“Tra cielo e terra”, di Paula McLain: storia di una pioniera

Paula McLain, autrice di “Una moglie a Parigi” (biografia romanzata di Hadley Richardson, la sfortunata prima moglie di Ernest Hemingway) si riconferma un’autrice di grande talento. Quando Neri Pozza ha pubblicato “TRA CIELO E TERRA” l’ho acquistato immediatamente, certa di imbattermi nuovamente in un romanzo di ottima fattura. Le qualità della McLain non sono in discussione, perché il suo stile si riconosce subito e la prosa è di altissimo livello, eppure ho percepito in questo suo ultimo lavoro una lieve stonatura, qualcosa che non ha funzionato del tutto. Inoltre, in alcuni momenti della storia, avrei volentieri preso a schiaffi la protagonista. Ma procediamo con ordine. Anche questa volta siamo di fronte alla biografia di un’altra donna fuori dal comune, Beryl Clutterbuck, la prima donna a volare in solitario attraverso l’Oceano Atlantico da Est a Ovest. La sua fu una vita straordinaria, priva di regole, anticonformista fino all’eccesso. Beryl, nata in Inghilterra il 26 ottobre del 1902, si trasferisce con i genitori in Kenya quando era ancora in fasce. Fin da piccolissima  cresce libera e selvaggia in quelle terre al confine con l’equatore, in cui il crepuscolo dura un istante e la notte cala rapida e buia come una mannaia, talmente immobile da poter sentire gli animali tra le sterpaglie respirare e srisciare. Nonostante le difficoltà di adattamento la fattoria piano piano prende forma, ma questo non basta per convincere la madre di Beryl a restare: dice che l’Africa è troppo dura per la sua salute e per quella del figlio maggiore Dicky. Così torna in Inghilterra con lui lasciando Beryl da sola con il padre, disinteressandosi per lunghi anni alla sua bambina. Beryl non la perdonerà. Per tutta la vita si porterà dietro il dolore di questo crudele abbandono, una perdita che non riuscirà mai a compensare del tutto e che la porterà a compiere scelte sbagliate e autodistruttive. Al tempo stesso però questo dolore così acerbo la trasformerà in una donna coraggiosa e sicura di sè, e (quel che più conta) indipendente dal giudizio altrui. L’infanzia di Beryl è un periodo nonostante tutto felice, la fattoria è ben avviata e lei cresce forte e serena, imparando ad allevare i cavalli fin da ragazzina. Quando trent’anni dopo si troverà da sola a sorvolare l’oceano, penserà al suo Kenya come alla cosa più bella della sua vita, l’unica forse per la quale è valsa la pena resistere e andare avanti. Il suo punto fermo, la sua casa. E’ proprio così che comincia il romanzo, con Beryl che sta per portare a termine la sua impresa più difficile e nel mentre ripensa alla sua vita in Africa, dall’infanzia all’età matura.
La sua fu un’educazione sicuramente poco ortodossa per una donna dell’epoca: vuoi per la mancanza della figura materna, vuoi per il suo carattere ribelle, crebbe letteralmente come un maschio. A nulla valsero gli insegnamenti della governante che il padre le aveva affiancato per cercare di conformarla alla gioventù coloniale di quei tempi. Beryl era diversa, uno spirito anticonformista che si adattava magnificamente a quel paradiso naturale che l’aveva cresciuta, istruita, protetta. Imparò a parlare lo swahili, il nandi e il masai. A volte, quando l’immobilità delle notti africane si posava sopra Green Hill, Beryl sgusciava fuori dalla finestra del suo capanno per incontrarsi con Kibi, un bambino indigeno, e insieme ascoltavano affascinati le storie che gli anziani della tribù raccontanvano attorno al fuoco. Kibi sarebbe diventato un guerriero, e lei sognava di diventare come lui.
Le suggestive descrizioni dei paesaggi africani hanno un ruolo importante nella prima parte del romanzo, perché sono fondamentali per l’evoluzione della piccola Beryl. E’ questa secondo me la parte migliore del romanzo, perché quando Beryl diventa adulta la magia del contintente africano si perde sullo sfondo, l’amore per la sua terra diventa marginale e per lungo tempo rimarrà sopito. Sono altre le cose che acquistano spazio nella sua vita: la scoperta della sua sensualità, l’amore fisico, i tre matrimoni e i molteplici amanti (veri o presunti che fossero) Ma fu soprattutto la passione per Denys Finch-Hatton a dominare gli anni impetuosi della sua giovinezza, sentimento che si attenuò solo con la morte di lui. Durante la sua permanenza in Kenya, tra un matrimonio e l’altro, Beryl conobbe la baronessa Karen Blixen e cominciò a frequentare la sua tenuta (proprio lei, la scrittrice de “LA MIA AFRICA”). Denys Finch era l’amante di Karen Blixen. Era uno spirito molto più affine a Beryl che alla baraonessa, un avventuriero e un aviatore che dedicò tutta la sua vita alla scoperta dell’ Africa e della sua natura selvaggia. I safari che organizzava erano autentiche spedizioni in mezzo al nulla e non si sapeva mai quanto potessero durare, né dove potessero condurlo. Denys però, nonostante offrisse a Beryl qualche fugace incontro, non lasciò mai Karen: era da lei che tornava sempre, e Karen gli perdonava tutto.
A questo punto però mi devo fermare una attimo, per riflettere su quello che ho letto fino a qui. Questa donna si sposò tre volte senza amare mai nessuno dei suoi mariti, o almeno mai completamente. Lascia il suo primo marito perché lei era troppo giovane e lui troppo violento, e perché fu un matrimonio combinato al quale non si volle sottrarre per amore del padre. Gli altri due furono degli appigli scriteriati a cui si aggrappò perchè non poteva avere il suo cacciatore di elefanti. Due tristi ripieghi. Dal secondo marito ebbe anche un figlio, ma in realtà nemmeno l’amore materno apparteneva alla sua indole: dopo qualche tentativo maldestro di accudimento decise di lasciarlo per sempre alle cure della suocera, in Inghilterra. Non se ne occupò mai più. Non era nata per fare la moglie e la madre, perché la sua felicità non poteva prescindere dalla sua libertà e dall’ Africa, che rappresentava al meglio questo suo bisogno egoistico. La serenità domestica la faceva sentire in gabbia, era un desiderio a lei completamente estraneo. Ammetto che l’ho giudicata, e ammetto anche di aver provato un pò di fastidio leggendo quanto questa donna fosse libertina, spregiudicata, infantile e anaffettiva. L’autrice in questo è brava, perché ci racconta la sua vita così come in effetti è stata lasciando a noi lettori il compito di criticarla o meno per le sue scelte. A prescindere dall’ idea che ognuno di noi può farsi su Beryl, il romanzo ha però un piccolo difetto: è troppo incentrato sulle vicende sentimentali dei protagonisti, quando invece ci sarebbero state molte altre cose interessanti da approfondire. La passione di Beryl per il volo è raccontata in modo molto marginale e solo verso la fine, nelle ultime 50 pagine. Probabilmente perché tutto il corpo del romanzo è volto a questo, ovvero a farci comprendere come Beryl arrivò ad intraprendere una strada così fuori dal comune per una donna dei suoi tempi. Però non c’è continuità nel racconto, è come se ad un certo punto l’autrice non abbia trovato l’appoggio per condurci verso l’ultima parte. Basti pensare che in tutto il romanzo non si parla mai di aeroplani, nemmeno un accenno. E’ come se ci dicesse “Ecco fatto, siamo arrivati sino a qui. D’ora in avanti la sua passione diventa il volo”. Il suo è un ritratto riuscito, ma non completamente. E’ anche vero che la stessa Beryl scrisse una sua autobiografia, edita recentemente anch’ essa da Neri Pozza ( “A OCCIDENTE DELLA NOTTE) in cui descrive la sua vita in Africa, iniziata in quel piccolo capanno in mezzo alla foresta Kenyota e che terminò in una casetta a Nairobi, dove morì ultraottantenne. Probabilmente l’autrice ha voluto porre maggiormente l’attenzione sulla vita intima di questa donna per farci comprendere meglio la sua personalità eclettica e difficile, evitando così di creare doppioni. Resta comunque una falla lieve, una considerazione personale che non toglie nulla alla piacevolezza del romanzo.

Dopo l’indimenticabile “La mia Africa”di Karen Blixen, anche la McLain (tra un gossip e l’altro) ci regala un’ istantanea della vita coloniale del continente africano, un mondo ricco di privilegi e benessere economico dove le tenute dei signorotti inglesi, tirate su nel cuore di una natura inospitale e intatta, erano simboli di civiltà e progresso.

I cacciatori allestivano i loro campi in mezzo alle immense ed inesplorate pianure kenyote per plasmare quella natura selvaggia, ma lo facevano con stile : Denys Finch-Hatton si faceva servire la cena dai suoi “portatori” con raffinate ceramiche, posate d’argento e bicchieri di cristallo, mentre le musiche di Mozart, suonate da un vecchio grammofono a manovella, accompagnavano il pasto. Un contrasto stridente, forte, che affascinava gli spiriti avventurieri. In questo mondo così fortemente dominato dagli uomini, ancor più che in Inghilterra, le donne non avevano alcun ruolo, se non quello di compagne dedite alla casa e alla prole. La stessa baronessa Blixen portava come un’onta il suo status di divorziata, perché l’essere “una donna di nessuno” le precludeva le porte dell’alta società. Paradossalmente, era meglio essere sposata e avere un amante di cui tutti sapevano che infrangere un matrimonio. In un contesto simile la straordinaria modernità di Beryl era una condanna senza appello, che le valse innumerevoli chiacchiere e contrasti di ogni tipo.
Ad ogni modo  questo romanzo fa’ il suo dovere, restituendoci l’immagine di una donna moderna e indipendente non tanto per la sfrontatezza delle sue scelte sentimentali, alcune proprio di dubbio gusto, ma perché ha sempre cercato con coraggio di realizzare i propri sogni e perché ha combattuto e vinto gli uomini del suo tempo sul loro stesso terreno.

E’ stata una bambina che giocava con gli indigeni e desiderava diventare come loro, anziché indossare gonnelline inamidate e imparare le buone maniere; è stata la prima donna ad ottenere il brevetto come allevatrice di cavalli, anziché sfruttare il buon nome di suo padre debuttando in società (in realtà lo fece, ma le riuscì malissimo). Ed infine è stata la prima donna a sorvolare l’oceano, perché volare era rimasta l’unica cosa in grado di farla sentire libera, viva, felice. Era quel brivido che rincorse per tutta la vita.

Curiosità:
Ernest Hemingway pare sia il filo conduttore dei due romanzi dell’autrice. Lo scrittore infatti, durante uno dei suoi safari in Africa, conobbe Beryl Markham e (da buon dongiovanni qual era) pare abbia tentato un approccio, affascinato da questa donna. Beryl però gli diede il due di picche. Nel 1942 Beryl pubblica il suo romanzo autobiografico di cui ho accennato all’ inizio, “A OCCIDENTE CON LA NOTTE”, ma nessuno se lo fila. A parte Hemingway, che si ricordò di lei, e lo lesse. In una lettera privata, trovata postuma, scrive: “Hai letto il libro di Beryl Markham, West with the Night? …Ha scritto così bene, e meravigliosamente bene, che ho provato una totale vergogna per me stesso come scrittore. Mi sono sentito come un comune carpentiere con le parole, che prende ciò che gli viene fornito per il lavoro e inchiodando (quei pezzi) assieme, di tanto in tanto crea un porcile accettabile. Ma questa ragazza, che da quel che mi è dato sapere è estremamente spiacevole e potremmo persino dire una stronza di prima classe, può scrivere anelli attorno a ciascuno di noi che ci consideriamo scrittori … è davvero un libro dannatamente meraviglioso.” Questa lettera venne letta da un tale che si chiamava Gutekunst e che faceva il ristoratore; Gutekunst si procurò una copia di seconda mano di “A Occidente della notte” e gli piacque a tal punto che convinse un editore californiano suo cliente a ristamparlo. E diventò un best seller. E Beryl, ormai ottantenne, visse gli ultimi anni della sua vita a Nairobi nell’ agio, dopo un’esistenza non proprio confortevole.
PS: questa cosa di Hemingway che da della stronza a Beryl perché probabilmente è stato rifiutato, è una splendida chicca. E va bene che Hemingway era un donnaiolo, ma temo che su Beryl avesse proprio ragione!

Tra cielo e terra – Paula McLain (Neri Pozza)

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