in lingua rumena significa “demoni”. Una coincidenza perfetta , un incastro tra storia e finzione narrativa che avrebbe funzionato alla perfezione…forse persino troppo, per essere solo frutto di una fantasia. Quello che  molti ignorano, e che io ho scoperto soltanto oggi (molti anni dopo averlo letto), è che Bram Stoker nella prefazione originale all’opera sosteneva la piena veridicità delle vicende narrate. Quando l’editore londinese di Stoker lesse le pagine di presentazione si rifiutò categoricamente di pubblicare il manoscritto come storia vera: Londra era ancora sconvolta dalle terribili vicende di “Jack Lo squartatore” e dare alle stampe un romanzo-verità in cui il protagonista uccideva le proprie vittime per cibarsi di sangue umano avrebbe certamente suscitato ondate di panico. Quella che è arrivata fino a noi è quindi una seconda versione del manoscritto, amputata dalle affermazioni sull’esistenza del Principe Vlad, aristocratico vampiro dalla leggendaria efferatezza. Le pagine mancanti sono circa un centinaio: cosa contenevano?

Ribadisco che la misteriosa tragedia qui descritta sia totalmente vera in tutti i suoi aspetti esterni. (Prefazione originale di “Dracula”)

In quale ordine di successione siano presentate queste carte risulterà evidente a chi le leggerà. Tutti i fatti superflui sono stati eliminati, in maniera che una storia apparentemente inverosimile e quasi incompatibile con le credenze di oggi possa reggere come una semplice realtà. (Prefazione a “Dracula”)

A questo punto viene naturale porsi una domanda: come mai un uomo così colto e concreto come Stoker, che studiò al Trinity College di Dublino sia materie umanistiche che scientifiche, laureandosi poi a pieni voti in matematica, appassionato recensore di spettacoli teatrali e dedito alla carriera nella pubblica amministrazione, avrebbe dovuto credere ad una leggenda popolare al punto tale da ritenere necessario divulgare le sue convinzioni? Quale messaggio voleva trasmettere al mondo, quale sconcertante verità doveva rivelare? E’ proprio questo il perno su cui ruota “Dracul”: l’ossessione dell’antenato Stoker per i vampiri, giustificata dall’inconfutabile certezza della loro esistenza. In questo senso il romanzo può considerarsi un prequel: qui troveremo la risposta ai tormenti di Stoker, poiché il protagonista è lui stesso. Viaggeremo tra i suoi ricordi, frugheremo tra i segreti della sua famiglia e affronteremo i suoi incubi. Analogamente a “Dracula” , anche “Dracul” è strutturato come un romanzo epistolare, in cui ai numerosi carteggi si alternano pagine di diari privati che servono al lettore per calarsi nella storia e per comprenderne meglio le dinamiche. Bram Stoker era un bambino con una salute molto cagionevole, gracile e sfortunato, che molto spesso si ritrovò a sfiorare la morte. Trascorse buona parte della sua infanzia rinchiuso in una stanza e allettato, a subire i salassi dello zio medico nella speranza che le sanguisughe lo epurassero dal sangue malato. Incontriamo il piccolo Bram mentre combatte contro la più grave delle sue ricadute, una strenua lotta in cui gli sforzi dello zio parevano vani più del solito. Durante i suoi deliri febbrili il ragazzino ha però la netta percezione che la tata della famiglia Stoker, Ellen Crone, gli stia prestando cure particolari, come se qualcosa di terrificante e sconosciuto stesse per riportarlo alla vita. Tata Ellen è una giovane donna dotata di una bellezza tanto straordinaria quanto inquietante, molto amata dai ragazzi Stoker. Ma Ellen, in realtà, è un vampiro. O meglio: è una Dearg Due.

“Dearg Due”, che in irlandese significa “pollone rosso sangue”, è un demone di natura femminile che seduce gli uomini e poi li prosciuga del loro sangue. Secondo la leggenda celtica, una giovane donna conosciuta in tutto il paese per la sua bellezza, si innamorò di un contadino locale, cosa inaccettabile per suo padre. Egli la costrinse a sposare un ricco nobiluomo molto più anziano di lei, dal quale subì maltrattamenti di ogni sorta, fino a quando non sopportò più la sua disgrazia e decise di suicidarsi gettandosi dall’alto della torre in cui viveva rinchiusa. Fu sepolta vicino a Strongbows Tree nella contea di Waterford, ma la notte successiva alla sua tumulazione risorse dalla tomba per vendicarsi di suo padre e di suo marito, succhiando il loro sangue fino alla morte. Da quel momento la ragazza venne chiamata “Dearg Due” e continuò ad usare la sua straordinaria bellezza per attirare a sè gli uomini ed ucciderli, in un’eterna vendetta per i soprusi subiti.

Ma torniamo a noi. Tata Ellen, intenerita dalle sofferenze del piccolo Bram, quella notte gli offre il suo sangue immortale, guarendolo da una malattia crudele che lo avrebbe certamente ucciso prima di raggiungere l’età adulta. Poi sparirà per sempre. Passano gli anni e Bram inspiegabilmente non accusa più nessun problema di salute, anzi, cresce forte e robusto e pare avere acquisito addirittura la capacità di rimarginare le proprie ferite straordinariamente in fretta. Oramai diventato adulto, incapace di dimenticare quella notte misteriosa, si mette sulle tracce di Tata Ellen, coinvolgendo nelle sue ricerche anche la sorella Matilda ed il fratello maggiore Thornley, angosciato per l’improvvisa e inspiegabile follia della moglie. Pagina dopo pagina veniamo risucchiati nelle spire di una storia orrorifica, in cui le leggende dei non – morti si mescolano alla storia personale della famiglia Stoker. L’autore, abile a tessere trame come un ragno con la sua tela, prende in prestito le più terrificanti leggende popolari mischiando Dearg Due irlandesi e Strigoi rumeni, a dimostrazione del fatto che i Vampiri sono miti trasversali il cui ceppo, però, è uno solo. Dracul. Non è un caso che il Principe Vlad qui venga nominato senza la “a” finale: è lui il padre di tutti i demoni, e la risposta al perché dell’ossessione di Bram Stoker. Dracul e la Dearg Due sono legati da un filo rosso d’amore e morte che scopriremo andando avanti con la storia, lo stesso che ha unito per sempre tata Ellen al piccolo Bram…e lo stesso per il quale ora Dracul vuole il giovane per sè. Nell’inquietante incipit, degno della migliore tradizione, troviamo Bram assediato all’ interno della torre di un’abbazia sconsacrata, circondato da crocefissi e rose bianche per tener fuori il “mostro”, con riserve di acqua santa ed in mano un fucile carico. Stremato da quella lotta e temendo di non arrivare vivo all’ alba, prende carta e penna e comincia a scrivere quanto accaduto fino ad allora, a cominciare da quella notte di tanti anni prima, quando Tata Ellen sparì strappandolo alla morte.

Non sapremo mai quanto Bram Stoker credesse nella propria storia, pare comunque che questa sua ossessione lo perseguitasse abbastanza da scegliere la cremazione per la propria sepoltura. Una pratica che, nel 1912, non era certamente così diffusa come oggi. Verrebbe quasi da pensare che l’abbia fatto proprio per evitare di trasformarsi in un non-morto al servizio di forze oscure, che vanno ben oltre la comprensione umana.


Aldilà di queste illazioni, ciò che resta è un romanzo ben costruito, che pur restando molto fedele all’impostazione del Dracula originale riesce a mantenere la sua individualità. Avventuroso ed angosciante, ricalca perfettamente le regole del gotico e, ovviamente, anche dell’horror più raffinato. Attraverso  uno stile impeccabile  gli autori riescono a conferire alla narrazione un ritmo incalzante, che fa lievitare la tensione pagina dopo pagina, fino a culminare in una lotta allegorica tra forze del bene e forze del male.


Tuttavia non mi sento di consigliare questo romanzo ai soli amanti del gotico ed ai nostalgici di Stoker, perché dietro la sua stesura c’è un grande lavoro di ricostruzione che merita di essere conosciuto e apprezzato, anche e soprattutto dal punto di vista filologico. Dacre Stoker, a più di un secolo di distanza, si è messo alla ricerca dei dettagli, delle note e dei diari del proprio antenato per cercare di capire quanto ci fosse di vero, quanto la fervida immaginazione di Bram bambino avesse influito sulla creazione di Dracula e quanto l’autore effettivamente credesse all’esistenza dei non-morti. Le ultime pagine, ricche di annotazioni degli autori, sono le più intriganti di tutto il volume e lasciano noi lettori piuttosto sgomenti, a domandarci se forse Bram Stoker non avesse avuto ragione ritenendo la leggenda più antica e più diffusa del mondo assai più vicina a noi di quello che immaginiamo.

Dracul, Dacre Stoker & J.D. Barker – Nord

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“La zona morta”, di Stephen King: l’ineluttabilità di un destino

 
Johnny Smith è insegnante di letteratura in un liceo di Castle Rock, nel New England, anticonformista e  divertente, molto amato dai suoi alunni. Siamo nel 1970 e Johnny, poco più che ventenne, da qualche tempo frequenta Sarah, una sua collega: dopo alcune peripezie amorose piuttosto insoddisfacenti Sarah incontra ad una festa Johnny e rimane incantata dalla sua dolcezza e dalla sua simpatia. Giovani e innamorati, non sanno che il destino sta per abbattersi sulle loro vite come una mannaia, affilata e maledetta. Dopo aver riaccompagnato Sarah al termine di una serata di festa  trascorsa alla fiera del paese (è la notte di Holloween), Johnny resta vittima di un  incidente stradale a bordo del taxi che lo stava riportando a casa. A causa del terribile schianto rimarrà in coma per più di quattro anni.
Quando si risveglia, con sgomento apprende che il suo mondo è completamente ed irrimediabilmente cambiato: Sarah si è sposata con un altro uomo ed ha un bambino di pochi mesi, sua madre – che già presentava segni di squilibrio prima dell’incidente – ha aderito ad una setta religiosa che predica l’imminente fine del mondo ed è totalmente preda di un fanatismo  che la sta portando alla pazzia; inoltre, si scopre invalido. Le sue gambe si sono atrofizzate, muscoli e tendini sono rattrappiti e non riescono più a sostenerlo. Per tornare alla normalità dovrà affrontare una lunga riabilitazione e un’operazione avanguardistica, ma non è questo l’aspetto peggiore del suo risveglio. John durante lo stato vegetativo ha acquisito un dono al tempo stesso straordinario e terribile: col solo contatto delle mani è in grado di visualizzare nella sua mente la storia delle persone con il loro passato, il loro presente ed il loro futuro. Durante la permanenza in ospedale per la riabilitazione comincia a diffondersi la voce che Johnny è una specie di veggente, al punto che una volta tornato a casa non troverà più in pace. La cassetta della posta è inondata di lettere, di messaggi e di oggetti provenienti da chicchessia, tutte persone che cercano disperatamente di avere notizie di cari scomparsi, mariti fedifraghi, figli dispersi. E’ l’inizio di un incubo, perché l’ignoranza di massa di cui è vittima comincerà a vedere in lui un essere sovrannaturale, un cialtrone che vuole solo arricchirsi, un veggente da mettere sotto contratto. Ognuno ha un’etichetta da affibbiargli, pronto ad osannarlo o a saltargli addosso.  Johnny è un ragazzo schivo che mal sopporta tutta questa pressione da parte dei media che lo additano senza pietà e si sente soffocare dalle continue richieste di aiuto nella ricerca di persone scomparse. Decide così di isolarsi dalla comunità e cerca di riappropriarsi della sua vita, ricominciando per prima cosa dall’ insegnamento:  nulla però andrà come previsto. King è molto abile nel farci entrare in punta di piedi nel mondo interiore di Johnny, un mondo che un giorno come tanti subisce una trasformazione dolorosa ed inaspettata, definitiva e terribile. Il suo tormento muove sentimenti di tenerezza e di comprensione  e induce inevitabilmente il lettore  a porsi una domanda, la stessa che l’uomo si pone da sempre: conoscere il futuro sarebbe un dono o una maledizione? Che impatto avrebbe sulle nostre vite, sarebbe uno strumento che aiuterebbe l’umanità o la distruggerebbe definitivamente? Certo la questione è complessa e la risposta non può esaurirsi in poche righe all’ interno di un romanzo di intrattenimento, ma sicuramente è un pensiero che non lascia indifferenti e su cui vale la pena soffermarsi a riflettere.
 
Johnny comincia a capire che ci sarà un prezzo molto alto da pagare,  perché tutto quello che travalica i confini delle cose terrene porta con sè un contrappeso devastante. Comincia a farsi strada la convinzione di possedere uno strumento potente e  prezioso, che fa di lui una specie di predestinato, e ne ha la conferma quando sente l’impulso irrefrenabile di avvicinarsi ad un uomo politico dalla dubbia moralità che sta tenendo comizi in tutto il Maine in vista delle prossime elezioni. Quando stringe la mano del candidato alla presidenza Greg Stillson un flusso di immagini terrificanti gli arrivano davanti agli occhi, come un fiume in piena: non sono nitide, sono come segnali interrotti, ma la percezione è forte e non lascia dubbi riguardo la catastrofe imminente. Deve agire, e subito. Il futuro presidente degli Stati Uniti è un pazzo psicopatico e solo lui può vedere quell’ uomo ignorante e abietto già insediato sullo scranno della casa bianca .
Come sempre nelle storie che Stephen King racconta l’elemento sovrannaturale è perfettamente stemperato dalla  quotidianità dei suoi personaggi,  così che  mentre proseguiamo con la lettura non facciamo più caso alla differenza tra realtà e finzione romanzesca. L’aspetto psicologico è sempre molto ben sviluppato, e si presta per accogliere al meglio quello che di straordinario accade, mentre la vita scorre con il suo flusso regolare.

Credo che Johnny sia il protagonista kingiano più nostalgico che abbia mai incontrato: si porta addosso come una pesante cappa il rimpianto per gli anni che il coma gli ha rubato, per il suo giovane amore appena nato e subito perduto, per quel figlio che doveva essere suo, per sua madre vittima di un fanatismo religioso che forse avrebbe avuto bisogno di più comprensione, per una riabilitazione fisica e psichica dolorosa di cui porta ancora i segni, per l’emarginazione sociale che subisce a causa della sua diversità.

Ma soprattutto,  lui non vorrebbe essere costretto a   vedere. Non vorrebbe essere in grado di conoscere le terribili verità che si annidano dietro una semplice stretta di mano, perché il prezzo da pagare è troppo alto. La vita è un lancio di monetina, ma se sapessimo già il risultato come potremmo goderci l’istante perfetto in cui essa volteggia in aria, prima di ricadere al suolo? L’attesa e la speranza, non sono forse queste le cose che più di tutto ci fanno restare aggrappati alla vita?

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“…Ma volevo che tu sapessi che ti penso, Sarah. Davvero, per me non c’è mai stata qualcun’altra e quella notte fu la nostra notte più bella, anche se a volte mi è difficile credere che vi sia mai stato un anno 1970… Senza calcolatori, senza videocassette… E altre volte mi sembra che quel tempo sia tuttora vicinissimo, da poterlo quasi toccare. Mi sembra che se potessi tenerti tra le braccia, o toccare la tua guancia, o la tua nuca, potrei portarti via con me in un futuro diverso senza dolore o tenebre o scelte amare. Bene, tutti noi facciamo quello che possiamo e dobbiamo accontentarci… e se non ci basta dobbiamo rassegnarci. Spero soltanto che tu mi penserai nel modo migliore che ti riesce, Sarah cara. Con tutto il cuore e tutto il mio amore.”

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ll dramma umano di Johnny è la vera forza di questo romanzo, e pazienza se siamo di fronte ad un autore ancora acerbo, che ha lasciato diverse lacune nella storia e che si è perso in almeno un centinaio di pagine.
Io, a Stephen King, perdono tutto.

 

 
 
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“Cujo”, di Stephen King: il labile confine tra orrore e quotidianità

“Cujo” è un romanzo che Stephen King diede alle stampe nel 1981, edito in Italia nello stesso anno. Essendo all’epoca solo seienne non mi preoccupavo ancora di chi fosse quest’uomo che sentivo nominare solo di tanto in tanto da mio fratello e mio cugino, e soprattutto cosa facesse per essere così famoso. Siamo in pieni anni ’80 e King è all’apice del suo successo, con all’attivo libri fenomenali come “Shining”  e “Le notti di Salem”: è, in poche parole, l’idolo della cultura popolare di quel periodo. Ed ora io, che l’ho scoperto solo con la maturità, sto cercando di leggere tutte le sue opere più datate, tra le quali non poteva mancare questo agghiacciante romanzo in cui l’orrore è rappresentato dal migliore amico dell’uomo: un cane domestico. E  questo lo rende ancora più terrificante. Ma procediamo con ordine: Cujo è il bizzarro nome del cane San Bernardo che da anni è il compagno fedele della famiglia Camber, un gigante buono con una stazza di quasi cento chili conosciuto da tutti gli abitanti dell’immaginaria cittadina di Castle Rock, nel Maine. Ha una natura docile e giocosa, e passa  tranquillamente le sue giornate  tra il capanno degli attrezzi di Joe Camber e la casa in cui la famiglia vive.
Un giorno, rincorrendo un coniglio che  per sfuggirgli si intrufola in una tana di pipistrelli, viene morso sul muso da uno di questi. Purtroppo l’animale trasmette la rabbia a Cujo, che da placido cagnone dagli occhi buoni si trasforma poco alla volta in una belva feroce. La terribile malattia gli distrugge ora dopo ora il sistema nervoso centrale, rendendolo idrofobo ma al contempo terribilmente assetato, iper sensibile ai suoni acuti e ottenebrato da pensieri omicidi. Mentre Cujo avverte impotente questi cambiamenti verificarsi nel suo cervello, una diversa vicenda  sconvolge le mura domestiche apparentemente tranquille di un’altra famiglia, quella dei Tranton. Donna e Vic, marito e moglie, sono nel pieno di una crisi coniugale, che raggiunge l’apice nel momento in cui noi lettori iniziamo ad addentrarci nella storia. Vic scopre infatti che Donna l’ha tradito con un poco di buono del paese, un omuncolo da nulla che però scardina completamente un rapporto già traballante. Il loro bimbo di appena 4 anni percepisce il disagio dei genitori, nonostante essi cerchino in tutti i modi di rassicurarlo e proteggerlo. La sua mente infantile trasforma il dolore e la tensione che tutti stanno vivendo in incubi notturni ricorrenti, in cui crede di scorgere dentro al suo armadio un terribile mostro dagli occhi rossi. Pagina dopo pagina, in un crescendo di tensione come solo King sa dispensare, i tragici destini dei Camber e dei Trenton convergeranno sotto l’impietosa violenza del San Bernardo.
Entrambe le storie raggiugono il loro culmine  quando Vic  si trova fuori città per lavoro mentre Donna, insieme  al piccolo Tad, decide di portare la loro vecchia auto  all’officina di Joe Camber per farla riparare. Siccome gli incubi in cui ci getta King  sono sempre una reazione a catena di follia, l’autore deciderà di far fermare la macchina dei Trenton proprio lì davanti, oramai con il motore completamente in panne. Dove, completamente impazzito, si aggira Cujo con i suoi istinti sanguinari. Da questo momento in poi è come se la storia si congelasse in un unico, lentissimo fotogramma che ha come sfondo l’abitacolo di un’auto scassata. Le ore, addirittura i minuti vengono scanditi da un ritmo sempre più dilatato che tende l’angoscia come un elastico e risucchia in una voragine di terrore i protagonisti, istante dopo istante.
Due sono gli elementi che mi hanno particolarmente colpito in questo romanzo: uno è il fatto che questa volta l’autore non ricorre ad elementi sovrannaturali per eviscerare le nostre paure (ricordiamolo sempre: King non insinua la paura in noi, ma sono le nostre paure a prendere forma leggendo quello che scrive) ma punta tutta la storia su qualcosa di molto semplice e naturale, ovvero una malattia diffusa e conosciuta come la rabbia. Qualcosa quindi di plausibile, di estremamente reale, che dimostra quanto la finzione narrativa sia spesso meno orrorifica della vita quotidiana. Stiamo parlando di un autore che riesce sempre e comunque  a disseminare nei suoi romanzi qualche colpo da maestro, quel guizzo geniale che lo contraddistingue e che non ci fa mai pentire dei soldi spesi per rincorrere la sua prolifica produzione: solo lui saprebbe dare forma ai pensieri di un cane il cui cervello si sta ottenebrando, rendendo quelle sensazioni talmente veritiere da far provare in chi legge una stretta al cuore. E’ questo il secondo elemento che mi ha notevolmente impressionata, perché non solo chi scrive riesce a non scivolare nel ridicolo (se ci pensiamo bene, sarebbe bastata una parola di troppo) ma sono fermamente convinta che se un cane ammalato di rabbia avesse dei pensieri, e avesse potuto esprimerli, l’avrebbe fatto esattamente in quel modo. Noi lettori vediamo Cujo come un mostro ma al contempo, quando attraverso i suoi occhi un tempo così buoni assistiamo agli sforzi che inizialmente  compie per non attaccare nessuno della sua famiglia, proviamo compassione e tenerezza. Un prodigio tutto kingiano, che ci dimostra ancora una volta quanto il confine tra il bene ed il male non sia mai così netto, anzi: è talmente labile e sottile che spesso non ci rendiamo conto di attraversarlo.
Era tutta una bugia. Il mondo era pieno di mostri e non c’era niente che potesse impedirgli di mordere gli innocenti e gli incauti.
Un tradimento tra coniugi, un bambino in preda a brutti sogni, una famiglia piena di conflitti, una vincita alla lotteria, un’auto che ha bisogno di riparazione: sono tutti accadimenti comuni, sono storie di persone normali che ad un certo punto si trasformano nel peggiore degli incubi: l’orrore non si nasconde solo in crudeli assassini, in creature border line, zombie o anime possedute dal Male, ma può celarsi anche nella più banale tranquillità domestica. E’ questo il messaggio, ed è quello su cui fa riflettere King. La paura del piccolo Tad, quel mostro che credeva di vedere nell’armadio con gli occhi infuocati, forse non è solo una innocua fantasia infantile quando è il proprio cane, un gigante dall’indole pacifica e adatto a salvare vite umane, a trasformarsi nel più crudele degli assassini.
Ma è qualcosa di dannatamente reale.

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